Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 42605 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 42605 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nata a Isola di Capo Rizzuto Il 20/11/1969 NOME nato a Isola di Capo Rizzuto 11 18/06/1962 NOME nata a Isola di Capo Rizzuto il 22/11/1965
avverso la sentenza del 29/11/2023 della Corte Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile i ricorsi udito il difensore
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza pronunciata il 23 novembre 2023 la Corte di appello di Catanzaro, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Crotone che aveva ritenuto NOME COGNOME in qualità di legale rappresentante della “RAGIONE_SOCIALE“, NOME COGNOME e NOME COGNOME quali amministratori di fatto della stessa, responsabili del reato di cui agli artt. 81 co pen. e 5 d.lgs. n 74 del 2000, per aver omesso la presentazione delle dichiarazioni annuali relative ai redditi e all’IVA per gli anni 2010, 2011 e 2012 e li aveva
condannati alla pena di anni uno, mesi quattro, giorni dieci di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche e della continuazione – ha dichiarato non doversi procedere con riferimento agli anni di imposta 2010 e 2011, perché estinti per prescrizione, ed ha confermato nei confronti dei predetti l’affermazione di responsabilità per l’anno di imposta 2012 (con un reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi pari ad euro 759.312,96 ed evasione IRES per 208.811,06), rideterminando la pena in anni uno, mesi quattro di reclusione, con conferma della sospensione condizionale della pena per i primi due imputati e della non menzione per NOME
Avverso l’indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore degli imputati affidandosi a tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 192, 546 e 533 cod. proc. pen. ritenendo non sussistenti gli elementi costitutivi del reato.
Si rimarca che nella decisione impugnata la Corte di appello ha omesso di confrontarsi con le deduzioni oggetto dei motivi di gravame, laddove si era evidenziato che la condanna in primo grado era stata fondata essenzialmente sull’accertamento tributario; che vi erano costi sostenuti da parte della società che non erano stati contabilizzati, dei quali non si conosce come ed in che misura abbiano potuto incidere sull’abbassamento dell’imposta evasa fino a farla scendere al di sotto della soglia di punibilità.
Ci si duole che la sentenza di appello si sia conformata a quella di primo grado e che non presenti alcuna connotazione critica ai motivi di appello difensivi.
Si ribadisce che è pacifico che in tema di reati tributari, in sede penale, non possono applicarsi le presunzioni legali o i criteri validi in sede tributaria e s rimarca che nel caso di specie sia mancata da parte dei giudici di merito una concreta verifica ed autonoma valutazione degli elementi indicati nell’accertamento induttivo e qualsiasi comparazione con gli altri elementi acquisiti nel processo.
2.2 Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta qualifica di “amministratore di fatto” di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Ci si duole, in particolare, che la Corte di appello non abbia valutato quanto già rappresentato nell’atto di appello, ossia che anche i testimoni escussi avevano tenuto ben distinta la figura dell’amministratore della società da quella dei loro dipendenti.
2.3 Con il terzo motivo si censura il vizio di violazione di legge per non aver la Corte di appello dichiarato la prescrizione del reato, maturata prima della sentenza di appello.
Con requisitoria scritta il Sost. Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso proposto.
Il difensore dei ricorrenti ha depositato memoria scritta in replica alla requisitoria del pubblico ministero, insistendo nei motivi di doglianza
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi proposti sono inammissibili.
1.1 Il primo motivo di doglianza è inammissibile perché reiterativo dei motivi di gravame proposti da NOME COGNOME, a sua volta comuni agli ultimi motivi di appello proposti nell’interesse dei due Giordano.
1.2 I ricorrenti deducono vizio di violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 192, 546 e 533 cod. proc, pen, per avere le due sentenze di merito ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato, fondando la condanna sulle presunzioni legali e sui criteri validi in sede tributaria, senza alcuna concreta verifica ed autonoma valutazione degli elementi indicati nell’accertamento induttivo e senza qualsiasi comparazione con gli altri elementi acquisiti nel processo, nonché con i motivi di appello della difesa, che avrebbero dovuto portare a ritenere più bassa l’imposta evasa e non raggiunta la soglia di punibilità.
1.3 Il motivo proposto è, come anticipato, inammissibile, risolvendosi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere alla tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME e altri, Rv. 243838).
1.4 Premettendo che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, nel caso in esame ricorre la c.d. “doppia conforme” e la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda perfettamente con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizza nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale. (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 – 01; in termini conformi, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01), nessuna censura può muoversi ai giudici di merito.
1.5 Diversamente da quanto affermato nel ricorso, i giudici di merito non si sono limitati a recepire acriticamente gli accertamenti tributari ma, seguendo un
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percorso logico adeguato, fondato sugli elementi probatori raccolti, nonché applicando criteri giuridicamente corretti perché non apoditticamente riproduttivi di quelli induttivi che connotano gli accertamenti tributari, con conseguente inammissibilità anche di questo motivo di ricorso, sono pervenuti alla condanna, in secondo grado limitata solo al delitto consumato il 29 dicembre 2013, relativo alla dichiarazione dei redditi per l’anno 2012 – essendo stato dichiarato non doversi procedere con riferimento ai delitti di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi relativa agli anni 2010 e 2011 in quanto estinti per prescrizione – confrontando gli accertamenti compiuti dall’Agenzia delle entrate e dalla Guardia di Finanza (da cui era risultato che, per l’anno di imposta 2012, il volume di affari IVA era pari a 759.312,96 euro e che l’imposta evasa ammontava a 208.811,06 euro) e tenendo conto che la gli imputati non erano in grado di esibire alcuna documentazione sulla società di servizi RAGIONE_SOCIALE SERVICE da loro amministrata, esercente attività di ristoranti, pizzerie osterie, birrerie con cucine, con le dichiarazioni dei fornitori e dei clienti della struttura (che hanno consentito di stimare costi e ricavi), con l’esame dei fogli settimanali, delle camere occupate e dei banchetti gestiti.
Inammissibile, perché, oltre ad essere anch’esso reiterativo dei motivi di appello, si risolve in una valutazione in fatto, il secondo motivo di censura, con il quale si contesta la ricostruzione del fatto e la valenza degli elementi di prova, in ordine alla ritenuta qualifica di sig. COGNOME quali amministratori di fatto della società, sindacato, questo, non consentito nel giudizio di legittimità, non essendo possibile in questa sede invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260, e più di recente, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud., dep. 2021, F.; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; pronunzie che trovano precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
2.1 Circa il ruolo di amministratori di fatto dei ricorrenti i giudici di mer hanno valorizzato una serie di elementi emergenti dalle dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria e dai fornitori della società da cui risultava, per quanto riguarda NOME COGNOME che la stessa era titolare della ditta individuale La
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Campagnola ed ha operato con essa in continuità con la RAGIONE_SOCIALE, locando, ad un prezzo assolutamente “simbolico” (200,00 euro al mese), come simbolici erano i vari contratti (uno di comodato, uno di affitto e uno di locazione commerciale) che li riguardavano, gli immobili utilizzati per l’attività di ristorazion ed alberghiera della RAGIONE_SOCIALE, nei quali la ditta RAGIONE_SOCIALE continuava comunque ad operare, nonostante la locazione; per quanto riguarda NOME COGNOME, che questi trattava le forniture di prodotti per conto di entrambe le ditte e di fatto, unitamente a NOME COGNOME, gestiva l’attività dell’hotel La Campagnola e quella della RAGIONE_SOCIALE; complessivamente, che le due imprese erano situate nello stesso stabile, erano attive, avevano stipulato contratti di locazione di immobili meramente simbolici, le persone che lavoravano per l’una, lavoravano anche per l’altra, la documentazione societaria delle due ditte era conservata in modo assolutamente promiscuo, la COGNOME firmava cambiali intestandole indifferentemente ad entrambe le ditte.
2.2 A fronte di questi elementi valorizzati dai giudici di merito, i ricorren continuano a prospettare la propria tesi, senza in alcun modo confrontarsi con la motivazione dei giudici di merito che, senza incorrere in alcuna manifesta illogicità, desumibile dal testo del costrutto argomentativo, e facendo corretta applicazione dei principi di diritto in punto di responsabilità penale degli amministratori di fatt ha fornito puntuale risposta ai rilievi difensivi, oggetto dei motivi di appello, questa sede riproposti nei medesimi termini.
L’ultimo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
3.1 II termine massimo di prescrizione previsto per il reato in questione, tenuto conto dell’interruzione, è di dieci anni, in ragione del combinato disposto dell’art. 157 cod. pen. e dell’art. 17, comma 1-bis, d.lgs n. 74 del 2000, decorrente ot&< 4 0 4' 0144° 29 di VaI GLYPH cembre 2013 (termine ultimo per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta 2012) ed esso, calcolando i periodi di sospensione ex art. 159 cod. pen. (pari, complessivamente, a 307 giorni) non solo non era maturato prima della sentenza di appello, come erroneamente si sostiene nel motivo di ricorso, ma non è ancora decorso (quand’anche poi lo fosse stato, l’inammissibilità del ricorso precluderebbe comunque il rilievo della prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata). Yo
Alla declaratoria di inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere per i ricorrenti del pagamento delle spese del procedimento nonché, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
Il collegio intende in tal modo esercitare la facoltà, introdotta dall’art. 1
comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare, oltre il massimo edittale, la sanzione prevista all’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso,
considerate le ragioni della inammissibilità stessa come sopraindicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 14/10/2024.