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Amministratore di fatto: quando si risponde dei reati

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta a carico di un’ex amministratrice unica di una società. Il ricorso, basato sulla presunta assenza di un ruolo gestionale dopo la cessazione della carica formale, è stato respinto. La Corte ha stabilito che continuare a operare con autonomia sui conti correnti societari costituisce una prova sufficiente per qualificare il soggetto come amministratore di fatto, rendendolo penalmente responsabile per i reati commessi in tale veste.

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Pubblicato il 24 dicembre 2025 in Diritto Penale, Diritto Societario, Giurisprudenza Penale

Amministratore di Fatto: Quando la Gestione Occulta Porta alla Condanna

La figura dell’amministratore di fatto è una delle più complesse e rilevanti nel diritto penale societario. Chi gestisce un’impresa senza averne la carica formale può essere chiamato a rispondere dei reati commessi, come la bancarotta fraudolenta? Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione è tornata su questo tema, chiarendo quali elementi concreti sono sufficienti per attribuire la responsabilità penale a chi, pur avendo rassegnato le dimissioni, continua a esercitare un’influenza determinante sulla vita della società.

I Fatti del Processo: Dalla Carica Formale alla Gestione Occulta

Il caso riguarda un’imprenditrice, condannata in primo e secondo grado per bancarotta distrattiva e documentale. Inizialmente amministratrice unica di una società a responsabilità limitata, dichiarata fallita nel 2011, aveva formalmente cessato la sua carica alla fine del 2009. Tuttavia, secondo l’accusa, aveva continuato a gestire la società come amministratore di fatto anche nel periodo successivo, compiendo atti che avevano danneggiato i creditori.

La difesa della ricorrente si basava su un punto cruciale: dopo le dimissioni, ogni attività di gestione sarebbe cessata. A sostegno di questa tesi, si evidenziava come il Tribunale avesse in passato individuato altre figure, come la figlia e il defunto marito, quali amministratori di fatto. Inoltre, si contestava l’interpretazione data dai giudici di merito alle dichiarazioni della curatrice fallimentare, sostenendo che i riferimenti agli atti di gestione dell’imputata riguardassero esclusivamente il periodo in cui ricopriva ancora la carica formale.

La Decisione della Cassazione: i Criteri per l’Amministratore di Fatto

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna. I giudici hanno ribadito un principio consolidato: la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 del codice civile, presuppone l’esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione gestoria.

Per accertare tale posizione non è necessaria una carica formale, ma l’analisi di elementi sintomatici che dimostrino un inserimento organico del soggetto nella gestione societaria. Questi elementi possono includere la gestione dei rapporti con dipendenti, fornitori e clienti, e il compimento di scelte strategiche e operative per l’azienda.

Le Motivazioni della Corte

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che la motivazione della Corte d’Appello fosse logica e priva di vizi. La prova decisiva è stata individuata nelle dichiarazioni della curatrice fallimentare, la quale, anche in sede di rinnovazione dell’istruttoria in appello, aveva confermato che l’imputata aveva mantenuto piena autonomia operativa sui conti correnti della società anche dopo la cessazione della carica.

Questo elemento, secondo la Cassazione, è un fatto gestionale concreto e inequivocabile, sufficiente a dimostrare la persistenza del suo ruolo direttivo. La Corte ha inoltre smontato la tesi del ‘travisamento della prova’, spiegando che l’interpretazione dei giudici di merito era del tutto plausibile: definire l’imputata come “di fatto amministratore unico” aveva senso proprio in riferimento al periodo successivo alle dimissioni, poiché prima di allora ella era amministratrice “di diritto”. La Corte ha infine ricordato che il suo ruolo non è quello di riesaminare le prove, ma solo di verificare la correttezza logico-giuridica del ragionamento del giudice di merito.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce con forza che la responsabilità penale per i reati societari non si ferma alle nomine formali. Chiunque eserciti un potere gestionale concreto e continuativo su una società, anche senza un incarico ufficiale, ne diventa un amministratore di fatto e, come tale, è pienamente responsabile delle proprie azioni. La gestione dei flussi finanziari e l’operatività sui conti bancari rappresentano una delle prove più significative di tale ruolo. Questa decisione serve da monito: le dimissioni da una carica sociale non costituiscono uno scudo contro la responsabilità penale se, nei fatti, si continua a governare l’impresa.

Chi è considerato ‘amministratore di fatto’ di una società?
È colui che, pur senza una nomina formale, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici della funzione di amministratore, inserendosi organicamente nella gestione aziendale.

Quali atti possono dimostrare il ruolo di amministratore di fatto dopo la cessazione della carica formale?
Secondo la Corte, mantenere l’autonomia e operare regolarmente sui conti correnti della società anche dopo aver lasciato la carica formale è un fatto gestionale concreto e sufficiente a dimostrare tale ruolo.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione delle prove fatta dal giudice di merito, come la testimonianza del curatore fallimentare?
No, non è possibile chiedere alla Corte di Cassazione una nuova interpretazione delle prove. Il suo controllo si limita a verificare che non vi sia stata una distorsione palese ed evidente del dato probatorio (il cosiddetto ‘travisamento della prova’) e che la motivazione della sentenza sia logica e non contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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