Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10853 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10853 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CADONEGHE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 29/05/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Milano, con la sentenza emessa il 29 maggio 2023, confermava la sentenza del Tribunale milanese, che aveva accertato la responsabilità penale di NOME COGNOME, in ordine al delitto di bancarotta societaria in relazione alla RAGIONE_SOCIALE, per causazione del dissesto per effetto di operazioni dolose, consistite nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti, e per il delitto di bancarotta documentale, consistita nella sottrazione di libri e scritture contabili, nonché che per violazione degli artt. 49, 220 e 226 legge fall., non essendosi presentato senza giustificazione al curatore che lo aveva convocato.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di due motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 192 cod. proc. pen. e all’art. 2639 cod. civ., in relazione alla ritenuta qualità d amministratore di fatto attribuita all’imputato.
In sostanza, il ricorrente evidenzia per un verso che il quadro indiziario valorizzato dalla Corte territoriale non rispondeva alle caratteristiche di precisione, concordanza e certezza, dovendo ritenersi che la corrispondenza a mezzo due mali, inviate a mezzo posta ordinaria e non certificata, per quanto firmata da COGNOME, in realtà poteva essere stata inviata da un terzo, e che l’intestazione RAGIONE_SOCIALE fatture al COGNOME e il suo essere socio non potevano ritenersi adeguati a comprovare la continuità e la significatività degli poteri esercitati, tanto più che non emergeva la possibilità di una gestione dei conti bancari della società da parte dell’imputato, anche in favore di se stesso, l’età dell’imputato (63 anni), l’assenza di contatti istituzionali da parte dei COGNOME. In sostanza il quadro indiziario non raggiungerebbe la prova della qualità di amministratore di fatto oltre ogni ragionevole dubbio.
Il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto di bancarotta documentale.
La Corte di appello non avrebbe, secondo il ricorrente, rinvenuto elementi per attribuire all’imputato la sottrazione RAGIONE_SOCIALE scritture e dei libri contabili risulterebbe una motivazione quanto al dolo, in vero tratto solo dalla condotta in sé, il che dovrebbe condurre a ritenere configurabile la bancarotta documentale semplice.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte – ai sensi dell’art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 – ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Il difensore del ricorrente ha depositato memoria conclusiva, con la quale ha reiterato le ragioni di ricorso chiedendone l’accoglimento, anche in replica alla requisitoria della Procura generale.
Il ricorso è stato trattato senza intervento RAGIONE_SOCIALE parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Quanto al primo motivo, lo stesso è per un verso non consentito, per altro verso generico e manifestamente infondato.
2.1 A ben vedere, non è consentito il motivo con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità RAGIONE_SOCIALE doglianz connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza RAGIONE_SOCIALE norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027). Difatti la deduzione del vizio di violazione di legge, in relazione all’asserito malgoverno RAGIONE_SOCIALE regole di valutazione della prova contenute nell’art. 192 c.p.p. ovvero della regola di giudizio di cui all’art. 533 dello stesso codice, non è permessa non essendo l’inosservanza RAGIONE_SOCIALE suddette disposizioni prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come richiesto dall’art. 606 lett. c) c.p.p. ai fini della deducibilità della violazion di legge processuale (ex multis Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567; Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, COGNOME e altri, Rv. 264174; Sez. 1, n. 42207/17 del 20 ottobre 2016, COGNOME e altro, Rv. 271294; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, COGNOME., Rv. 274191; Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027). Né vale in senso contrario la qualificazione del vizio dedotto operata dal ricorrente come error in iudicando in iure ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p., posto che tale disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda solo l’errata applicazione della legge sostanziale, pena, altrimenti, l’aggiramento del limite (posto dalla citata lett. c) dello stesso articolo) della denunciabilità della violazione di norme processuali solo nel caso in cui ciò determini una invalidità (ex multis Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, COGNOME, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2 In ordine alla violazione di legge in relazione all’art. 2639 cod. civ., secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione la nozione di amministratore di fatto, introdotta dalla richiamata norma civilistica, postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualific od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non
episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534).
E bene, nel caso in esame, in primo luogo il ricorso non si confronta con due elementi decisivi indicati dalla Corte territoriale, posti a base della attribuzione della qualità di amministratore di fatto.
Il primo attiene alla pregressa qualità di COGNOME, che era stato amministratore di diritto della società dal luglio 2007, allorché diveniva socio dell’80% RAGIONE_SOCIALE quote sociali, trasferendone la sede a Milano e trasformando l’oggetto sociale, da quello inerente alle attività di pulizie in quello relativo alla ricerca, progettazione commercializzazione di apparecchiature elettroniche: tale qualità di amministratore di diritto dismetteva COGNOME il 22 aprile 2008, risultando in pari data la nomina di COGNOME NOME.
Il secondo elemento riguardava la circostanza che NOME decedeva in data 14 gennaio 2009 e la società, però, aveva continuato ad operare anche nei primi mesi del 2009, effettuando operazioni di acquisto intracomunitario per importi rilevanti già iniziati nel 2007 e 2008, quindi in continuità. Al decesso di NOME non conseguiva alcuna comunicazione alla RAGIONE_SOCIALE né era intervenuta alcuna nuova nomina in sostituzione.
In questo contesto fattuale, la Corte di appello, e il Tribunale prima, in doppia conforme rilevavano come indicativi della continuità gestionale di COGNOME fossero, in uno ai predetti elementi, sia il rinvenimento RAGIONE_SOCIALE mali tra RAGIONE_SOCIALE e altra società olandese, attraverso le quali RAGIONE_SOCIALE assicurava alla controparte il pagamento della commessa, indice ulteriore di gestione direttiva; sia anche la circostanza che la morte di NOME avesse fornito l’occasione a COGNOME di proseguire nell’attività gestoria celandosi dietro lo schermo formale della amministrazione del defunto, non essendo statone comunicato il decesso né essendo stata operata la sostituzione.
A ben vedere la censura non si confronta con tali argomenti decisivi, limitandosi a contestare la paternità RAGIONE_SOCIALE mai!, indicate in due e non allegate, in modo del tutto aspecifico, oltre che ipotetico.
A ben vedere, proprio la regola di giudizio invocata dal ricorrente e compendiata nella formula del “al di là di ogni ragionevole dubbio”, impone di
pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale RAGIONE_SOCIALE cose e della normale razionalità umana (ex multis Sez. 2, n. 2548/15 del 19 dicembre 2014, Pg in proc. Segura, Rv. 262280).
Naturalmente il dubbio deve essere “ragionevole”; tale non è quello che si fonda su un’ipotesi alternativa del tutto congetturale e priva di qualsiasi conferma e la ragionevolezza non può che risultare dalla motivazione, atteso che un dubbio non motivato è già di per sè “non ragionevole” (Sez. 4 n. 48320 del 12 novembre 2009, Durante, rv 245879 e in motivazione).
E tale, appunto, alternativa congetturale è quella consistente nell’essersi un terzo abusivamente spacciato per COGNOME nelle ínterlocuzioni a mezzo ma/I, a sua insaputa e con l’account della società: si tratta di una tesi del tutto astratta e senza spunti concreti di conferma.
Come pure manifestamente infondata è la censura allorché richiede che per comprovare la continuatività e la significatività dell’esercizio dei poteri gestori occorrano elementi sintomatici tipici, quali la gestione dei conti correnti bancari o l’appropriazione di denaro.
A ben vedere la valutazione che attribuisce al qualità di amministratore di fatto al ricorrente, scaturisce dalla complessiva ricostruzione operata dalla Corte di appello che in modo non illogico vede COGNOME comunque gestire prima, da amministratore di diritto nel periodo in cui già risultavano emesse fatture per operazioni inesistenti, fin dal quarto trimestre del 2017 (cfr. sentenza di primo grado, foll. 7 e 8), e poi successivamente da amministratore di fatto, durante l’amministrazione di COGNOME e proseguendo anche dopo la morte dello stesso: gli avvisi di accertamento dall’RAGIONE_SOCIALE per complessivi 38 milioni di euro furono emessi per gli anni di imposta 2007, 2008, 2009 dunque sia nel periodo di amministrazione di diritto che di amministrazione di fatto.
Anche l’omessa comunicazione alla RAGIONE_SOCIALE della morte di COGNOME e l’omessa sostituzione dell’amministratore di diritto deceduto, che dovevano essere promosse dall’imputato quale socio di maggioranza, confermano la volontà di COGNOME di rimanere celato, argomento con il quale neanche il ricorso si confronta.
Pertanto, il motivo è aspecifico, oltre che non consentito e manifestamente infondato.
Quanto al secondo motivo lo stesso è aspecifico e manifestamente infondato.
Per un verso lamenta che non vi sia una motivazione in ordine al dolo della bancarotta fraudolenta documentale: a riguardo la Corte di appello conferma la condotta ritenuta dal Tribunale, incidente sulla impossibilità di ricostruire i movimenti patrimoniali.
A tal riguardo deve rilevarsi come il Tribunale collega il dolo a una specifica volontà connessa alla evasione sistematica dei tributi, che risultava la strategia della società e non il frutto di difficoltà economiche.
Il primo RAGIONE_SOCIALEo individua poi il dolo nella volontà di rendere impossibile la ricostruzione degli affari della società, rilevando come tale volontà fosse conseguente anche all’omessa presentazione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni fiscali dal momento dell’ingresso in società dell’imputato. La Corte di appello, pur errando nel riferimento al dolo, indicandolo come generico in luogo di specifico, conferma la volontà dell’imputato di rendere impossibile la ricostruzione RAGIONE_SOCIALE vicende del patrimonio della fallita.
Essendo secondo i Giudici del merito comprovata la stabile e sistematica direzione illecita dell’azione della società tesa a evadere il fisco, non è manifestamente illogica la valutazione di rilevanza di tali elementi sintomatici di fraudolenza comprovanti il dolo specifico, che sostengono la prova della coscienza e volontà di arrecare pregiudizio ai creditori, a cominciare da quello erariale che vantava un credito tributario per 38 milioni di euro: in sostanza /emerge per i RAGIONE_SOCIALE una precisa e diretta volontà tesa a impedire la ricostruzione degli affari per potere procedere nell’evasione fiscale senza lasciare prove e per poter impedire alla curatela fallimentare la comprensione dei movimenti intervenuti a garanzia dei creditori.
Per altro, va evidenziato anche come il dolo specifico richiesto per la bancarotta documentale specifica non consiste solo nella volontà di arrecare pregiudizio ai creditori (in questo caso al Fisco, quale creditore principale) impedendo la ricostruzione della movimentazione in sede di procedura fallimentare, ma anche nel procurare ingiusto profitto a sé o a terzi, cosicché anche la condotta di celare o distruggere la documentazione contabile che avrebbe potuto comprovare o determinare nuove accuse per sé o per terzi integra il dolo specifico, alla luce della nozione del fine di profitto, come declinato in relazione al delitto di furto, trasferibile anche alla condotta in esame, che consiste in qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore (Sez. U, n. 41570 del 25/05/2023, C., Rv. 285145 – 01).
D’altro canto, è anche profitto quello di preservare i proventi acquisiti a mezzo RAGIONE_SOCIALE operazioni inesistenti di acquisto intracomunitario.
Pertanto, il motivo è manifestamente infondato. E comunque, a fronte della motivazione resa dalla sentenza di primo grado, che collega l’omesso deposito RAGIONE_SOCIALE scritture all’evasione fiscale sistematica, già il motivo di appello risultava aspecifico, perché continuava ad affermare che la prova del coefficiente soggettivo fosse stata tratta solo dalla condotta in sé dì sottrazione o parziale tenuta RAGIONE_SOCIALE scritture contabili.
Quanto al coefficiente soggettivo, quindi, la doglianza attuale non è comunque consentita, in quanto generico era già il motivo di appello. Le Sez. U., n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268822 – 01, in motivazione hanno precisato come la declaratoria di inammissibilità possa essere adottata anche d’ufficio in sede di legittimità, qualora l’inammissibilità stessa non sia stata rilevata dal giudice d’appello. Dagli artt. 591, comma 4, e 627, comma 4, cod. proc. pen., infatti, emerge che l’inammissibilità può essere dichiarata in ogni stato e grado del processo, se non rilevata dal giudice dell’impugnazione, salvo che nel giudizio conseguente ad annullamento con rinvio, in cui è invece preclusa la rilevazione RAGIONE_SOCIALE inammissibilità verificatesi nei precedenti giudizi o nel corso RAGIONE_SOCIALE indagini preliminari.
In ordine all’attuale motivo di ricorso, che lamenta anche vizio di motivazione in ordine al profilo oggettivo del delitto di bancarotta documentale, tale doglianza non era stata formulata in appello, essendo invece quest’ultima concentrata solo sul dolo, e dunque è inedita.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, «deve ritenersi sistematicamente non consentita (non soltanto per le violazioni di legge, per le quali cfr. espressamente art. 606, comma 3, c.p.p.) la proponibilità per la prima volta in sede di legittimità, con riferimento ad un capo e ad un punto della decisione già oggetto di appello, di uno dei possibili vizi della motivazione con riferimento ad elementi fattuali richiamabili, ma non richiamati, nell’atto di appello: solo in tal modo è, infatti, possibile porre rimedio al rischio concreto che il giudice di legittimità possa disporre un annullamento del provvedimento impugnato in relazione ad un punto della decisione in ipotesi inficiato dalla mancata/contraddittoria/manifestamente illogica considerazione di elementi idonei a fondare il dedotto vizio di motivazione, ma intenzionalmente sottratti alla cognizione del giudice di appello. Ricorrendo tale situazione, invero, da un lato il giudice della legittimità sarebbe indebitamente chiamato ad operare valutazioni di natura fattuale funzionalmente devolute alla competenza del giudice d’appello, dall’altro, sarebbe facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto dì motivazione della sentenza d’appello con riguardo al punto della decisione oggetto di appello, in riferimento ad elementi fattuali che in quella sede non avevano costituito oggetto della richiesta di verifica giurisdizionale rivolta alla Corte di
appello, ma siano stati richiamati solo ex post a fondamento del ricorso per cassazione» (così Sez. 2, n. 32780 del 13/07/2021 , COGNOME, Rv. 281813; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062, in motivazione; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, COGNOME, Rv. 280306; Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, COGNOME, Rv. 279903; Sez. 3, n. 57116 del 29/09/2017, B., Rv. 271869; Sez. 2 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316; Sez. 2, n. 8890 del 31/01/2017, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
Ne consegue l’inammissibilità complessiva del ricorso, alla quale consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa RAGIONE_SOCIALE ammende.
Così deciso in Roma, 19/12/2023
Il Consigliere estensore
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Il Presidente