LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Amministratore di fatto: quando la prova non basta

La Corte di Cassazione ha annullato una condanna per bancarotta fraudolenta, stabilendo che la qualifica di amministratore di fatto non può essere provata da un singolo e isolato atto di gestione. La Corte ha ritenuto le prove insufficienti per dimostrare un inserimento organico e continuativo nella gestione aziendale, soprattutto in presenza di un amministratore formale e di un’altra figura dominante. La sentenza è stata annullata con rinvio per un nuovo esame.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di fatto: un solo atto non basta per la condanna

La figura dell’amministratore di fatto è centrale nel diritto penale societario, specialmente nei reati di bancarotta. Ma quali sono gli elementi concreti per dimostrare che una persona, pur senza carica formale, gestiva un’impresa? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23672/2025, offre un importante chiarimento: un singolo atto di gestione, per di più di scarsa rilevanza, non è sufficiente per fondare una condanna. Vediamo insieme i dettagli di questa decisione.

I fatti del processo

Il caso riguarda un ex amministratore di diritto di una società a responsabilità limitata, condannato in primo e secondo grado per bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale. L’accusa sosteneva che, anche dopo aver formalmente cessato la sua carica e ceduto le quote, egli avesse continuato a gestire la società come amministratore di fatto.

La difesa ha impugnato la sentenza d’appello, contestando proprio la valutazione delle prove su cui si basava la qualifica di gestore di fatto. In particolare, si sottolineava che le condotte contestate (la distrazione di beni e la mancata tenuta delle scritture contabili) erano avvenute dopo la sua uscita formale dalla compagine societaria. La tesi dell’accusa poggiava principalmente su un documento, sottoscritto dall’imputato tempo dopo la sua cessazione dalla carica, con il quale si qualificava come legale rappresentante per richiedere una voltura di autorizzazione.

La prova della gestione dell’Amministratore di fatto

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso, ribadendo i principi consolidati per l’individuazione della figura dell’amministratore di fatto. La legge (art. 2639 c.c.) e la giurisprudenza richiedono l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione gestoria. Non basta un’ingerenza occasionale, ma è necessario un inserimento organico e sistematico nella vita della società.

L’accertamento di tale ruolo si basa su elementi sintomatici, come la gestione dei rapporti con dipendenti, fornitori, clienti e banche, e lo svolgimento di funzioni gerarchiche e direttive. Si tratta di una valutazione di fatto che, se ben motivata, non è sindacabile in sede di legittimità.

Le motivazioni

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza d’appello manifestamente illogica e carente. I giudici di merito non hanno individuato elementi concreti e sufficienti a dimostrare l’esercizio di fatto dei poteri gestori da parte dell’imputato dopo la cessazione della carica formale.

Il solo invio di una missiva, qualificandosi come legale rappresentante, è stato considerato un atto unico e di scarsa rilevanza, inidoneo a provare un inserimento sistematico nella gestione. Tale elemento probatorio appariva ancora più debole alla luce dell’emersione di altre due figure chiave: un nuovo amministratore formale e un dominus occulto che sembrava tirare le fila della società. Di fronte a questo quadro, attribuire un ruolo di gestore di fatto all’imputato sulla base di un singolo documento è stato giudicato un errore logico.

Anche per l’accusa di bancarotta documentale, la Corte ha riscontrato una falla nella motivazione. La sentenza impugnata non spiegava perché l’obbligo di tenere le scritture contabili dovesse ricadere sull’imputato e non sull’amministratore formalmente in carica al momento del fallimento. Inoltre, mancava qualsiasi analisi del dolo specifico, ovvero dell’intenzione di arrecare un danno ai creditori.

Le conclusioni

La decisione della Cassazione rafforza un principio di garanzia fondamentale: una condanna penale, soprattutto per un reato grave come la bancarotta, deve fondarsi su prove solide e univoche. Per affermare la responsabilità di un amministratore di fatto, l’accusa deve dimostrare un quadro probatorio che delinei un’ingerenza nella gestione societaria non solo effettiva, ma anche sistematica e protratta nel tempo. Un singolo indizio, per quanto suggestivo, non può sostituire una ricostruzione completa e coerente del ruolo concretamente svolto all’interno dell’azienda. La sentenza viene quindi annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello, che dovrà riesaminare il caso attenendosi a questi rigorosi principi.

Un singolo atto di gestione è sufficiente per essere considerato amministratore di fatto?
No, secondo la Corte di Cassazione un unico atto, peraltro di scarsa rilevanza, non può costituire di per sé indice di un inserimento organico e sistematico nella gestione della società, necessario per qualificare un soggetto come amministratore di fatto.

Cosa deve provare l’accusa per dimostrare la qualifica di amministratore di fatto?
L’accusa deve dimostrare, attraverso elementi sintomatici, l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici della qualifica o della funzione gestoria. È necessario provare un inserimento organico del soggetto nelle dinamiche aziendali, come la gestione dei rapporti con dipendenti, fornitori e clienti, o lo svolgimento di funzioni direttive.

In caso di bancarotta documentale, chi è il responsabile se c’è un amministratore formale?
In linea di principio, la responsabilità ricade sull’amministratore formale in carica. Per attribuire la responsabilità a un presunto amministratore di fatto, la sentenza deve chiarire specificamente perché l’obbligo di tenere le scritture contabili dovesse gravare su di lui e non sul soggetto formalmente investito della carica, e deve provarne il dolo specifico.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati