Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 52119 Anno 2019
Penale Sent. Sez. 5 Num. 52119 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/09/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a SANT’IPPOLITO il 20/02/1952
avverso la sentenza del 21/05/2018 della CORTE APPELLO di ANCONA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Sostituto Procuratore Generale COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alla rideterminazione delle pene accessorie e l’inammissibilità nel resto.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Ancona del 8.9.2016, con cui NOME COGNOME è stato condannato per il reato di bancarotta fraudolenta documentale alla pena di anni tre di reclusione, nonché alle pene accessorie previste dall’ultimo comma dell’art. 216 I. fall. nella misura di dieci anni ed alla sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
La contestazione si riferisce al fallimento della società RAGIONE_SOCIALE, dichiarato con sentenza del 20.7.2007, della quale COGNOME è stato amministratore di fatto.
2. Avverso tale provvedimento propone ricorso l’imputato, tramite il difensore avv. NOME COGNOME deducendo un unico motivo con cui si argomenta vizio di motivazione contraddittoria e manifestamente illogica quanto alla ritenuta qualifica di amministratore di fatto della società immobiliare fallita – qualifica su cui si fonda la sua responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta documentale – là dove, invece, egli non ha mai avuto alcun ruolo gestorio all’interno della società, né tanto meno direttivo, ma si è limitato a svolgere mansioni di direttore dell’hotel Mietta, già appartenente alla fallita e ceduto alla RAGIONE_SOCIALE
Egli era, dunque, un semplice dipendente come emerge dagli estratti conto dell’INPS che lo inquadrano quale lavoratore part-time del complesso alberghiero in passato di proprietà della fallita.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La sentenza deve essere annullata limitatamente alla durata delle pene accessorie ex art. 216, u. c. I. fall., con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte d’Appello di Perugia, mentre il ricorso è inammissibil~ulato in fatto. – e – form
2. Quanto all’inammissibilità, il ricorrente non deduce vizi di motivazione ma chiede una rivalutazione degli esiti decisori alla luce di una ricostruzione alternativa che ritiene preferibile e plausibile in quanto volta ad escludere profili di responsabilità a suo carico. Ed invece, come noto, l’orizzonte della verifica del giudice di legittimità è circoscritto alla ricerca di vizi logici ed argomentativi della sentenza, direttamente da essa desumibili nel confronto con i principi dettati dal diritto vivente per l’interpretazione delle norme applicate. Invero, costituisce giurisprudenza consolidata quella che afferma l’insindacabilità da parte di questa Corte di profili ricostruttivi della prova e dell versione dei fatti articolata dai giudici di merito, in assenza di vizi di manifesta illogicità della motivazione ovvero di profili di travisamento della prova (cfr. z. 6, n. ex multis Se
27429 del 4/7/2006, COGNOME, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, COGNOME, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, COGNOME, Rv. 214794).
2.1. Nella specie, la sentenza della Corte d’Appello di Ancona impugnata ha chiarito con motivazione non certo manifestamente illogica, bensì adeguatamente radicata nei dati di prova, come i numerosi testimoni escussi abbiano delineato una situazione gestoria della società immobiliare fallita sicuramente riferibile al ricorrente.
In particolare, i fornitori hanno dichiarato di aver avuto spesso diretto contatto con COGNOME per la commissione di lavori e interventi di miglioramento nonché per la fornitura di beni necessari alla vita economica dell’hotel, la cui gestione costituiva l’oggetto dell’attività aziendale della fallita.
Il provvedimento impugnato evidenzia, altresì, molto opportunamente ai fini della chiarezza e coerenza argomentative, che il commercialista al quale era affidato il compito di tenere la contabilità sino al 2005 – allorquando l’ultimo legale rappresentante noto, cui il reato non è stato contestato perché nelle more è deceduto, non ha più depositato la documentazione aziendale necessaria alla tenuta della contabilità – ha dichiarato di aver visto presente alle riunioni presso di lui con detto rappresentante legale costantemente anche il ricorrente.
2.2. Da questi elementi di fatto la Corte d’Appello ha tratto, con motivazione priva di iati logici, la prova della responsabilità del ricorrente per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, deducendo la sua posizione di amministratore di fatto.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha condivisibilmente affermato che, in tema di reati fallimentari, l’amministratore “di fatto” della società fallita è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (cfr. Sez. 5, n. 39593 del 20/5/2011, Assello, Rv. 250844 che ha ribadito il principio proprio in relazione ad una fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale).
Ed invero, il soggetto che assuma, in base alla disciplina prevista dall’art. 2639 cod. civ., la qualifica di amministratore “di fatto”, essendo tenuto ad impedire ex art. 40, comma secondo, cod. pen. le condotte illecite riguardanti l’amministrazione della società o a pretendere l’esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall’amministratore di diritto, al quale è sostanzialmente equiparato (Sez. 3, n. 33385 del 5/7/2012, COGNOME, Rv. 253269).
3. Nonostante l’inammissibilità del ricorso proposto dall’imputato, il provvedimento impugnato deve essere annullato d’ufficio nei suoi confronti quanto alle pene accessorie previste dall’art. 216, ult. comma, I. fall., coerentemente a quanto stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità della durata fissa delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, prevista ex lege in dieci anni dal citato ultimo comma dell’art. 216 I. fall. in relazione alle ipotesi di condanna relativa ai reati di bancarotta fraudolenta.
Il Collegio ritiene, infatti, che debba essere rilevata, sia pur d’ufficio, l’illegalità de pena – compresa quella accessoria decennale prevista dall’ultimo comma del citato art. 216 – inflitta sulla base di un dettato normativo divenuto incostituzionale, anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, COGNOME, Rv. 264207) ed è certamente illegale la pena che sia stata determinata sulla base di limiti edittali dichiarati incostituzionali (Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, COGNOME, Rv. 264205).
L’annullamento deve essere operato con rinvio, spettando al giudice di merito la valutazione dei parametri fattuali ai quali ancorare la determinazione della misura della sanzione accessoria, commisurandola ai criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., in ossequio alle indicazioni delle Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 28910 del 28/2/2019, COGNOME, proprio in relazione al caso delle pene accessorie decennali previste per i reati di bancarotta fraudolenta dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 222 del 2018 Corte cost., hanno così disposto, risolvendo la questione del se la rimodulazione conseguente alla pronuncia di incostituzionalità dovesse comportare la commisurazione delle pene accessorie fisse illegali già disposte alla pena principale applicata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., ovvero la rideterminazione dovesse essere operata dal giudice, nell’ambito dei limiti edittali risultanti dalla nuova formulazione, in base ai criteri di cu all’art. 133 cod. pen.
In generale, infatti, con un principio che travalica la materia dei soli reati fallimentari, le Sezioni Unite hanno stabilito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.
Del resto, la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018 aveva tracciato il solco per un’interpretazione che conducesse all’applicazione dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. per la determinazione della misura oramai non più fissa delle pene accessorie della bancarotta fraudolenta.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie ex art. 216, u. c. I. fall. e rinvia per nuovo esame sul punto alla Corte d’Appello di Perugia. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 27 settembre 2019.
Il Consigliere estensore
NOME COGNOME
Il Presidente
CORTE DI CASSAZIONE V SEZIONE PENALE