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Amministratore di fatto: prova e responsabilità penale

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta documentale di un soggetto ritenuto amministratore di fatto di una società fallita. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile riguardo alla qualifica, provata tramite testimonianze, ma la sentenza è stata annullata con rinvio per la rideterminazione delle pene accessorie. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 222/2018, la durata di tali pene non può più essere fissa a dieci anni, ma deve essere commisurata dal giudice alla gravità del fatto.

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Pubblicato il 29 luglio 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di Fatto: Quando la Gestione Effettiva Conduce alla Responsabilità Penale

La figura dell’amministratore di fatto è centrale nel diritto penale societario e rappresenta un principio fondamentale: la responsabilità penale segue chi esercita il potere, non chi detiene solo la carica formale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 52119/2019) ribadisce questo concetto, chiarendo come si provi tale qualifica e quali siano le conseguenze in caso di bancarotta fraudolenta. Il provvedimento offre spunti cruciali sia sulla ricostruzione della prova sia sulla corretta applicazione delle pene accessorie, alla luce di un importante intervento della Corte Costituzionale.

I Fatti del Caso: Dalla Gestione di un Hotel alla Condanna

Il caso riguarda un soggetto condannato in primo grado e in appello per bancarotta fraudolenta documentale in relazione al fallimento di una società immobiliare. L’accusa sosteneva che egli fosse l’amministratore di fatto della società, avendone gestito l’attività principale, ovvero un complesso alberghiero.

L’imputato, nel suo ricorso in Cassazione, ha contestato questa ricostruzione, sostenendo di essere stato un semplice dipendente con mansioni di direttore d’hotel, come risulterebbe da alcuni documenti dell’INPS che lo inquadravano come lavoratore part-time. La sua difesa mirava a smontare l’impianto accusatorio, negando qualsiasi ruolo gestorio o direttivo all’interno della società fallita.

La Prova della Qualifica di Amministratore di Fatto

La Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo di ricorso inammissibile, poiché non denunciava vizi logici nella motivazione della sentenza d’appello, ma chiedeva una nuova valutazione dei fatti, preclusa in sede di legittimità. La Corte ha evidenziato come i giudici di merito avessero adeguatamente motivato la qualifica di amministratore di fatto sulla base di prove concrete e testimonianze univoche.

In particolare, erano risultati decisivi:
* Le dichiarazioni dei fornitori: Molti di loro hanno testimoniato di aver avuto contatti diretti e costanti con l’imputato per la commissione di lavori, interventi e forniture essenziali per l’attività dell’hotel.
* La testimonianza del commercialista: Il professionista incaricato della contabilità ha dichiarato che l’imputato era costantemente presente alle riunioni operative, al fianco del rappresentante legale (poi deceduto).

Questi elementi, secondo la Corte, delineavano in modo inequivocabile una situazione di gestione effettiva e non di mero lavoro dipendente, rendendo la motivazione della corte d’appello pienamente logica e fondata.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso per quanto riguarda l’affermazione di responsabilità. Tuttavia, ha accolto d’ufficio una questione diversa, annullando la sentenza limitatamente alla durata delle pene accessorie e rinviando il caso a una diversa sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione sul punto.

Le Motivazioni

La decisione si fonda su due pilastri argomentativi distinti.

Sulla Responsabilità dell’Amministratore di Fatto

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: l’amministratore di fatto, ai sensi dell’art. 2639 c.c., è equiparato a quello di diritto. Egli è gravato dell’intera gamma di doveri che incombono sull’amministratore legale, compreso l’obbligo, previsto dall’art. 40, comma 2, c.p., di impedire la commissione di reati legati alla gestione societaria. Di conseguenza, risponde penalmente per tutte le condotte illecite, omissive o commissive, a lui addebitabili. I giudici di merito hanno correttamente dedotto da elementi fattuali (rapporti con i fornitori, presenza costante nelle decisioni) la sua posizione apicale, giustificando così la condanna per bancarotta documentale.

Sulla Rideterminazione delle Pene Accessorie

Il punto più innovativo della sentenza riguarda le pene accessorie. L’imputato era stato condannato alla pena accessoria di dieci anni di inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale, prevista in misura fissa dall’art. 216 della Legge Fallimentare. La Cassazione ha rilevato d’ufficio l’illegalità di tale pena. Ciò in virtù della sentenza della Corte Costituzionale n. 222 del 2018, che ha dichiarato incostituzionale la durata fissa di dieci anni. Tale automatismo violava il principio di proporzionalità e individualizzazione della pena.
Di conseguenza, la durata delle pene accessorie non è più fissa, ma deve essere determinata dal giudice, in un range minimo e massimo (o solo massimo, se previsto), utilizzando i criteri di gravità del reato indicati dall’art. 133 del codice penale. La Corte ha quindi annullato la sentenza su questo punto, rinviando alla Corte d’Appello il compito di commisurare nuovamente la sanzione accessoria in base ai principi costituzionali.

Le Conclusioni

Questa sentenza offre due importanti lezioni pratiche. In primo luogo, conferma che nel diritto penale dell’impresa ciò che conta è la sostanza e non la forma: chiunque eserciti poteri gestori si assume le relative responsabilità, a prescindere da nomine o inquadramenti formali. In secondo luogo, recepisce un fondamentale principio di civiltà giuridica affermato dalla Corte Costituzionale: le pene, anche quelle accessorie, devono essere sempre proporzionate alla gravità del fatto e alla colpevolezza del reo, escludendo ogni forma di automatismo sanzionatorio. La decisione impone ai giudici di merito un’attenta valutazione caso per caso, garantendo una maggiore equità nel sistema penale fallimentare.

Chi è considerato amministratore di fatto e di cosa risponde?
È la persona che, pur senza una nomina formale, esercita di fatto i poteri gestori di una società. Secondo la legge e la giurisprudenza, è equiparato all’amministratore di diritto e risponde penalmente per tutti i comportamenti (omissivi e commissivi) illeciti legati all’amministrazione della società, come la bancarotta fraudolenta.

Come si può provare in un processo che una persona è un amministratore di fatto?
La prova può essere fornita attraverso vari elementi, come testimonianze. Nel caso esaminato, sono state decisive le dichiarazioni dei fornitori, che trattavano direttamente con l’imputato per ordini e pagamenti, e del commercialista, che lo vedeva costantemente presente alle riunioni operative accanto al legale rappresentante.

Perché la Cassazione ha annullato la parte della sentenza sulle pene accessorie?
Perché la pena accessoria di dieci anni di inabilitazione, prevista in misura fissa dalla legge fallimentare, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 222/2018. La durata di tale pena non può essere automatica ma deve essere determinata dal giudice in base alla gravità specifica del reato, secondo i criteri dell’art. 133 del codice penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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