Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 28636 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 28636 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a LAMEZIA TERME il 08/06/1975
avverso la sentenza del 07/11/2024 della CORTE D’APPELLO DI CATANZARO Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza emessa il 7 novembre 2024, confermava quella del G.u.p. del Tribunale di Lamezia Terme che aveva accertato la responsabilità penale di NOME COGNOME in ordine ai delitti di bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale.
In particolare, Tropea rispondeva nella qualità di legale rappresentante della impresa individuale RAGIONE_SOCIALE di Tropea Adriano, dichiarata fallita con sentenza del 10 giugno 2015, nonché quale amministratore di fatto delle società – delle quali era amministratore di diritto il coniuge NOME COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE dichiarate fallite il 16 maggio 2013. In particolare, la sentenza impugnata evidenziava come a tale ultimo fallimento fosse poi seguita l’estensione anche alla impresa individuale dell’imputato, avendo il Tribunale civile accertato la sussistenza di una società di fatto.
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto alla bancarotta documentale risultava accertato che nessuna scrittura contabile era stata rinvenuta per la impresa individuale fallita, mentre per le società venivano rinvenute solo parte delle scritture contabili, oltre alle fatture, rinvenute dal curatore presso il Banco di Napoli, relative alla vendita di oro usato
dalla NOME COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE, che a sua volta rivendeva al RAGIONE_SOCIALE di Catanzaro.
Quanto alla bancarotta distrattiva, nessun bene, se non cinque scatoloni di merce di scarso valore – sottoposta a pignoramento, oltre che riferibile anche alle altre due società fallite – veniva rinvenuto, e per tutte e tre le fallite non venivano consegnate le rimanenze di magazzino come anche il denaro ottenuto dalle vendite.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di un unico articolato motivo, enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, articolando i seguenti punti di censura.
3.1 In primo luogo, si duole il ricorrente della circostanza che la Corte di appello avrebbe ritenuto la qualità di amministratore di fatto del Tropea in relazione alle due società fallite, facendo malgoverno della giurisprudenza in materia e non potendo ritenersi sufficiente – per ritenere l’attività continuativa e significativa della gestione di fatto – la sola circostanza che l’imputato riceveva gli incassi di una delle società fallite su proprio conto corrente. Per il ricorrente tale elemento non integra i presupposti richiesti per la qualità di amministratore di fatto, difettando la prova della ingerenza dell’imputato nelle attività di gestione poste in essere dal coniuge.
3.2 Il secondo rilievo riguarda la genericità del capo di imputazione in ordine alle distrazioni della RAGIONE_SOCIALE. Inoltre, non sarebbe offerta dalla sentenza impugnata la prova della previa disponibilità dei beni ritenuti distratti, cosicché non può neanche addebitarsi all’imputato di non aver indicato la destinazione dei beni. Difetterebbe anche il dolo della bancarotta distrattiva.
3.3 II terzo profilo di doglianza riguarda una sostanziale contraddizione nella motivazione, nel senso che la Corte di appello ha ritenuto attendibile la ricostruzione operata dal curatore a mezzo della documentazione rinvenuta ai fini della individuazione dei beni distratti, al tempo stesso però affermandosi che le scritture contabili rinvenute non abbiano reso possibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti aziendali, non essendo adeguate a tanto le sole fatture.
3.4 Difetterebbe, poi, la prova del dolo specifico della bancarotta documentale, cosicché la Corte di appello avrebbe dovuto riqualificare la condotta in bancarotta semplice.
3.5 Infine, andava esclusa l’aggravante della rilevante gravità, difettando la prova del pregiudizio ingente per i creditori.
Il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi del rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e successive integ razioni.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME ha depositato requisitoria e conclusioni scritte, con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Quanto alla prima doglianza, va premesso che l’amministratore di fatto è il soggetto che, pur non essendo stato investito formalmente della carica di amministratore della società, tuttavia, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici relativi alla qualifica o alle funzioni dell’amministratore di diritto conseguenza principale del riconoscimento della figura dell’amministratore di fatto consiste nel suo assoggettamento al rispetto dei doveri previsti dall’ordinamento con specifico riferimento all’amministratore di diritto, la cui violazione comporta la configurabilità delle fattispecie di responsabilità configurabili, con i conseguenti obblighi risarcitori nei confronti della società, dei soci, dei creditori sociali e de singolo socio o terzo, ai sensi degli articoli, rispettivamente, 2392, 2393-bis, 2394 e GLYPH 2395 GLYPH cod. GLYPH civ., GLYPH anche GLYPH quanto GLYPH alla GLYPH responsabilità GLYPH penale (Sez. 5, n.39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844; Sez. 3, n. 33385 del 5/7/2012, COGNOME, Rv. 253269).
Va anche aggiunto che non è necessario l’esercizio soggettivamente o oggettivamente esclusivo dei poteri. Soggettivamente, l’amministratore è di fatto anche se l’esercizio dei poteri o delle funzioni si verifica in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali – in tempi successi anche contemporaneamente – esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione (Sez. 5, n. 12912 del 06/02/2020, COGNOME, Rv. 279040 – 01). Oggettivamente, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., non postula necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiede l’esercizio di un’apprezzabile attività gestor ‘ ia, svolta in modo non episodico o occasionale.
Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 2, n. 36556 del 24/05/2022, COGNOME, Rv. 283850; Sez. 5, n. 27264 del 10/07/2020, COGNOME, Rv. 279497; Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, COGNOME, Rv. 277540; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269101; Sez. 5, n. 35346 del 20/6/2013, COGNOME, Rv. 256534; Sez. 3, n.22108 del 19/12/2014, COGNOME e altri, Rv. 264009;).
. Spetta al giudice del merito valutare e perimetrare il novero e la significatività delle attività concretamente svolte, potenzialmente idonee a delineare il ruolo dell’amministratore di fatto, anctíe nei limiti delle responsabilità gestionali espletate al vertice di uno specifico comparto dell’operatività dell’impresa.
Tanto premesso, nel caso in esame la Corte territoriale chiarisce che la qualità di amministratore di fatto, oltre alla certa titolarità della impresa individuale, viene tratta quanto alla RAGIONE_SOCIALE certamente dalla circostanza che l’apparecchio pos utilizzato per il pagamento della merce da parte dei clienti di tale società non era collegato al conto corrente della stessa, bensì a quello de RAGIONE_SOCIALE di Tropea NOME Adriano, cioè della citata impresa individuale. In sostanza, la società vendeva l’oro ma il prezzo ottenuto dalla vendita non veniva versato nelle casse sociali, bensì sul conto corrente della impresa individuale dell’imputato.
A ben vedere, già la sola circostanza che gli introiti di una delle due società fossero stabilmente destinati ad alimentare l’impresa individuale viene correttamente ritenuto un indice sintomatico dell’esistenza di un potere gestorio continuativo da parte dell’imputato, che solo può spiegare l’acquisizione in via esclusiva degli introiti da parte dell’imprenditore individuale dei proventi di altra società.
Il motivo di ricorso, inoltre, trascura il tema lungamente affrontato e valorizzato dalla sentenza di appello, quello della intervenuta estensione del fallimento e della sussistenza di una società di fatto, fra le società e l’impresa individuale, tratta dall’esistenza di un “intreccio” di operazioni economiche, risultato dell’assunzione da parte dell’imputato del ruolo di gestore di fatto anche della società. In particolare, «la coincidenza della compagine sociale e della sede, i rapporti unitari con la clientela ed i terzi e, soprattutto, l’intreccio di fatturazio … per la rivendita di oro usato al Banco Metalli nonché l’incasso dei proventi delle
vendite della RAGIONE_SOCIALE da parte della medesima ditta individuale facente capo all’imputato sono elementi dai quali può agevolmente ricavarsi il ruolo … di amministratore di fatto di entrambe le società fallite».
Con tale motivazione non vi è confronto da parte del ricorrente, cosicché tale prima doglianza è certamente aspecifica, in quanto è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425 – 01; Sez. 2, n. 19951 del 15 maggio 2008, COGNOME, Rv. 240109; Sez. 1 n. 39598 del 30 settembre 2004, COGNOME, Rv. 230634).
Tanto più che la motivazione offerta dal Tribunale civile – in ordine alla estensione del fallimento già dichiarato della RAGIONE_SOCIALE alla impresa individuale – che aveva ritenuto sussistente la società di fatto, viene fatta propria dalla sentenza qui impugnata.
Anche trascurata dal ricorrente è la parte della motivazione in ordine alla circostanza che amministratrice delle società fosse il coniuge del ricorrente e che vi fosse stata una alternanza nelle licenze fra il Tropea – a seguito della revoca della licenza per l’impresa individuale (quanto alla riparazione, lavorazione e produzione di preziosi) da parte del Questore di Catanzaro, in ragione della frequentazione con soggetti socialmente pericolosi – e la NOME, moglie del ricorrente, in relazione alle altre due società. In sostanza la Corte di appello riscontra una comprovata continuità cronologica e logica nell’alternarsi delle licenze come ulteriore elemento comprovante la amministrazione di fatto da parte dell’imputato rispetto ad entrambe le compagini societarie.
Tanto più che la RAGIONE_SOCIALE, società diversa da quella del cui pos si è letto, risultava aver venduto numerose volte oro alla impresa individuale, che a sua volta rivendeva al Banco Metalli Italiano S.p.a. a riprova di una continuità commerciale fra società e impresa individuale di carattere sistematico.
Altro profilo, infine, non ‘attaccato’ è che le società e l’impresa individuale avevano «rapporti unitari con la clientela e con i terzi».
Pertanto, a fronte di una motivazione complessa e priva di vizi logici, che rende conto della sussistenza di plurimi elementi sintomatici del ruolo di amministratore di fatto dell’imputato della società di fatto e di ciascuna delle società fallite, il motivo risulta limitarsi ad aggredire solo alcuni profili e non g altri, il che lo rende aspecifico.
Quanto alla seconda doglianza, la Corte di appello ritiene comprovata l’appartenenza dei beni distratti alle società e all’impresa fallita in ragione delle
scritture contabili e delle ricerche effettuate dal curatore, nonché delle indagini della Guardia di finanza. Le scritture vengono ritenute incomplete, ma non inattendibili e la sentenza impugnata rende conto, in modo non manifestamente illogico, al fol. 9 e s., dei beni e dei valori oggetto di distrazione, fra i quali cessione fittizia di un immobile della RAGIONE_SOCIALE ad una parente, senza che sia stato mai pagato il prezzo, operazione che non è stata oggetto di impugnazione neanche con l’atto di appello.
E’ noto che in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento della precedente disponibilità da parte dell’imputato dei beni non rinvenuti in seno all’impresa non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture contabili prevista dall’art. 2710 cod. civ., dovendo invece le risultanze desumibili da questi atti essere valutate – anche nel silenzio del fallito – nella loro intrinseca attendibilità, sicchè il giudice dovrà congruamente motivare ove l’attendibilità della scrittura contabile non sia apprezzabile per l’intrinseco dato oggettivo (Sez. 5, n. 55805 del 03/10/2018, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 274621 – 01; Sez. 5, n. 52219 del 30/10/2014, Ragosa, Rv. 262197; Sez. 5, n. 7588 del 26/01/2011, COGNOME e altri, Rv. 249715).
Nel caso in esame la Corte di appello ritiene attendibili le scritture rinvenute, richiamando in modo puntuale la deposizione del coadiutore del curatore con l’elenco delle rimanenze e della liquidità di cassa che doveva essere rinvenuta mentre nulla è stato trovato. Ma ulteriori elementi vengono tratti dalle indagini della polizia giudiziaria e dalle ricerche svolte, aliunde, dal curatore, elementi che sostanzialmente confermano quanto emergeva dalla parte rinvenuta delle scritture contabili (sul punto accurata ricostruzione si legge ai foll. 9 e 10 della sentenza impugnata).
Per altro, nessun ‘attacco’ specifico alle ragioni di attendibilità delle scritture è stato mosso dal ricorrente e comunque il risultato probatorio è frutto di una pluralità di elementi di prova. Cosicché, accertata senza vizi logici la sussistenza dei beni e delle risorse, poi distratte, l’imputato non offre alcuna spiegazione in ordine alla destinazione aziendale dei beni, neanche con il ricorso.
E in tal senso, assolutamente consolidato è l’orientamento che trae la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei suddetti beni (Sez. 5, n. 8260/16 del 22 settembre 2015, COGNOME, Rv. 267710; Sez. 5, n. 19896 del 7 marzo 2014, COGNOME, Rv. 259848; Sez. 5, n. 11095 del 13 febbraio 2014, COGNOME, Rv. 262740; Sez. 5, n. 22894 del 17 aprile 2013, COGNOME, RV. 255385; Sez. 5, n. 7048/09 del 27 novembre 2008, COGNOME, Rv. 243295; Sez. 5, n. 3400/05 del 15 dicembre 2004, COGNOME, Rv. 231411).
Solo nel caso in cui vi sia una indicazione specifica della destinazione aziendale dei beni da parte del fallito, il giudice non può ignorarne l’affermazione, quando però le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l’individuazione della effettiva destinazione (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204 – 01; mass. conf. n. 19896 del 2014 Rv. 259848 – 01). Ma nel caso in esame non risulta alcuna informazione fornita alla curatela da parte di NOME COGNOME.
Quanto al dolo della bancarotta Patrimoniale, la Corte di appello ne trae la prova dalla circostanza che Tropea era destinatario degli incassi di una delle società fallite e acquirente dell’oro usato dall’altra società e poi rivenduto al Banco metalli, senza che i proventi delle operazioni in sequenza siano stati rinvenuti. Il che comprova la consapevolezza dell’imputato rispetto al depauperamento del patrimonio delle fallite, vincolato alle ragioni creditorie. Si tratta di motivazione congrua e non manifestamente illogica, oltre che in sintonia con il principio per cui l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016 – dep. 27/05/2016, COGNOME e altro, Rv. 266805-01).
Infine, anche la doglianza relativa alla genericità dell’imputazione non è proponibile in questa sede, in quanto, la richiesta di giudizio abbreviato, determina una cristallizzazione dell’imputazione da cui l’imputato ha scelto di difendersi; ne consegue l’impossibilità per quest’ultimo di eccepirne l’indeterminatezza salvo che dimostri che la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione gli abbia impedito di esercitare la sua difesa (Sez. 5, n. 33870 del 07/04/2017, COGNOME Rv. 270475 – 01).
La doglianza è, quindi, complessivamente infondata.
Quanto alla terza e quarta censura, da trattarsi congiuntamente, correttamente la sentenza impugnata richiama il principio consolidato per il quale nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale l’interesse tutelato non è circoscritto ad una mera informazione sulle vicende patrimoniali e contabili della impresa, ma concerne una loro conoscenza documentata e giuridicamente utile, sicché il delitto sussiste, non solo quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari del fallito si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli
organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza, nonché quando la documentazione possa essere ricostruita “aliunde”, poiché la necessità di acquisire i dati documentali presso terzi costituisce riprova che la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili era tale da rendere, se non impossibile, quantomeno molto difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari (Sez. 5, n. 21028 del 21/02/2020, COGNOME, Rv. 279346 01; Sez. 5, n. 1925 del 26/09/2018, dep. 16/01/2019, Cortinovis, Rv. 274455 01: fattispecie in cui per la ricostruzione delle vicende patrimoniali dell’impresa era stato necessario fare capo a fonti di documentazione esterne, nonchè ad appunti del fallito, costituenti di fatto una contabilità “in nero”, che avrebbero dovuto restare celati al fine di coprire il sistema di evasione di imposta e il drenaggio di risorse finanziarie verso conti correnti personali; Sez. 5, n. 45174 del 22/05/2015, COGNOME, Rv. 265682 – 01, fra le altre; conf. n. 24333 del 2005 Rv. 232212 – 01, n. 21588 del 2010 Rv. 247965 – 01).
La Corte di appello applica tale principio, in modo non manifestamente illogico, dando anche congrua risposta alla dedotta contraddizione fra l’attendibilità delle scritture e la ritenuta bancarotta documentale: la natura incompleta delle scritture rinvenute non ne determina l’inattendibilità, il che rende compatibile la prova dell’esistenza dei beni distratti – tratta dalle scritture ma non solo, come si è evidenziato – con la sussistenza del delitto di bancarotta documentale, comprovato dalla necessità che gli ausiliari del giudice fallimentare abbiano dovuto ricercare altrove informazioni, presso gli istituti di credito e la Banco Metalli S.p.a., per ricostruire la situazione contabile.
Il richiamo del ricorrente alla limitata forza probatoria delle fatture resta generico, in quanto non ne deduce in modo specifico le ragioni di inattendibilità.
Anche la quarta doglianza trova risposta nell’aver la Corte di appello ritenuto sussistere il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori e quello generico funzionale ad impedire la ricostruzione della attività societarie, in ragione dei descritti indici di fraudolenza, dell’occultamente parziale delle scritture, della impossibilità di riqualificare la condotta in quella di bancarotta semplice proprio per il comprovato coefficiente soggettivo.
E’ noto, quanto al dolo richiesto, che la bancarotta fraudolenta documentale di tipo specifico – consistente nella condotta di sottrazione, occultamento, anche parziale, e falsificazione delle scritture contabili, nonchè di omessa tenuta delle stesse (condotta assimilata dalla giurisprudenza consolidata alle ipotesi previste dalla norma incriminatrice) – deve essere ‘sostenuta’, secondo la lettera della prima parte dell’art. 216, comma 2, n. 1, legge fall., dal dolo specifico consistente nello scopo di recare pregiudizio ai creditori o di procurare a sé o a altri un ingiusto profitto: infatti proprio la natura specifica del dolo, è stato osservato, in ordine alla
condotta di omessa tenuta, consente di distinguere fra la bancarotta fraudolenta documentale e quella analoga sotto il profilo materiale, prevista dall’art. 217 legge fall. e punita sotto il titolo di bancarotta semplice documentale (Sez. 5, n. 25432 del 11 aprile 2012, COGNOME e altri, Rv. 252992). Diversamente, nell’ipotesi prevista dalla seconda parte della medesima disposizione incriminatrice dell’art. 216, comma 1, n. 2, per le condotte di infedele tenuta delle scritture contabili, caso nel quale le scritture esistono e sono rinvenute, ma sono state tenute in guisa da rendere impossibile la ricostruzione degli affari e del patrimonio sociale, è sufficiente il dolo generico (tra le altre: Sez. 5, n. 18634 del 1/2/2017, Autunno, Rv. 269904; Sez. 5, n. 26379 del 5/3/2019, COGNOME, Rv. 276650; Sez. 5, n. 33114 del 8/10/2020, COGNOME, Rv. 279838).
Nel caso in esame la Corte calabrese offre una doppia motivazione a fronte del motivo di appello, che non poneva la questione della esatta qualificazione giuridica della condotta di bancarotta documentale – se specifica o generica – ma richiedeva l’esclusione del dolo specifico.
La Corte di appello valorizza correttamente gli indici di fraudolenza (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763), come anche chiarisce, ai fini del dolo specifico, la connessione probatoria ‘forte’ esistente fra la condotta documentale e quella distrattiva.
A riguardo va evidenziato come tale valutazione risulti in linea con il consolidato orientamento di questa Corte, da ultimo espresso da Sez. 5 Gualandri, fol. 12 e ss. della motivazione, che ha osservato come «… gli elementi dai quali desumere la sussistenza del dolo specifico, nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale specifica, o del dolo generico, nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale generica, non possono certamente coincidere con la mera scomparsa dei libri contabili o con la sola tenuta degli stessi in guisa tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari – e, quindi, rende evidente come, in concreto, a fronte di fenomeni di distrazione, la prova della bancarotta documentale risulti indiscutibilmente più agevole.
Sicché, a fronte del dato fenomenico descritto dalla norma .incriminatrice, ulteriori circostanze devono essere, volta per volta, individuate dai giudici di merito, funzionali a circoscrivere, in un caso, la finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare pregiudizio ai creditori, ovvero, nell’altro, la consapevolezza che l’irregolare tenuta della documentazione contabile sia in grado di arrecare pregiudizio alle ragioni del ceto creditorio.
Appare evidente come tra le suddette circostanze assuma un rilievo fondamentale la condotta del fallito, nel suo concreto rapporto con le vicende attinenti alla vita economica dell’impresa, nel senso che, una volta accertati fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, il giudice di merito potrà,
del tutto ragionevolmente, ricollegare, sul piano probatorio, la logica presunzione per la quale l’irregolare tenuta delle scritture contabili è, di regola, funzionale all’occultamento o alla dissimulazione di atti depauperativi del patrimonio sociale, ovvero che l’omessa tenuta della contabilità, o le condotte ad essa equivalenti, sia funzionale alla detta dissimulazione di atti depauperativi, allo scopo di arrecare un pregiudizio ai creditori o avvantaggiare il fallito, ovvero terzi» (Sez. 5, n. 15743 del 18/01/2023, COGNOME, Rv. 284677 – 02, in motivazione, che cita Sez. 5, n. 26613 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276910; Sez. 5, n. 23251 del 29/04/2014, COGNOME, Rv. 262384).
In applicazione di tali principi, correttamente la Corte di appello comprova il dolo specifico della bancarotta documentale traendone prova dalle condotte distrattive. Tale argomentazione, corretta e non manifestamente illogica, della sentenza impugnata esclude in sé la riqualificazione nella condotta di bancarotta semplice, in quanto la bancarotta semplice e quella fraudolenta documentale si distinguono in relazione al diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo, che, ai fini dell’integrazione della bancarotta semplice ex art. 217, comma secondo, legge fall., può essere indifferentemente costituito dal dolo o dalla colpa, ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili, mentre per la bancarotta fraudolenta documentale, ex art. 216, comma primo, n. 2), legge fall., l’elemento psicologico deve essere individuato esclusivamente nel dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle scritture, con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore (Sez. 5, n. 2900 del 02/10/2018, dep. 22/01/2019, Pisano, Rv. 274630 – 01).
I motivi sono quindi infondati.
Quanto all .’ultima censura, la stessa reitera il tema della incompatibilità logica fra attendibilità delle scritture parziali rinvenute e sussistenza del reato documentale, anche nella prospettiva dell’assenza di danno grave per il ceto creditorio.
A ben vedere, però, l’aggravante dell’art. 219, comma 1, I. fall. è stata contestata in relazione ad entrambe le fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale – e la Corte di appello motiva in ordine al danno ingente da distrazione – e non da bancarotta documentale – subìto da parte del ceto creditorio, cosicché la presente doglianza – concentrata invece solo sul danno da reato documentale – risulta del tutto aspecifica, in quanto non correlata alla motivazione impugnata.
6. Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 13/06/2025