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Amministratore di fatto: la responsabilità penale

La Corte di Cassazione conferma la condanna per bancarotta fraudolenta di un amministratore di fatto. L’imputato, pur non avendo cariche formali in un consorzio, ne era il dominus effettivo e aveva architettato un complesso schema di evasione fiscale che ha portato al fallimento della società. La sentenza chiarisce i criteri per identificare la figura dell’amministratore di fatto e la sua responsabilità penale per i reati fallimentari.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di Fatto e Bancarotta: La Cassazione Conferma la Responsabilità Penale

La figura dell’amministratore di fatto è cruciale nel diritto penale societario, poiché estende la responsabilità per i reati fallimentari a chi, pur senza una carica formale, gestisce di fatto un’impresa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, confermando la condanna per bancarotta fraudolenta a carico di un soggetto che era il vero dominus di un complesso schema fraudolento che ha portato al fallimento di un consorzio.

I Fatti del Caso: Un Complesso Schema Fraudolento

Il caso riguarda un imprenditore condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e impropria da reato societario. Egli era stato identificato come l’amministratore di fatto di un consorzio, dichiarato fallito. Secondo l’accusa, l’imputato aveva creato una struttura societaria articolata, composta da una società capofila da lui controllata, il consorzio fallito (operante come entità interposta) e diverse cooperative finali.

Questo meccanismo consentiva una doppia fatturazione delle prestazioni, generando un ingente vantaggio economico derivante dall’evasione dell’IVA. Le cooperative finali, prive di una reale struttura organizzativa e intestate a prestanome, accumulavano enormi debiti fiscali per poi essere liquidate e sostituite. L’intero sistema, sebbene virtuale nelle sue transazioni, era finalizzato a riversare sulle cooperative l’onere fiscale, traendo profitto dall’evasione a danno dell’Erario e, infine, del ceto creditorio con il fallimento del consorzio.

La Responsabilità dell’Amministratore di Fatto

Il ricorrente ha contestato la sua qualifica di amministratore di fatto, sostenendo che il suo ruolo apicale nella società capogruppo non implicava automaticamente una gestione effettiva del consorzio fallito. Tuttavia, la Corte di Cassazione, in linea con i giudici di merito, ha respinto questa tesi. Le prove, incluse le testimonianze dei gestori delle cooperative finali, hanno dimostrato che l’imputato era il vero dominus dell’intero gruppo. Era lui a decidere quali lavori assegnare e a quali cooperative, occupandosi persino dell’erogazione degli stipendi dei loro dipendenti.

La Corte ha ribadito che la nozione di amministratore di fatto, ai sensi dell’art. 2639 c.c., non richiede l’esercizio di tutti i poteri gestori, ma di un’attività gestoria apprezzabile, continuativa e non meramente occasionale. Tale accertamento, basato su elementi sintomatici (rapporti con dipendenti, fornitori, clienti, finanziatori), è un apprezzamento di fatto che, se logicamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo i motivi in parte inammissibili e in parte infondati. Ha confermato che le sentenze di primo e secondo grado formavano un unico corpo decisionale coerente. La Corte ha validato la ricostruzione dei giudici di merito, secondo cui l’imputato esercitava un controllo assoluto sulle società consorziate, riducendo gli amministratori di diritto a meri esecutori delle sue direttive.

Sono stati respinti anche gli altri motivi di ricorso, tra cui:
* La qualificazione della frode IVA come operazione dolosa che ha causato il dissesto.
* La contestazione sulla distrazione di una somma di denaro, ritenuta provata da annotazioni contabili incrociate.
* Il vizio di motivazione sull’elemento soggettivo (dolo), che la Corte ha dedotto dalle modalità esecutive dell’intera operazione criminosa, chiaramente volte a non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un consolidato orientamento giurisprudenziale. In primo luogo, viene sottolineato che l’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento tipici di una capogruppo può tradursi in una gestione di fatto delle controllate quando ne limita l’autonomia e riduce i loro amministratori a semplici esecutori. Nel caso di specie, il controllo dell’imputato era così pervasivo da integrare pienamente la fattispecie.

In secondo luogo, la Corte ha evidenziato come le false comunicazioni sociali e la tenuta irregolare della contabilità non fossero mere negligenze, ma atti dolosi finalizzati a occultare lo schema fraudolento e a cagionare o aggravare il dissesto della società, procurandole un passivo enorme a fronte di un quasi totale azzeramento dell’attivo. La prova del dolo, secondo i giudici, può essere desunta logicamente dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione, che rivelano la cosciente volontà di commettere il reato.

Le Conclusioni

La sentenza rappresenta un’importante conferma dei principi che regolano la responsabilità penale dell’amministratore di fatto. Dimostra che il diritto non si ferma alle apparenze formali, ma va a colpire chi, dietro lo schermo di complesse strutture societarie, detiene il potere decisionale effettivo e lo utilizza per scopi illeciti. La decisione ribadisce che un’attività gestoria continuativa e significativa, anche se non formalizzata, è sufficiente per fondare la responsabilità per reati gravi come la bancarotta fraudolenta. Per gli operatori del diritto, questa pronuncia è un monito sulla necessità di analizzare la sostanza dei rapporti di potere all’interno dei gruppi di imprese per individuare le reali responsabilità penali.

Chi può essere considerato un amministratore di fatto e ritenuto responsabile per reati fallimentari?
Un amministratore di fatto è colui che, anche senza una nomina ufficiale, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici della gestione societaria. La sua responsabilità penale, anche per bancarotta, viene accertata analizzando elementi concreti come la gestione dei rapporti con dipendenti, clienti e fornitori, che dimostrino un suo inserimento organico e direttivo nella vita della società.

La guida di una società capogruppo implica automaticamente la responsabilità per il fallimento di una società consorziata o controllata?
No, non automaticamente. Tuttavia, la responsabilità sorge quando l’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento da parte della capogruppo si traduce in specifici atti di gestione delle società controllate, limitandone l’autonomia e riducendo i loro amministratori formali a meri esecutori di direttive. In tal caso, chi guida la capogruppo può essere considerato amministratore di fatto della controllata.

Come viene provato l’elemento soggettivo (il dolo) nel reato di bancarotta fraudolenta documentale?
Nel caso della bancarotta documentale cd. generica (tenere le scritture in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio), è sufficiente il dolo generico, non quello specifico. La prova del dolo può essere desunta attraverso un processo logico-deduttivo dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa, che nel loro complesso rivelano la volontà cosciente di creare confusione contabile e ostacolare l’accertamento della reale situazione patrimoniale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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