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Amministratore di fatto: la responsabilità penale

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato, confermando la sua condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. La sentenza ribadisce che la responsabilità penale sorge dall’esercizio concreto delle funzioni gestorie, qualificando l’imputato come amministratore di fatto, a prescindere da una nomina formale. Le operazioni distrattive e la tenuta irregolare della contabilità sono state ritenute sufficienti a configurare il reato.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di fatto: quando la gestione vale più della carica

La figura dell’amministratore di fatto è centrale nel diritto penale societario e una recente sentenza della Corte di Cassazione lo conferma, ribadendo un principio fondamentale: per la legge, conta chi esercita effettivamente il potere, non chi detiene solo formalmente la carica. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imprenditore condannato per bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, proprio in virtù del suo ruolo di gestore occulto di una società fallita.

Il caso in esame

Il procedimento giudiziario ha origine dal fallimento di una società a responsabilità limitata, dichiarato nel 2013. Le indagini avevano rivelato una serie di operazioni finanziarie e immobiliari che avevano progressivamente svuotato il patrimonio aziendale a danno dei creditori. L’imputato, pur non rivestendo formalmente alcuna carica sociale, è stato ritenuto dai giudici di primo e secondo grado il vero dominus della società, colui che prendeva le decisioni strategiche e operative.

Condannato per concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando diversi punti della decisione d’appello. In particolare, ha negato la sua qualifica di amministratore di fatto, sostenendo che le operazioni incriminate fossero lecite e che mancasse la consapevolezza di commettere un illecito. Ha inoltre contestato l’addebito relativo alla bancarotta documentale e la congruità della pena.

Il ruolo dell’amministratore di fatto nella bancarotta

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha colto l’occasione per consolidare il proprio orientamento sulla figura dell’amministratore di fatto. I giudici hanno chiarito che la responsabilità penale non si fonda sull’investitura formale, ma sul dato funzionale dell’attività concretamente svolta. Chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici della funzione gestoria risponde penalmente al pari dell’amministratore di diritto.

Nel caso specifico, numerosi elementi provavano il ruolo direttivo dell’imputato:
* Aveva deciso la struttura societaria, optando per una controllante di diritto inglese.
* Aveva introdotto il commercialista nella società.
* Aveva compiuto scelte operative cruciali, anche in coordinamento con altri imprenditori.
* Aveva disposto pagamenti relativi a importanti operazioni immobiliari.
* La documentazione contabile, seppur incompleta, era stata rinvenuta in un locale appartenente a sua figlia.

Questi indici, secondo la Corte, non rappresentavano atti isolati, ma delineavano una gestione unitaria e strategica, sufficiente a qualificarlo come amministratore di fatto.

La natura fraudolenta delle operazioni e il dolo

La difesa aveva tentato di derubricare le condotte a mera gestione imprudente o negligente, ma la Corte ha respinto tale tesi. Le operazioni contestate, come la cessione di un compendio immobiliare senza contabilizzare i costi e senza trasferire il relativo mutuo, erano state giudicate come funzionali a mantenere i debiti in capo alla società fallita e a trasferire altrove i ricavi.

I giudici hanno qualificato tali atti come “a priori pregiudizievoli”, evidenziando un impoverimento sistematico del capitale sociale che non poteva essere attribuito al normale rischio d’impresa. La consapevolezza dell’illiceità (il dolo generico richiesto per la bancarotta patrimoniale) è stata desunta dalla natura stessa delle operazioni, palesemente svantaggiose per la società. Neppure le garanzie personali (fidejussioni) prestate dall’imputato sono state ritenute sufficienti a escludere il dolo, poiché non eliminavano il carattere distrattivo del piano complessivo.

Per quanto riguarda la bancarotta documentale, la Corte ha sottolineato che la tenuta irregolare e parziale delle scritture contabili, tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, integra il reato con dolo generico. Non è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la coscienza e volontà di tenere la contabilità in modo scorretto.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile principalmente perché tendeva a una rivalutazione del merito dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità. Essendoci una “doppia conforme”, ovvero due sentenze di merito giunte alle medesime conclusioni, i motivi di ricorso devono evidenziare vizi logici macroscopici o travisamenti della prova, non semplici discrepanze interpretative. La motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta congrua e logicamente coerente, avendo risposto a tutte le censure difensive, seppur rigettandole.

La Corte ha ribadito che la responsabilità dell’amministratore di fatto è autonoma e diretta. Egli è destinatario della norma incriminatrice e gravato degli stessi doveri dell’amministratore di diritto. La prova della sua gestione è sufficiente per affermarne la responsabilità penale per i reati fallimentari. Infine, anche la pena è stata giudicata adeguata, in quanto correttamente commisurata al ruolo gestorio preponderante dell’imputato e ai suoi precedenti penali.

Le conclusioni

La sentenza consolida un principio di fondamentale importanza: nel diritto penale d’impresa, la sostanza prevale sulla forma. La responsabilità per i reati societari e fallimentari non può essere elusa attraverso schermi formali o la nomina di “teste di legno”. Chiunque eserciti un potere gestorio effettivo e significativo su una società si assume i doveri e le responsabilità che ne derivano, inclusa quella penale in caso di fallimento. Questa decisione serve da monito per chiunque creda di poter gestire un’impresa nell’ombra, al riparo dalle conseguenze legali delle proprie azioni.

Chi è considerato ‘amministratore di fatto’ ai fini della responsabilità penale?
Un soggetto è considerato amministratore di fatto quando, pur in assenza di una nomina formale, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici della funzione gestoria, come compiere scelte operative, coordinarsi con altri imprenditori e disporre pagamenti per conto della società.

Quali prove sono sufficienti per dimostrare il ruolo di amministratore di fatto?
La prova può derivare da un insieme di indici sintomatici, come la gestione diretta di operazioni commerciali, la scelta dei consulenti, la partecipazione attiva alla vita societaria in assenza dell’amministratore di diritto e la disponibilità della documentazione sociale.

Per la bancarotta documentale è sempre necessario il dolo specifico di danneggiare i creditori?
No. Secondo la sentenza, per la condotta di tenuta irregolare o parziale delle scritture contabili è sufficiente il dolo generico, ovvero la coscienza e la volontà di tenere la contabilità in modo da non permettere la ricostruzione del patrimonio e degli affari. Il dolo specifico è richiesto solo per la distruzione o l’occultamento fisico dei libri contabili.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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