Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 19402 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 19402 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a GREZZANA il 30/01/1956
avverso la sentenza del 31/05/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG NOME COGNOME la quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
È oggetto di ricorso la sentenza della Corte di appello di Brescia, indicata in epigrafe, che ha confermato la condanna resa in primo grado nei confronti di NOME COGNOME per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e bancarotta fraudolenta impropria. Secondo la rubrica, l’imputato, in qualità di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, dalla data della costituzione fino alla dichiarazione di fallimento intervenuta in data 24 aprile 2013, 1) concorreva nella condotta distrattiva di euro 322.000 circa, prelevati dai soci nel periodo 2008-2012 e mai restituiti alla società né utilizzati a favore della stessa, nonché di euro 36.000 circa, quali erogazioni indebite a titolo di retribuzione per il proprio compenso; 2) concorreva ad aggravare lo stato di dissesto della società, commettendo fatti previsti dall’art. 2621 cod. civ., segnatamente esponendo nei bilanci 2009 e 2010 consistenti poste attive fittizie, per un ammontare di 1.850.000 euro, che impedivano l’emersione di corrispondenti perdite di bilancio e che avrebbero portato a un passivo, quantificato dal curatore in seguito al fallimento, di oltre 3.000.000 di euro. Ciò induceva in errore i destinatari della comunicazionesegnatamente, i creditori- in ordine all’effettiva situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società.
Avverso la sentenza, ha presentato ricorso l’imputato, per il tramite del proprio difensore, Avv. NOME COGNOME affidando le censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Col primo motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione al ruolo di amministratore di fatto, ascritto all’imputato sulla base di argomentazioni congetturali e con giudizio meramente probabilistico. Non risultano adeguatamente comprovati, nella motivazione dell’impugnata sentenza, gli indici, soltanto sintomatici, del ruolo gestorio asseritamente svolto dal ricorrente, tratti dalle dichiarazioni dei dipendenti della fallita società e dalle emergenze documentali allegate alla relazione del curatore fallimentare.
1.2 Col secondo motivo, si lamenta la carenza di motivazione in ordine alle ascritte condotte distrattive, illogicamente fondate sulla premessa maggiore del ragionamento, vale a dire l’indinnostrato ruolo di amministratore di fatto.
2.2 Col terzo motivo, si deduce violazione di legge in relazione alla mancata riqualificazione in delitto di bancarotta preferenziale della condotta concernente l’asserita distrazione di euro 36.000 a titolo di compenso professionale. La Corte distrettuale avrebbe dovuto considerare la congruità del compenso rispetto al lavoro effettivamente svolto dal ricorrente e, ciò, nonostante l’assenza di una
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delibera assembleare o di una previsione statutaria che avessero previsto il compenso a suo favore.
2.4 Col quarto motivo, si lamenta vizio di motivazione in relazione alla bancarotta impropria. Osserva la difesa che, con atto d’appello, si era contestato l’error iuris relativo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato. Infatti, il testo dell’art. 2621 (“false comunicazioni sociali”) vigente, ratione temporis, all’epoca del fatto contestato (24 aprile 2013) conteneva il riferimento alla “intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, che non risulta, invece, contestato all’imputato. I giudici di merito hanno errato nell’inquadrare il fatto tipico contestato alla luce della disciplina successiva all’epoca del commesso delitto (vale a dire alla luce del testo dell’art. 2621 cod. civ. quale riformato con la legge n. 69 del 2015). Pertanto, non essendo stata imputata al Tacchella l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico, prevista nell’originaria formulazione dell’art. 2621 cod. civ., neppure si poteva addebitargli la condotta prevista e punti dall’art. 223, secondo comma, n. 1), I. fall.
Con motivazione eccentrica rispetto a quanto dedotto in appello, la Corte territoriale ha replicato a proposito di un tema non dedotto, ovverosia il difetto di contestazione in ordine all’elemento soggettivo del reato. In mancanza di effettiva confutazione della doglianza eccepita in appello, l’imputato è stato deprivato del diritto a un doppio vaglio giurisdizionale in merito al delitto ascritto al capo 2) della rubrica.
2.5 Col quinto motivo, si deduce vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte distrettuale ha confermato il giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti generiche e circostanze aggravanti. Si evidenzia la contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui, per un verso, viene valorizzato il comportamento collaborativo dell’imputato nei confronti della curatela fallimentare e l’avvenuta restituzione della somma distratta a titolo di compenso, e, dall’altro, se ne è minimizzata l’efficacia ai fini della complessiva valutazione.
Sono pervenute le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato.
1.1 n primo motivo è inammissibile, in quanto generico, aspecifico, oltre che reiterativo di censure già disattese dalla Corte distrettuale, con motivazione logica; esso omette, pertanto, di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata
avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr. ex plur., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710 – 01).
Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’attribuzione della qualifica di amministratore “di fatto” è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (v., ad es., Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, COGNOME, Rv. 277540 – 01; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269101 – 01). A tal proposito, questa Corte ha da tempo sottolineato come significatività e continuità dello svolgimento di funzioni gestorie non comportino necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, richiedendo un’attività svolta in modo non episodico o occasionale (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 256534 – 01).
Siffatta cornice di riferimento informa adeguatamente l’ordito motivazionale dell’impugnata sentenza, dove è valorizzata la pregnanza, ai fini dell’attribuzione della qualifica o della funzione di amministratore di fatto del ricorrente, dei poteri in concreto esercitati da quest’ultimo in maniera non episodica (sul punto, v., ad es., Sez. 2 n. 36556 del 24/05/2022, COGNOME, Rv. 283850; Sez. 5, n. 27264 del 10/07/2020, COGNOME, Rv. 279497 – 01).
I giudici di merito, nelle due decisioni conformi – destinate ad integrarsi nel loro apparato motivazionale (v., ad es., Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278611; sul punto, v. già Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, COGNOME, Rv. 209145) – hanno adeguatamente evidenziato il ruolo gestorio del ricorrente, traendone conferma da una pluralità di dati – di natura sia dichiarativa sia documentale – emergenti dall’istruttoria dibattimentale, in base ai quali è stato ritenuto comprovato, con motivazione scevra dai dedotti vizi, che il ricorrente rappresentava la principale figura decisionale di riferimento all’interno della fallita società. In particolare, si sono a tal fine valorizzate le dichiarazioni dei quattordici lavoratori dipendenti dell’azienda, i quali si sono riferiti al ricorrente come alla persona che gestiva, tra l’altro, le assunzioni, gli aumenti e le rivendicazioni salariali. Altresì adeguatamente valorizzate risultano le prove documentali che indicavano il ruolo di assoluta preminenza dell’imputato nella gestione della società e, segnatamente, le missive telematiche aventi a oggetto direttive impartite al personale per la vendita di macchinari aziendali (il commercio di macchinari, utensili e impianti costituiva, infatti, parte dell’oggetto dell’attività della fall
RAGIONE_SOCIALE, i rapporti con la proprietà dell’immobile in cui aveva sede la fallita, la gestione personale dell’account di posta elettronica aziendale, l’avallo prestato a effetti cambiari per importi rilevanti.
1.2 Del pari inammissibile è il motivo secondo. COGNOME Le ragioni dell’inammissibilità sono strettamente collegate a quanto appena esposto sub 1.1, a proposito del dimostrato ruolo di amministratore di fatto ascritto al ricorrente. E, diversamente da quanto eccepito dalla difesa, tale collegamento – tra il comprovato ruolo di amministratore di fatto e le ascritte condotte distrattive -non si è risolto affatto in mero sillogismo. La Corte distrettuale ha, infatti, chiarito come il Tacchella – proprio agendo quale amministratore di fatto e, dunque, dominus delle più significative scelte imprenditoriali, oltre che delle operazioni di contabilità aziendale – abbia eseguito gli ascritti prelevamenti, peraltro dissimulandone la natura distrattiva mediante artifici contabili mirati a creare inesistenti partite di credito verso terzi.
A tal proposito, si sono già ricordati i passaggi della gravata sentenza in cui, con congrua e logica motivazione, sono state evidenziate le concrete modalità di accesso diretto all’account di posta elettronica aziendale, mediante il quale l’imputato gestiva de facto la contabilità e le operazioni di dare-avere. Sicché il ragionamento espositivo seguito in motivazione può dirsi senz’altro ispirato allo stabile indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, che impone al giudice di merito di individuare «gli elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttiva in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società», il cui accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, COGNOME, Rv. 277540; COGNOME, Rv. 256534, cit.; per una recente applicazione di tali principi, cfr. Sez. 5, n. 15142 del 06/03/2025, Muraglia e a., n.m.).
Quanto fin ricordato depriva di ogni fondamento l’eccezione, improntata a logica del tutto congetturale, relativa alla mancata prova della consapevolezza, da parte del ricorrente, dell’avvenuta distrazione di euro 322.099 (somma che, in tesi difensiva, ben avrebbe potuto distrarre il coimputato COGNOME all’insaputa del COGNOME). Come anticipato, i giudici del merito hanno illustrato come la comprovata disponibilità, in capo al ricorrente, dell’impianto contabile dell’azienda lo ponesse nella condizione ideale per controllare gli andamenti dei flussi finanziari, in entrata e in uscita; è stata ritenuta, pertanto, correttamente infondata, in quanto inverosimile, la tesi difensiva che attribuiva ad altri (COGNOME) la responsabilità delle ascritte distrazioni. Inoltre, in motivazione è stato notato senza che la puntualizzazione sia stata contrastata – come le contestate operazioni
distrattive abbiano, in buona parte, preceduto temporalmente (collocandosi tra il 2008 e il 2012) l’entrata in scena (nel maggio 2010) del COGNOME nel ruolo, a sua volta, di amministratore di fatto.
1.3 Infondato è il terzo motivo di ricorso, perché elusivo della pregnante replica fornita dalla Corte territoriale all’eccezione difensiva secondo cui la giustificazione dei circa 36.000 euro, erogati a favore del ricorrente, fosse da ravvisarsi nel compenso a titolo di retribuzione per l’attività lavorativa svolta dal RAGIONE_SOCIALE a favore della RAGIONE_SOCIALE
Premesso che l’imputato non era contrattualmente legato alla fallita società da un rapporto di lavoro subordinato (come emerso nella relazione del curatore fallimentare, richiamata in parte motiva, v. p. 4), la Corte d’appello ha ricordato che il COGNOME, in quanto amministratore di fatto, non già di amministratore di diritto, della fallita, non poteva vantare alcun credito derivante da prestazioni lavorative.
Alla luce di tale principale e dirimente rilievo, la motivazione della gravata sentenza ha fondatamente respinto la tesi difensiva, basata, non a caso, sul riferimento a orientamenti di questa Corte del tutto inconferenti, in quanto riferiti alla configurabilità del delitto di bancarotta preferenziale, in luogo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, nei casi in cui l’amministratore di diritto (o il liquidatore), non già l’amministratore di fatto, ottenga in pagamento di suoi crediti verso la società in dissesto, relativi a compensi e rimborsi spese, una somma congrua rispetto al lavoro prestato (così Sez. 5, n. 48017 del 10/07/2015, COGNOME, Rv. 266311 – 01; Sez. 5, n. 32378 del 12/04/2018, COGNOME, Rv. 273576 01, con medesimo principio, riferito alla persona del liquidatore).
La replica della Corte d’appello – sebbene posta in via concessiva (…”a prescindere dal fatto che il COGNOME era amministratore di fatto e non di diritto”: p. 9 dell’impugnata sentenza) – è a tal punto precipua da far scolorire le ulteriori argomentazioni, valorizzate ad abundantiam in motivazione, relative al fatto 1) che nello statuto della società non risultasse in alcun modo contemplata una forma di compenso a favore del COGNOME (e, si aggiunge, neppure poteva esserlo, posto quanto appena osservato a proposito dell’assenza di un rapporto di lavoro contrattualmente regolato); 2) che alcuna delibera assembleare ne aveva previsto la retribuzione, né erano stati indicati eventuali parametri che consentissero forme di liquidazione del compenso a suo vantaggio.
Deve pertanto ribadirsi che all’amministratore di fatto non possono applicarsi i principi di diritto, elaborati da questa Corte con riferimento alla diversa posizione dell’amministratore di diritto, secondo cui, in determinate condizioni, al giudice di merito spetta in compito di «verificare se, in assenza di una delibera
assembleare o di una quantificazione statutaria del compenso per l’attività svolta, cui ha diritto il soggetto che abbia ritualmente accettato la carica di amministratore di una società di capitali, il prelevamento da parte di quest’ultimo di denaro dalle casse della società in dissesto configuri il delitto di bancarotta preferenziale o, diversamente, quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, a seconda che il diritto al compenso sia correlato o meno a una prestazione effettiva e il prelievo sia o meno congruo rispetto all’impegno profuso» (Sez. 5, n. 36416 del 11/05/2023, COGNOME, Rv. 285115 – 01).
1.4 fi quarto motivo è infondato. Per chiarire le ragioni dell’infondatezza, è opportuno muovere dal consolidato principio di diritto in tema di elemento soggettivo del delitto di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento alle condotte di cui all’art. 2621 cod. civ.: in tali casi, «il dolo» – come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte – «richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico» (Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449 – 01; cfr. anche, ex multis, Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, P.g.’ Rv. 252804 – 01; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, COGNOME, Rv. 260356 – 01).
Ora, nella motivazione dell’impugnata sentenza, di tale “consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico” – condizione necessaria e sufficiente a dar conto della ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato in parola – la Corte d’appello ha fornito sufficiente dimostrazione, ricordando, in particolare, quel che risulta anche dal capo d’accusa, vale a dire l’esposizione, da parte del ricorrente, di poste attive, tanto consistenti quanto fittizie, che avevano impedito di portare a emersione le corrispondenti perdite di bilancio (per un ammontare complessivo pari a euro 1.850.000, 00), tali da azzerare completamente il capitale sociale già nell’esercizio del 2009 (ben quattro anni prima del fallimento, dunque).
Che a tale livello di consapevolezza nell’esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero si fosse aggiunta, nella prospettiva fatta propria dai giudici di merito, un “effettivo inganno dei creditori” (p. 9 della parte motiva), è circostanza che, lungi da indebolire la motivazione (rendendola “eccentrica”, come lamentato dal ricorrente, rispetto a quanto dedotto in appello), la corrobora.
E, infatti, in coerenza con la doglianza incentrata sul preteso error iuris relativo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascritto e sulla disciplina applicabile, ratione temporis, al fatto contestato, i giudici dell’appello hanno voluto chiarire che il ritenuto (e, cioè, l’effettivo e concreto inganno) era
ricompreso nel contestato (…”in modo idoneo a indurre i … creditori.., in errore in ordine alla reale situazione patrimoniale…”).
Sicché, cade nel vuoto l’eccezione relativa al vizio di motivazione, per eccentricità della stessa rispetto al tema dedotto in appello: quest’ultimo, infatti, come correttamente inteso dalla Corte d’appello, concerneva, al contempo, il tema della mancata esplicitazione del requisito soggettivo dell’intenzione di ingannare i soci ex art. 2621 (nella versione precedente alla riforma apportata dalla I. 69/2015), e, implicitamente, il tema afferente alla violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.
1.5 II quinto motivo è manifestamente infondato, in quanto aspecifico e generico, non confrontandosi, la difesa, con le puntuali osservazioni della Corte d’appello in punto di valutazione del trattamento sanzionatorio (sulla mancanza di specificità del motivo, che va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità per violazione dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen, v. ex plur., Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME, Rv. 260608 – 01; Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, COGNOME, Rv. 255568 – 01; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, COGNOME, Rv. 253849).
In primo luogo, la Corte distrettuale ha precisato i motivi per cui la condotta collaborativa del ricorrente, enfatizzata in ricorso, è stata ritenuta tutt’altro che completa e leale (si vedano le puntuali osservazioni a p. 10 della motivazione). In secondo luogo, e più in generale, si ritiene che il giudizio sull’equivalenza delle circostanze sia stato diffusamente argomentato, a partire dalla consistenza del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale, correttamente commisurato al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all’esecuzione concorsuale (v. Sez. 1, n. 28009 del 10/04/2024, Rubes, Rv. 286675 – 01). Ne deriva la correttezza delle statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, che, «implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità quando, come nella specie, non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto» (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245931; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, COGNOME, Rv. 270450 01).
2. Per i motivi fin qui esposti, ritiene il Collegio che il ricorso vada rigettato.
Alla pronuncia di rigetto, consegue la condanna del ricorrente, ex
art. 616 cod.
proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 04/04/2025
Il consigliere estensore