Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 17815 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 17815 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a FIRENZE il 11/03/1978
avverso la sentenza del 14/05/2024 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME
COGNOME
che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa nel giudizio abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di Firenze ha dichiarato, per quanto qui di rilievo, NOME COGNOME – quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE sino al fallimento dichiarato con sentenza dell’Il febbraio 2020, e quale amministratore di diritto della RAGIONE_SOCIALE – responsabile, in concorso con NOME COGNOME (marito della ricorrente) e NOME COGNOME ritenuti entrambi altri due amministratori di fatto, nonché con NOME COGNOME amministratore legale e poi liquidatore della GMC, dei reati ascritti ai capi al, a4, a5 dell’imputazione, condannandola alla pena di giustizia; l’ha invece assolta dalle imputazioni sub a2) e a3), perché il fatto non sussiste.
1.1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello Di Firenze, in accoglimento degli appelli del Pubblico Ministero e dell’imputata, ha ravvisato la responsabilità della COGNOME anche per il delitto sub a3), e ha rideterminato il trattamento sanzionatorio.
1.2. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, le cause del dissesto erano da individuarsi in un pesante indebitamento, superiore al milione di euro, ritenuto non più sostenibile nel 2017, costituito per la gran parte da debiti tributari, contabilizzati solo nel 2017, a cui era corrisposta una contrazione del fatturato, di fatto azzerato nel 2018, quando l’attività venne trasferita in capo alla RAGIONE_SOCIALE, società costituita nel 2016 dal Presidente del CdA, COGNOME e dal consigliere COGNOME: da quanto accertato dalla curatela e confermato dai dipendenti della fallita, passati a RAGIONE_SOCIALE, la costituzione di tale ultima società (che aveva avuto la stessa sede della fallita ed era stata amministrata inizialmente dagli stessi COGNOME e COGNOME per poi passare alla moglie di quest’ultimo, appunto la ricorrente NOME COGNOME), era servita a trasferire a un soggetto in bonis l’intera azienda, ( clientela storica, dipendenti con relativo know how, automezzi, attrezzature e mobili dell’ufficio, avviamento).
I giudici di merito hanno ritenuto sussistenti nei confronti della ricorrente, i delitti di:
bancarotta distrattiva con riguardo alla cessione di fatto dell’azienda in favore della RAGIONE_SOCIALE senza alcun corrispettivo, con conseguente pregiudizio per la garanzia dei creditori della fallita ( capo al);
di falsificazione dei bilanci della società sino al bilancio del 31/12/2017 (capo a3), per essere stato sempre appostato un passivo dimezzato, non essendo stati contabilizzati i debiti tributari maturati;
di cagionamento o aggravamento del dissesto con operazioni consistite nella cessione dell’attività e nella sistematica omessa corresponsione dei
tributi e degli oneri previdenziali, per un ammontare complessivo superiore al milione e mezzo di euro, pari a oltre l’83% del passivo (capo a4);
di aggravamento del dissesto per avere omesso di richiedere il fallimento in proprio pur essendo la società in crisi dal 2010 e in stato di dissesto dal 2013, tanto da determinare un passivo fallimentare di euro 1.870.000 ( capo a5).
Il ricorso per cassazione, per il tramite del difensore di fiducia, avvocato NOME COGNOME è affidato a tre motivi, enunciati nei limiti richiesti per la motivazione ai sensi dell’art. 173 disp.att. cod.proc.pen..
2.1. Con il primo motivo, denuncia erronea applicazione della legge fallimentare, e correlati vizi della motivazione, con riferimento all’affermato svolgimento di attività gestionale quale amministratore di fatto della fallita, rivestendo, invece, la ricorrente, esclusivamente il ruolo di mero contabile, addetta allo svolgimento di compiti basilari non integranti atti di gestione della società, mai “diretta” dalla COGNOME.
2.2. Con il secondo motivo, è denunciata violazione dell’art. 603 comma 3-bis cod. proc. pen., per mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante la escussione del curatore fallimentare, necessaria a fronte dell’overturning effettuato dal giudice di appello, richiamando in proposito principi giurisprudenziali in tema di decisività della prova posta a fondamento della riforma dell’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado, ed evocando, laddove si ritenga insussistente l’obbligo di rinnovazione, la violazione degli artt. 27 comma 2 cost., e per il tramite dell’art. 117 Cost, dell’art. 6 par. 1 e 3 CEDU.
2.3. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 521 cod.proc.pen., mancando nella contestazione del capo a3) l’indicazione dell’avere la falsificazione del bilancio determinato e/o concorso a determinare il dissesto; si contesta, altresì, la stessa sussistenza del reato di bancarotta impropria da reato societario, integrato dall’art. 2621 cod.civ., poiché il dissesto non si è determinato per effetto della falsificazione dei bilanci per gli anni antecedenti all’esercizio 2017, bensì è dipeso dall’omesso versamento delle imposte
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato. 1.Con riferimento al primo motivo di ricorso – che risulta infondato – la difesa ricorrente – per sconfessare la tesi accusatoria del ruolo gestorio di fatto valorizza atomisticamente alcune dichiarazioni dei testi menzionati anche dalla Corte di appello nel tentativo di vanificarne la complessiva valenza accusatoria, che, invece, è stata ben illustrata nella sentenza impugnata, la quale ha
ricostruito il ruolo della COGNOME proprio inserendolo nel contesto di una gestione di fatto svolta in costante raccordo con gli altri soggetti, che pure svolgevano analogo ruolo gestorio, ognuno per il settore di propria competenza.
1.1. Ha, invero, evidenziato, la sentenza impugnata, come il ruolo gestorio della COGNOME si tragga da una lettura sinergica delle dichiarazioni di alcuni testimoni (COGNOME, NOME e COGNOME) – dalle quali emerge che la ricorrete gestiva tutti gli aspetti economici della società – e di quanto riferito dal consulente del lavoro a proposito della circostanza che egli, durante l’espletamento del suo mandato, si era sempre interfacciato con la COGNOME ( da lui reputata, infatti, come la persona che gestiva effettivamente l’azienda per quanto attiene ai dipendenti), come conclamato dalle e-mail che evidenziano la competenza e la autonomia decisionale dell’imputata. Ancora, sono state valorizzate, in tale ottica, le dichiarazioni del consulente tributario, che ha ricordato come la ricorrente abbia dimostrato di avere piena cognizione dei processi decisionali e il proprio ruolo gestionale attivo, e la circostanza che il coimputato COGNOME ha indicato i coniugi COGNOME/COGNOME come coloro che gestivano l’azienda; infine, è stato considerato l’ulteriore dato oggettivo costituito dall’avere la COGNOME acquisito il 70% delle quote della RAGIONE_SOCIALE, divenendone la amministratrice formale, in tal modo proseguendo, presso tale ultima società, nella veste formale, l’attività svolta di fatto per la RAGIONE_SOCIALE.
1.2. Dunque, i Giudici di merito hanno compiutamente ricostruito il ruolo gestorio svolto dalla ricorrente, enucleandone plurimi indicatori fattuali di cogestione, in linea con l’orientamento di questa Suprema Corte che, da tempo, tende a riconoscere la responsabilità dell’amministratore di fatto, privilegiando il dato funzionale dell’attività in concreto svolta, rispetto a quello meramente formale della investitura, e afferma, in particolare, che l’amministratore di fatto risponde penalmente in quanto le norme indicano gli amministratori con riferimento, non a una formale attribuzione di qualifiche, ma all’esercizio concreto delle funzioni che dette qualifiche sostanziano, essendosi orientata, la giurisprudenza, nel senso della estensibilità della disposizione di cui all’art. 2639 c.c. ( la quale stabilisce, per i nati societari, la equiparazione al soggetto formalmente investito della qualifica o della funzione prevista dalla legge civile sia di chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia di chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione), ai reati fallimentari ( Sez. 5 n. 36630 del 05/06/2 Rv. 228308; conf. Sez. 5 n. 39535 del 20/06/2012, Rv. 253363).
1.2.1. Si è chiarito, anche, che l’amministratore di fatto risponde a titolo autonomo con riferimento alle concrete funzioni esercitate e quale diretto destinatario della norma incriminatrice, sicchè egli è gravato dell’intera gamma
dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili ( Sez. 5 n. 39593 del 20/05/2011, Rv. 250844), con la conseguenza che, sul piano processuale, è necessaria e sufficiente, ai fini della bancarotta patrimoniale, la prova della gestione della società da parte dell’amministratore di fatto ( Sez. 5 n. 14103 del 19/10/1999, Rv. 215878), sulla base di indici sintomatici di gestione o cogestione della società che la giurisprudenza di legittimità ha enucleato nel conferimento di deleghe in settori fondamentali della attività di impresa, nella diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, nella costante assenza dell’amministratore di diritto, nella mancata conoscenza di quest’ultimo da parte de dipendenti. ( Sez. 5 n. 19145 del 13/04/2006, Rv. 234428; Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Rv. 268273).
1.2.2. La valutazione della Corte, adeguatamente esplicitata in motivazione, appare coerente con le premesse in fatto e aderente alle richiamate coordinate ermeneutiche, sicchè non è riscontrabile la dedotta contraddittorietà né la sentenza impugnata è affetta da illogicità manifesta, atteso che, come affermato nella giurisprudenza di questa Corte, la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili íctu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, Sez. U, sent. n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, COGNOME, Rv. 214794; Sez. U, sent. n. 12 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, COGNOME, Rv. 216260; Sez. U,sent. n. 47289 del 24/09/2003, dep. 10/12/2003, COGNOME, Rv. 226074).
1.2.3. La pretesa difensiva di valorizzare singole espressioni, disancorandole dal contesto della ricostruzione generale, non confrontandosi con l’interpretazione che i giudici di merito hanno attribuito alle fonti probatorie, valorizzate nella loro sinergia, rappresenta null’altro, come si è già evidenziato, il tentativo della ricorrente di sollecitare una diversa interpretazione degli elementi di prova valorizzati in modo coordinato dalla Corte territoriale, con argomentazioni logiche e coerenti.
2. Non ha pregio neppure il secondo motivo.
2.1. Il ricorrente, come premesso, si duole della mancata rinnovazione dell’esame del curatore fallimentare. L’eccezione relativa alla mancata audizione del curatore fallimentare nel giudizio d’appello ai sensi dell’art. 603 comma 3-bis
cod. proc. pen., è infondata in quanto non tiene conto delle modifiche apportate a tale disposizione dal d.lgs. n. 150 del 2022, in vigore dal 30 dicembre 2022.
2.2. E’ indubbio, infatti, che il testo originario della norma (introdotta dalla L. n. 103 del 2017) comportava l’obbligo di rinnovare le prove dichiarative decisive oggetto di diversa valutazione in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado, anche se pronunziata a seguito di giudizio abbreviato e che la violazione di tale obbligo determinava una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza d’appello, denunciabile in sede di giudizio di legittimità (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785).
2.2.1. Nondimeno, il citato decreto legislativo ha rimodulato l’ambito di applicazione della suddetta disposizione, circoscrivendo espressamente l’obbligo di rinnovazione alle prove dichiarative assunte nel corso del dibattimento di primo grado ovvero a seguito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 cod. proc. pen.
2.2.2. E’, dunque, escluso che il giudice dell’appello, il quale intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado pronunziata a seguito di giudizio abbreviato, sia tenuto alla rinnovazione dell’esame testimoniale del curatore fallimentare, fatte salve le eccezioni di cui si è appena detto, non ricorrenti nel caso di specie.
2.2.3. Neppure rileva che la modifica normativa sia entrata in vigore solo successivamente all’impugnazione della sentenza di primo grado, alla luce del principio di diritto che, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, con riferimento alla materia delle impugnazioni, è stato affermato dalle Sez. U n. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537, le quali hanno stabilito che, ai fini dell’individuazione del regime applicabile, in assenza di disposizioni transitorie, deve farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Per superare il conflitto tra disposizioni processuali che si succedono nel tempo, la sentenza suindicata ha evidenziato la necessità che si individui correttamente l’actus cui fare riferimento per fissare il corretto parametro intertemporale, parametro che, con specifico riferimento al campo processuale, è costituito dall’art. 11, primo comma, preleggi. Si è così precisato che l’atto «va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo», non potendosi accogliere una nozione indifferenziata di atto processuale. E, infatti, la citata pronunzia ha, in via esemplificativa, individuato alcune specie di atti, rispetto ai quali il parametro intertemporale finisce per essere diversamente modulato: «l’atto con effetti istantanei, che si esaurisce nel suo puntuale compimento»; l’atto ad esecuzione istantanea che però «presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga», ancorato ad un altro atto che definisce la
catena procedimentale divenendone centrale; l’atto «strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento», che realizza una fattispecie processuale complessa. In tal senso, il Supremo Collegio ha inteso sottolineare come la tipologia cui è riconducibile il singolo atto processuale finisca necessariamente per condizionare la regola tempus regit actum nella sua concreta applicazione. Come chiarito successivamente dalle Sez. Unite, n. 11586 del 30/09/2021, dep. 2022, D., Rv. 282808, in motivazione, il principio affermato dalla sentenza ‘Lista’ si riferisce all’atto di impugnazione in senso stretto, che consente il passaggio al successivo grado di giudizio, ricompreso nella tipologia degli atti con effetti istantanei. Ed in tal senso la medesima pronunzia da ultima evocata ha invece escluso che lo stesso principio possa essere applicato alla disciplina introdotta nel 2017 nel comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p., la quale «non è intervenuta a regolamentare in modo innovativo l’atto di impugnazione in guanto tale ovvero il regime stesso dell’impugnazione, ma ha introdotto una nuova regola processuale sulla istruttoria in appello». Nella necessità, dunque, di individuare l’actus per definire il corretto parametro intertemporale, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che la regola posta dalla disposizione citata riguarda una regola procedimentale del giudizio di appello, che viene ad operare nel caso di ribaltamento della precedente decisione assolutoria, escludendo che in tal caso sussista alcun atto processuale già perfezionatosi e idoneo a produrre i propri effetti prima dell’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017.
2.2.4. I principi affermati dalla sentenza da ultima menzionata non possono non trovare applicazione anche in riferimento all’ulteriore fenomeno successorio che ha interessato l’art. 603 comma 3-bis cod. proc. pen., ossia quello dovuto alle già illustrate modifiche che la norma ha subìto ad opera del d.lgs. n. 150 del 2022, atteso che, anche in questo caso, la questione di diritto intertemporale non riguarda un singolo atto che abbia esaurito i propri effetti, quale quello di impugnazione, bensì un procedimento ricompreso nel giudizio di impugnazione, ancora non esaurito, rispetto al quale il principio ‘tempus regit actum’ deve essere riferito al momento in cui l’atto complesso del procedimento stesso viene ad essere compiuto. Ne consegue che, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, legittimamente il giudice dell’appello non ha proceduto alla rinnovazione dell’esame del curatore in accordo con il vigente testo del comma 3-bis dell’art.603. (cfr.Sez. 5, n. 17965 del 14/02/2024, Rv. 286490; conf. Sez. 3, n. 10691 del 10/01/2024, Rv. 286089).
2.3. Tanto osservato, va altresì evidenziato come, nel caso specifico, difetti totalmente la decisività della prova orale invocata, a fronte della portata limitata della riforma della sentenza di primo grado, che ha determinato un overturning
sfavorevole al ricorrente per il solo capo a3, e si è fondata sulla diversa valutazione di elementi probatori costituiti dalla relazione del curatore fallimentare e dai dati di bilancio.
2.4. Neppure ha pregio la deduzione con la quale la difesa ricorrente pone il tema della tenuta costituzionale della previsione di cui all’art. 603 co. 3-bis cod. proc. pen., tema già scrutinato nella giurisprudenza di questa Corte, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., come riformulato dall’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nella parte in cui, in caso di ribaltamento in appello della sentenza di proscioglimento, non prevede la rinnovazione obbligatoria delle prove dichiarative quando la sentenza di primo grado sia stata pronunciata all’esito di giudizio abbreviato nel quale non si sia proceduto ad integrazione probatoria (Sez. 5 n. 49667 del 10/11/2023, Rv. 28549002), facendo leva sull’ampia discrezionalità riservata al legislatore nella materia processuale ( Corte cost. n. 216 del 2016) , con il solo limite della manifesta irragionevolezza ( Corte cost. n. 236 del 2018), non riscontrabile nel caso in esame, se la ‘Commissione COGNOME‘ ha stigmatizzato «le aporie e i veri e propri cortocircuiti logici del meccanismo disciplinato dall’art. 603 comma 3-bis quando opera nei casi di giudizio abbreviato». D’altro canto, come ha ricordato il citato arresto, muovono nella medesima direzione sia la Corte costituzionale con la sentenza n. 124 del 2019, che ha ritenuto infondate le questioni sollevate contro la disposizione in esame nella versione antecedente alla novella del 2022, sia la Corte di Strasburgo, che ha escluso la violazione dell’art. 6 CEDU in caso di ribaltamento non accompagnato da rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di ribaltamento della sentenza assolutoria pronunciata nel giudizio abbreviato (Corte Edu 25/03/2021, COGNOME e COGNOME vs Italia, §§ 37 e ss.). 3. Non è fondato il terzo motivo. 3.1. Certamente l’imputazione compendiata nel capo a3) si fa apprezzare per la stringata formulazione del fatto, ciò che poteva esporla alle censure di indeterminatezza della contestazione. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.2. Nondimeno, il vizio denunciato dalla Difesa ricorrente, ovvero la violazione del principio di corrispondenza tra imputazione e sentenza, di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.., non è concretamente riscontrabile, giacchè il riferimento all’art. 223 n. 1 I. fall. consentiva di sussumere il fatto contestato al capo a3), ove si contesta la falsificazione del bilancio e, dunque, un’ipotesi rientrante nella previsione dell’art. 2621 cod.civ., nella fattispecie della bancarotta impropria da reato societario. E, infatti, la difesa si è articolata proprio sulla idoneità causale di tale falsificazione rispetto al dissesto,
attribuendola il ricorrente, così come il giudice di primo grado, all’omesso pagamento delle imposte.
3.2.1. Non può ravvisarsi, quindi, il contrasto tra il fatto descritto nella imputazione sub a3), e quello oggetto della sentenza, poiché la contestazione,
pur con i limiti evidenziati, consentiva di comprendere il senso dell’accusa e, quindi, di difendersi adeguatamente rispetto ad essa.
3.3. Quanto al profilo della indeterminatezza dell’imputazione, che può dar luogo alla nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a
giudizio, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, si tratta di nullità di natura relativa che, in quanto tale, non è rilevabile d’ufficio e deve
essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall’art. 491 cod.
proc. pen.
(Sez.
3
n.
19649
del
27/02/2019, Rv. 275749); inoltre, nel caso di giudizio definito, come nel caso di specie, con rito abbreviato, la opzione per tale
rito determina una cristallizzazione dell’imputazione da cui l’imputato ha scelto di difendersi, con la conseguente impossibilità per quest’ultimo di eccepirne
l’indeterminatezza, salvo che dimostri che la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione gli abbia impedito di esercitare la sua difesa.
( Sez. 5, n. 33870 del 07/04/2017, Rv. 270475 ), ciò che non è riscontrabile nel caso in esame.
3.4. Riguardo poi all’idoneità causale della falsificazione rispetto all’evento dissesto (cagionato o aggravato), la censura difensiva si risolve nella prospettazione di una diversa interpretazione degli elementi di prova, inammissibile, a fronte di quella logica e coerente formulata dal giudice di appello, conforme a consolidati principi di diritto che consentono di ravvisare nel fatto stesso della prosecuzione dell’attività di impresa, senza procedere ad interventi di rifinanziamento o di liquidazione, un aggravamento del dissesto, a causa dell’accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi (Sez. 5 , n. 1754 del 20/09/2021, dep. 17/01/2022, COGNOME, Rv. 282537 – 01), anche per effetto della sistematica omissione del pagamento dei tributi.
Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, 11
nsigliere
GLYPH e ore aprile 2025