Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 17736 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 3 Num. 17736 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/03/2025
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME COGNOME
– Presidente –
Sent. n. sez. 509/2025
NOME COGNOME
NOME COGNOME
UP – 21/03/2025
R.G.N. 39487/2024
NOME COGNOME
NOME COGNOME
– Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOMECOGNOME nato in Marocco il 01/01/1979
avverso la sentenza del 01/07/2024 della Corte d’appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 1 luglio 2024, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza il 29 settembre 2023, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di M’hammed Sahnoune per il reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, commesso il 29 dicembre 2014 e il 29 dicembre 2015, ha dichiarato non doversi procedere per prescrizione in ordine al reato di cui all’art. 5 d.lgs. cit.,
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Firmato Da: NOME Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1 Serial#: 61c66a81e7975e7a – Firmato Da: NOME COGNOME Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1 Serial#: 50822800135f6fd9
Firmato Da: NOME COGNOME Emesso Da: TRUSTPRO QUALIFIED CA 1 Serial#: 524a6d43ea6db797
commesso il 30 dicembre 2012, e ha rideterminato la pena, riducendola, in due anni e sei mesi di reclusione, con diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Secondo quanto ricostruito dai Giudici di merito, NOMECOGNOME, in qualità di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, avrebbe omesso di presentare le dichiarazioni annuali relative ai periodi di imposta: 2011, con evasione di IRES per 103.486,00 euro e IVA per 154.082,00 euro (reato dichiarato estinto per prescrizione in primo grado); 2013, con evasione di IVA per 138.194,00 euro; 2014, con evasione di IVA per 132.908,00 euro.
Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe M’hammed Sahnoune, con atto sottoscritto dall’Avv. NOME COGNOME articolando cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 192 e 530, commi 1 e 2, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla prova dell’elemento oggettivo del reato.
Si deduce l’illegittimità e l’illogicità della decisione della Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto comprovati, pur in assenza di adeguati riscontri, i seguenti elementi: a) la determinazione della base imponibile e dei tributi evasi; b) la qualifica di amministratore di fatto dell’imputato; c) l’appropriazione di somme di denaro relative ad assegni della RAGIONE_SOCIALE da parte di quest’ultimo.
Si osserva, in relazione al primo profilo, che, come conferma la testimonianza del teste COGNOME, l’accertamento relativo alla base imponibile e ai tributi evasi è stato compiuto sulla base di meri dati presuntivi, in particolare ipotizzandosi la percezione di redditi pari alle spese per il personale dichiarato nei modelli 770.
Si rappresenta, con riguardo al secondo profilo, che la sentenza impugnata ha valorizzato prove inattendibili per affermare la gestione di fatto della RAGIONE_SOCIALE da parte dell’imputato in epoca successiva alla cessione delle quote e al trasferimento della carica di amministratore a NOME COGNOME in data 1 marzo 2012. Si osserva che le dichiarazioni della teste NOME COGNOME, consulente del lavoro per la precisata cooperativa, secondo cui sarebbe stato l’attuale ricorrente ad occuparsi della gestione dei dipendenti anche dopo il subentro nella qualifica di amministratore di NOME COGNOME, sono vaghe, in parte reticenti, contraddittorie e inverosimili, oltre che smentite da vari elementi acquisiti al processo. Si segnala, in particolare, che le dichiarazioni appena indicate sono smentite: a) dalla deposizione di NOME COGNOME, commercialista della RAGIONE_SOCIALE, il quale ha affermato di aver avuto contatti solamente con NOME COGNOME in relazione alla RAGIONE_SOCIALE Multilavoro, comprovando tali
asserzioni con elementi documentali; b) dalle deposizioni di NOME e NOME COGNOME, e da documentazione pertinente, secondo i quali l’imputato, a seguito del trasferimento della gestione della società a NOME COGNOME non aveva più rivestito alcun ruolo all’interno della RAGIONE_SOCIALE, essendo impegnato nelle gestioni della RAGIONE_SOCIALE assieme al padre e di una tabaccheria assieme alla moglie; c) da documentazione attestante l’esistenza di rapporti tra NOME COGNOME e la sorella NOME COGNOME nel periodo in cui il primo era detenuto, confermativa della prospettazione secondo cui NOME COGNOME ha comunque gestito la RAGIONE_SOCIALE pur quando ristretto in carcere (si richiama, segnatamente, la sentenza del Tribunale di Varese del 28 giugno 2018 in atti, in cui si dà atto delle comunicazioni dell’uomo con l’esterno grazie ad un telefono consegnatogli dalla sorella durante i colloqui).
Si rileva, in terzo luogo, che non risulta comprovata la circostanza per cui l’attuale ricorrente avrebbe incassato assegni della RAGIONE_SOCIALE in epoca successiva alla dimissione della carica amministrativa in favore di NOME COGNOME. Si evidenzia, in particolare, che: a) il conto corrente intestato alla RAGIONE_SOCIALE e gestito dall’attuale ricorrente è stato chiuso in data 13 maggio 2013, e non in data 13 maggio 2014, come assumono i militari della Guardia di Finanza; b) nessun pagamento relativo alla RAGIONE_SOCIALE è confluito sul conto corrente dell’imputato; c) l’assenza di delega ad operare sul conto corrente della RAGIONE_SOCIALE in capo a NOME COGNOME non è comprovata a livello documentale o testimoniale, e comunque non avrebbe impedito allo stesso di compiere operazioni, in quanto chi riveste la formale qualifica di legale rappresentante di una persona giuridica è legittimato a effettuare versamenti e prelevamenti sul conto corrente dell’ente medesimo.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 192 e 530, commi 1 e 2, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla prova dell’elemento soggettivo del reato.
Si deduce che la Corte d’appello non ha fornito alcuna prova in merito alla sussistenza del dolo specifico di evasione, il quale deve avere ad oggetto anche l’entità dell’evasione, in quanto il superamento della soglia di punibilità è elemento costitutivo (anche) del reato di omessa dichiarazione.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia mancata assunzione di prova decisiva, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. d ), cod. proc. pen., avuto riguardo al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con riguardo all’audizione dei testi COGNOME COGNOME COGNOME e COGNOME.
Si deduce che la Corte d’appello, ritenendo erroneamente la completezza del quadro probatorio, ha illegittimamente omesso di accogliere la richiesta di
rinnovazione istruttoria al fine di garantire l’audizione dei seguenti testi: a) ispettore COGNOME a cui ha fatto riferimento la teste COGNOME al fine di verificare il contenuto della documentazione della RAGIONE_SOCIALE consegnata dalla predetta alla Questura di Varese, nonché la relativa data di consegna e i professionisti che avrebbero collaborato alla sua stesura, al fine di dimostrare l’inattendibilità e la non veridicità della testimonianza della COGNOME; b) NOME COGNOME, NOME COGNOME COGNOME, NOME COGNOME, nei cui confronti sono state emesse fatture da parte della RAGIONE_SOCIALE e dalla RAGIONE_SOCIALE, nel periodo dal 2012 al 2014, al fine di individuare la persona che, per conto della RAGIONE_SOCIALE, si interfacciava con le ditte di tali soggetti; c) NOME COGNOME a fronte della contestazione da parte della teste COGNOME di una delle firme apposte sulle due lettere depositate all’udienza del 24 maggio 2023, al fine di verificare l’inattendibilità della testimonianza di quest’ultima.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 62bis e 133 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
Si deduce che la Corte d’appello ha illegittimamente negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, contraddicendosi rispetto all’affermazione di mancata collaborazione fornita dall’imputato nel corso del procedimento e non potendo dare rilievo ai comportamenti tenuti nell’esercizio del diritto di difesa dell’imputato. Si aggiunge, altresì, che il trattamento sanzionatorio, nonostante l’intervenuta rideterminazione della pena, risulta comunque sproporzionato.
2.5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 192 e 530, commi 1 e 2, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b ) ed e ), cod. proc. pen., avuto riguardo alla mancata declaratoria di assoluzione relativamente al fatto contestato come commesso fino al 31 dicembre 2012.
Si deduce che i giudici d’appello, in relazione ai fatti relativi all’omessa dichiarazione di IVA e IRES per l’anno di imposta 2011, hanno erroneamente confermato la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, per l’assenza di prove circa la sussistenza del fatto di reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.
Manifestamente infondate, se non diverse da quelle consentite in sede di legittimità, sono le censure esposte nel primo motivo, le quali contestano le conclusioni della sentenza impugnata sia in ordine alla individuazione della base imponibile e dell’imposta evasa riferibili alla società RAGIONE_SOCIALE, sia in ordine alla attribuzione all’attuale ricorrente della qualità e posizione di gestore di fatto, nel periodo di interesse, della precisata società.
2.1. Le doglianze relative alla individuazione della base imponibile e dell’imposta evasa deducono che queste sono state determinate sulla base di mere presunzioni, in particolare perché si ipotizza la percezione, da parte della società RAGIONE_SOCIALE, di entrate pari alle spese dichiarate per il personale con il mod. 770.
2.1.1. Ai fini dell’esame di tali critiche, è utile precisare, per chiarezza, che al giudice penale non è precluso fondare le sue conclusioni relative alla consistenza della base imponibile e alla entità dell’imposta evasa su valutazioni logiche, purché queste, ovviamente, facciano seguito ad un’analisi di tutto il materiale istruttorio rilevante, e individuino la loro base su puntuali elementi di fatto, nonché su accettabili e congrue massime di esperienza.
Una conferma della comune applicazione di questo principio, nella giurisprudenza di legittimità, del resto, si trae dalla costante affermazione secondo cui, in tema di reati tributari, per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 36207 del 17/04/2019, COGNOME, Rv. 277581 – 01, e Sez. 3, n. 24225 del 14/03/2023, COGNOME, Rv. 284693 – 01).
2.1.2. Nella specie, la sentenza impugnata, conformemente a quella di primo grado, ritiene che la società RAGIONE_SOCIALE abbia omesso di presentare le dichiarazioni annuali per l’IVA sia per l’anno 2013, a fronte dell’obbligo di versare a tale titolo la somma di 138.194,00 euro, sia per l’anno 2014, a fronte dell’obbligo di versare a tale titolo la somma di 132.908,00 euro.
La Corte d’appello indica in modo preciso perché l’IVA dovuta sia da ritenere pari a 138.194,00 euro per l’anno 2013, e a 132.908,00 euro per l’anno 2014. Rappresenta, infatti, con riguardo all’anno 2013, che la società RAGIONE_SOCIALE: a) aveva presentato il Mod. 770, inserito nel c.d. cassetto fiscale, nel quale erano dichiarati costi per il personale pari a 488.115,00 euro; b) aveva registrato sui propri conti correnti entrate per 56.490,79 euro e uscite per 60.215,35 euro; c) aveva emesso 23 fatture, risultanti dal c.d. ‘spesometro
integrato’, indirizzate a clienti tra loro diversi. Evidenzia, poi, con riguardo all’anno 2014, che la società RAGIONE_SOCIALE: a) aveva presentato il Mod. 770, inserito nel c.d. cassetto fiscale, nel quale erano dichiarati costi per il personale pari a 542.386,20 euro; b) aveva registrato sui propri conti correnti entrate per 9.302,00 euro e uscite per 11.412,70 euro; c) aveva emesso 26 fatture, risultanti dal c.d. ‘spesometro integrato’, indirizzate a clienti tra loro diversi.
La Corte d’appello, inoltre, afferma, sulla base delle dichiarazioni dei testi appartenenti alla Guardia di Finanza, né sul punto sono proposti rilievi, che la società RAGIONE_SOCIALE aveva omesso sia di presentare le dichiarazioni IVA per gli anni 2013 e 2014, sia di effettuare qualunque versamento a tale titolo. Aggiunge, anzi, che la precisata società aveva anche omesso di versare i contributi previdenziali, come emerge dal verbale unico di accertamento dell’INPS di Varese il 19 novembre 2015 per gli anni dal 2006 al 2015.
I Giudici di merito concludono quindi che: a) i ricavi della società RAGIONE_SOCIALE sono da calcolare sulla base dei costi relativi al personale, indicati nei Mod. 770, e non detraibili dagli imponibili, pari a 488.115,00 euro per il 2013 e a 542.386,20 euro per il 2014, dei prelevamenti in denaro, pari a 2.396,67 euro per il 2013, delle fatture attive, recanti imponibili complessivamente pari a 54.487,00 euro per il 2013 e a 38.562,00 euro per il 2014; b) l’IVA dovuta, applicando ai ricavi appena indicati l’aliquota pari al 21% per il 2013 e al 22% per il 2014, corrisponde a 138.194,00 euro per il 2013 e a 132.908,00 euro per il 2014.
2.1.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla individuazione della base imponibile e dell’imposta evasa riferibili alla società RAGIONE_SOCIALE sono immuni da vizi logici o giuridici.
Invero, l’accertamento dei costi, che nella prospettiva dei Giudici di merito costituisce il presupposto della quantificazione dei ricavi, non è contestato in questa sede; e del resto si fonda su elementi puntuali, quale, in particolare, i Mod. 770 inseriti nel ‘cassetto fiscale’ della precisata ditta.
L’accertamento dei ricavi sulla base dei costi così determinati, poi, si fonda su una valutazione logica pienamente accettabile, e cioè che ai costi sostenuti per il personale corrispondono entrate di importo quanto meno pari; questa conclusione, anzi, è ancor meno criticabile se si considera che l’impresa ha protratto in via continuativa la sua attività dal 2006 al 2015.
Non va trascurato, inoltre, che la sentenza dà atto dell’esistenza di ricavi accertati sulla base di prove dirette, costituite dalle fatture emesse dalla società RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei clienti, rintracciate sulla base del c.d. ‘spesometro integrato’, e relative ad importi non minimi.
L’accertamento dell’IVA dovuta, infine, risulta da una mera operazione matematica, effettuata applicando ai ricavi, determinati nei termini appena indicati, le aliquote all’epoca vigenti.
2.2. Le doglianze relative alla attribuzione all’attuale ricorrente della qualità e posizione di gestore di fatto, nel periodo di interesse, della società cooperativa RAGIONE_SOCIALE, deducono l’inattendibilità delle prove a carico, la mancata valutazione delle prove a discarico, e l’erroneità dell’affermazione secondo cui l’imputato avrebbe incassato assegni dell’impresa in epoca successiva alla dismissione dalla carica di amministratore.
2.2.1. In proposito, occorre rilevare che eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito.
Questo perché il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ex art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, COGNOME, Rv. 284556 – 01).
E, in questa prospettiva, si è ripetutamente affermato non solo che non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623 – 01). Ma pure che, in tema di valutazione della prova testimoniale, l’attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accidit , ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (così, ex plurimis , Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609 – 01, e Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, COGNOME, Rv. 262575 – 01).
2.2.2. Nella specie, la sentenza impugnata ritiene che l’attuale ricorrente sia stato l’effettivo gestore della società RAGIONE_SOCIALE non solo dal 10 febbraio 2006 al 29 febbraio 2012, quando ne era l’amministratore, ma anche dall’1 marzo 2012 al 15 dicembre 2017, allorché la carica fu ricoperta da NOME
COGNOME in ragione sia dei poteri esercitati in ordine alla gestione del personale, sia della conservazione della delega ad operare sul conto corrente dell’impresa.
A fondamento di tali rilievi, la Corte d’appello richiama innanzitutto la testimonianza di NOME COGNOME, consulente del lavoro della società RAGIONE_SOCIALE nel periodo per il quale è stata emessa la sentenza di condanna. Rappresenta che la consulente ha dichiarato: a) di aver elaborato i cedolini-paga per la società RAGIONE_SOCIALE fino all’anno 2015, e di aver agito sempre per conto e su indicazione dell’attuale ricorrente, il quale anzi le aveva chiesto di potersi stabilire presso il suo studio per meglio coordinare il personale della cooperativa; b) di aver avuto contatti con NOME COGNOME, formalmente amministratore della società RAGIONE_SOCIALE dall’1 marzo 2012, una sola volta, in occasione dell’avvicendamento nella carica di amministratore della società, e, però, di aver mantenuto in seguito rapporti professionali esclusivamente con l’attuale ricorrente; c) di avere avuto contatti con la sorella di NOME COGNOME una sola volta, quando questa, munita di delega, si era recata da lei per ritirare documentazione; d) di aver prestato attività professionale anche in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE, pure questa gestita dall’attuale ricorrente, ma di poter distinguere i rapporti intrattenuti dall’attuale ricorrente per conto della società RAGIONE_SOCIALE e i rapporti in cui il medesimo agiva per conto della società RAGIONE_SOCIALE. Aggiunge che la consulente ha premesso di aver consultato la documentazione informatica in suo possesso prima di rendere le sue dichiarazioni in udienza (ha dichiarato: «allora io prima di venire qua oggi sono andato a vedermi un pò di cose che abbiamo a terminale e sicuramente abbiamo le paghe del 2014 2015, le abbiamo fatte noi»).
La Corte d’appello, poi, osserva che le dichiarazioni della teste NOME COGNOME sono attendibili oltre che per ragioni intrinseche, anche perché confermate dalle dichiarazioni del teste NOME COGNOME, commercialista, il quale ha riferito di essere stato incaricato da NOME COGNOME di effettuare gli adempimenti fiscali per conto della società RAGIONE_SOCIALE, di non aver potuto adempiere alla richiesta per l’insufficienza della documentazione, e di aver restituito alla donna gli atti societari da questa fornitigli, come da ricevuta di consegna in atti.
Rappresenta, inoltre, che le dichiarazioni di NOME COGNOME non sono inattendibili perché in contrasto con quelle rese dal fratello dell’imputato NOME COGNOME Precisa, in proposito, che questo teste ha detto di aver ricevuto le retribuzioni dovutegli dalla società RAGIONE_SOCIALE dalla sorella di COGNOME, ma ha reso affermazioni inattendibili, in quanto non ha saputo indicare né il luogo in cui si trovava l’abitazione della sorella di COGNOME, e dove avrebbe ricevuto le retribuzioni, né la persona che aveva organizzato la sua attività lavorativa.
Evidenzia, quindi, che un’importantissima conferma alle dichiarazioni di NOME COGNOME è fornita dalla documentazione bancaria. Segnala, in primo luogo, che l’assegno emesso dal cliente NOME COGNOME in data 13 febbraio 2014, per l’importo di euro 4.959,30, corrispondente alla somma recata dalla fattura n. 41 del 31 dicembre 2013, rilasciata dalla società RAGIONE_SOCIALE è stato incassato dall’attuale ricorrente, in quanto sul titolo è apposto il timbro per girata della società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, società gestita in quel momento dall’attuale ricorrente, come dal medesimo ammesso; aggiunge, inoltre che la parola Five sul timbro è stata interlineata. Rappresenta, poi, che le sottoscrizioni apposte sul retro dell’assegno appena indicato, così come quelle apposte sul retro di tutti gli altri titoli intestati alla RAGIONE_SOCIALE e depositati dal P.M. in udienza, sono identiche a quella apposta dall’imputato ad un documento prodotto dalla difesa. Evidenzia, ancora, che, con riguardo al conto corrente della società RAGIONE_SOCIALE, sebbene questo rapporto sia stato aperto fino al 2013, non è mai stata rilasciata alcuna delega ad operare a NOME COGNOME né è stata mai effettuata alcuna comunicazione circa il subingresso di quest’ultimo nella carica di amministratore della precisata società.
Rileva, ancora, che: a) lo svolgimento dell’attività gestoria da parte di NOME COGNOME nominato amministratore della società RAGIONE_SOCIALE con atto del giorno 1 marzo 2012, iscritto nel registro delle imprese il 12 aprile 2012, era reso quanto meno difficoltoso dallo stato di detenzione del medesimo, dapprima in carcere fino al maggio 2013 e poi agli arresti domiciliari; b) l’attività gestoria svolta dall’attuale ricorrente con riguardo alla società RAGIONE_SOCIALE e alla tabaccheria intestata alla moglie non era incompatibile con quella relativa alla società RAGIONE_SOCIALE; c) la società RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE condividevano la medesima attività ed i medesimi clienti.
2.2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla gestione di fatto da parte dell’attuale ricorrente, nel periodo di interesse, della società RAGIONE_SOCIALE sono immuni da vizi logici o giuridici.
Invero, gli elementi istruttori acquisiti sono stati valutati sulla base di criteri non censurabili, costituenti piana applicazione dei principi indicati supra al § 2.2.1, ed è immune da vizi desumere dagli stessi, come hanno osservato entrambi i Giudici di merito, che l’attuale ricorrente abbia gestito in modo penetrante e continuativo sia il personale, sia le risorse economiche e finanziarie della società RAGIONE_SOCIALE
Di conseguenza, è correttamente motivata la conclusione secondo cui l’attuale ricorrente svolgeva le funzioni di amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE ed era perciò direttamente responsabile sia per la presentazione delle dichiarazioni fiscali, sia per i versamenti delle somme dovute all’Erario.
Manifestamente infondate sono le censure formulate nel secondo motivo, le quali contestano le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo specifico di evasione, deducendo l’assenza di qualunque elemento in proposito, anche in ordine alla consapevolezza del superamento della soglia di punibilità.
È utile premettere che ai fini della prova del dolo specifico di evasione richiesto per la configurabilità del delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000: a) l’ammontare dell’imposta dovuta può essere oggetto di rappresentazione anche solo nella forma del dolo eventuale (cfr. per tutte, Sez. 3, n. 38802 del 25/09/2024, Nuzzolese, Rv. 286950 – 01, e Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272578 – 01); b) la volontà di non versare l’imposta dovuta, pur non essendo sufficiente la mera consapevolezza dell’entità della somma da pagare, può essere desunta da ulteriori elementi, quali il mancato pagamento postumo del tributo in tempi ragionevoli o la reiterazione dell’omissione per più anni (così, ad esempio, Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, Marra, Rv. 285221 – 01).
Nella specie, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza del dolo specifico di evasione valorizzando il comportamento complessivo dell’agente, il quale ha ceduto la carica gestoria della società RAGIONE_SOCIALE ad un prestanome e ha incassato almeno una parte degli assegni emessi in favore della ditta. Non va trascurato, inoltre, che la società RAGIONE_SOCIALE non ha mai presentato le dichiarazioni fiscali, sebbene l’attività si sia svolta per molti anni, e non ha mai versato le imposte, sebbene anch’esse relative a più anni.
Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza del dolo specifico sono immuni da vizi. Da un lato, infatti, non è certo irragionevole inferire la consapevolezza dell’attuale ricorrente, quanto meno a titolo di dolo eventuale, di una evasione dell’IVA di entità tale da implicare il superamento della soglia di punibilità penale per i periodo di imposta 2013 e 2014, in considerazione dell’ammontare complessivo degli affari facenti capo alla società cooperativa RAGIONE_SOCIALE, da lui gestita (si pensi, in particolare, alle dichiarazioni contenute nei Mod. 770 in ordine ai costi per il personale). Dall’altro, è sicuramente accettabile ritenere che l’omessa presentazione delle dichiarazioni sia avvenuta al fine di evadere l’IVA, attesi: a) la reiterazione nel tempo della condotta di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali dovute; b) la reiterazione nel tempo della condotta di mancato pagamento delle somme dovute; c) il contegno complessivo dell’attuale ricorrente, caratterizzato dalla scelta di avvalersi di un prestanome, per occultare la sua attività di piena, continuativa ed illegale gestione della società cooperativa RAGIONE_SOCIALE
Manifestamente infondate sono anche le censure enunciate nel terzo motivo, le quali contestano le conclusioni della sentenza impugnata in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria con riguardo all’audizione dei testi COGNOME, COGNOME COGNOME, NOME COGNOME e COGNOME deducendo che le stesse costituiscono prove decisive.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606, comma 1, lett. d) , cod. proc. pen., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (così, tra le tantissime, Sez. 3, n. 9878 del 21/01/2020, R., Rv. 278670 – 01, nonché Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323 – 01). Inoltre, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, la prova decisiva, la cui mancata assunzione può essere dedotta in sede di legittimità a norma dell’art. 606, comma 1, lett. d) , cod. proc. pen., deve avere ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento e non può consistere in un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato è destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti al fine di prospettare l’ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente (cfr., ad esempio, Sez. 5, n. 37195 del 11/07/2019, D., Rv. 277035 – 01, e Sez. 5, n. 9069 del 07/11/2013, dep. 2014, Pavento, Rv. 259534 – 01).
Nella specie, le censure di omessa assunzione di prova decisiva sono manifestamente infondate, perché le richieste avevano ad oggetto tutte un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato sarebbe stato destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti al fine di prospettare l’ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente.
Invero, come risulta dalla prospettazione della difesa: a) il teste COGNOME avrebbe dovuto deporre in ordine al contenuto della documentazione della RAGIONE_SOCIALE consegnata dalla teste NOME COGNOME alla Questura di Varese, nonché alla data di consegna e ai professionisti che avrebbero collaborato alla sua stesura, al fine di dimostrare l’inattendibilità e la non veridicità della testimonianza della donna; b) i testi COGNOME, COGNOME e NOME COGNOME, titolari di ditte nei cui confronti la società RAGIONE_SOCIALE ha messo fatture, avrebbero dovuto indicare la persona con cui si erano relazionate quando hanno avuto rapporti con tale ditta; c) il teste COGNOME, tra l’altro già esaminato a dibattimento, avrebbe dovuto deporre sulla attribuibilità, alla teste NOME COGNOME di una firma apposta su di una lettera, al fine di valutarne l’attendibilità della deposizione.
Prive di specificità sono le censure proposte con il quarto motivo, le quali contestano il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la misura della pena, deducendo, in particolare, che non può essere censurato il mancato comportamento collaborativo dell’imputato.
Invero, per quanto concerne il diniego delle circostanze attenuante generiche, è utile evidenziare che la sentenza impugnata ha richiamato a fondamento delle sue determinazioni sul punto non solo l’esternazione, da parte dell’attuale ricorrente, di «dichiarazioni totalmente inveritiere» nel corso dell’esame e della verifica fiscale, ma, più in generale, l’assenza di elementi positivamente valutabili. E questo ulteriore rilievo è incensurabile in questa sede, sia perché non oggetto di specifica critica nel ricorso, sia perché del tutto in linea con l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità (cfr., per tutte, Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01, e Sez. 1, n. 39566 del 16/02//2017, COGNOME, Rv. 270986 – 01).
Per quanto attiene, poi, alla determinazione del trattamento sanzionatorio, occorre rilevare che: a) la pena base è stata fissata in due anni e due mesi di reclusione, ossia in misura ampiamente inferiore alla media edittale (per il reato commesso nel 2015, la cornice edittale prevedeva una pena compresa tra il minimo di un anno e sei mesi di reclusione e il massimo di quattro anni di reclusione); b) l’aumento per la continuazione è stato determinato in quattro mesi di reclusione; c) l’imputato era gravato di un precedente penale, sia pur modesto e datato.
Prive di specificità sono anche le censure rappresentate con il quinto motivo, le quali contestano la mancata declaratoria di assoluzione relativamente al fatto contestato come commesso fino al 31 dicembre 2012, deducendo l’assenza di prove circa la sussistenza del fatto di reato.
In effetti, come già rilevato in giurisprudenza, è inammissibile, per genericità dei motivi, il ricorso per cassazione avverso la sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, con cui sia dedotta la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione dell’imputato ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen. senza prospettare l’evidenza della causa di non punibilità specificamente invocata, in conformità alla previsione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (così Sez. 3, n. 18069 del 20/01/2022, COGNOME, Rv. 283131 – 01, ma anche Sez. 4, n. 8135 del 31/01/2019, COGNOME NOME COGNOME Rv. 275219 – 01).
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 21/03/2025.
Il Consigliere estensore Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME