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Amministratore di fatto: la Cassazione sulla prova

La Corte di Cassazione conferma la condanna per bancarotta fraudolenta dell’amministratore legale e dell’amministratore di fatto di una società. La sentenza chiarisce che per provare il ruolo di amministratore di fatto è sufficiente un coinvolgimento significativo e continuativo nella gestione, ribadendo che l’onere di giustificare la destinazione dei beni distratti spetta agli imputati.

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Pubblicato il 11 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di fatto e bancarotta: la Cassazione definisce i contorni della responsabilità

Una recente sentenza della Corte di Cassazione torna a occuparsi di un tema cruciale nel diritto penale societario: la figura dell’amministratore di fatto e la sua responsabilità nel reato di bancarotta fraudolenta. La decisione, confermando una condanna, offre importanti chiarimenti sui criteri per identificare chi gestisce un’impresa senza un incarico formale e sull’onere della prova relativo alla distrazione di beni sociali. Analizziamo insieme i dettagli di questo caso e i principi di diritto affermati dai giudici.

I fatti del processo

Il caso riguarda due imputati, l’amministratrice legale di una S.r.l. e suo marito, accusati di aver causato il fallimento della società attraverso la distrazione di fondi a titolo di ‘compenso amministratori’ e ‘liquidità’. La Corte d’Appello aveva confermato la sentenza di primo grado che li riteneva entrambi responsabili del reato di bancarotta patrimoniale, la prima come amministratrice di diritto, il secondo come amministratore di fatto.

Contro questa decisione, gli imputati hanno proposto ricorso in Cassazione, sollevando diverse censure. Sostanzialmente, lamentavano che i giudici di merito non avessero adeguatamente considerato le loro argomentazioni difensive, limitandosi a confermare la decisione precedente. Contestavano, inoltre, l’errata valutazione delle prove che, a loro dire, avrebbero dimostrato la lecita destinazione dei fondi prelevati, e criticavano il riconoscimento del ruolo di amministratore di fatto al marito, ritenendolo basato su elementi insufficienti.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi di doglianza. La sentenza è stata quindi confermata in via definitiva. I giudici hanno colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in materia di reati fallimentari e di prova nel processo penale.

Le motivazioni

I criteri per identificare l’amministratore di fatto

Uno dei punti centrali della sentenza riguarda la definizione della figura dell’amministratore di fatto. La Cassazione ha chiarito che, per essere considerati tali, non è necessario esercitare tutti i poteri tipici dell’organo di gestione. È invece sufficiente un’attività gestoria, anche in specifici settori, svolta in modo non episodico o occasionale, che dimostri un inserimento organico e continuativo del soggetto nell’assetto societario.

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito, che avevano valorizzato non solo l’ingerenza del marito nelle vicende della società, ma anche la sua ‘cointeressenza’ in un’altra azienda di famiglia, precedentemente decotta, che aveva ceduto il proprio ramo d’azienda proprio alla società poi fallita. Questi elementi, nel loro complesso, delineavano un quadro chiaro del suo ruolo gestorio effettivo, al di là della carica formale ricoperta dalla moglie.

L’onere della prova e la motivazione ‘per relationem’

Un altro aspetto rilevante è quello relativo all’onere della prova. Gli imputati sostenevano di non aver potuto dimostrare pienamente l’uso lecito dei fondi a causa di una presunta incompletezza documentale non a loro imputabile. La Cassazione ha respinto questa tesi, definendola generica ed esplorativa. Ha ribadito un principio consolidato in tema di bancarotta: in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali, spetta all’amministratore fornire la prova della loro effettiva destinazione. Si tratta di una sorta di ‘apparente inversione’ dell’onere probatorio, giustificata dalla responsabilità dell’amministratore nella conservazione del patrimonio sociale a garanzia dei creditori.

Infine, la Corte ha validato l’operato della Corte d’Appello anche sotto il profilo della motivazione. I giudici di legittimità hanno spiegato che una motivazione per relationem (cioè che rinvia a quella della sentenza precedente) è legittima quando il giudice d’appello dimostra di aver preso cognizione dei motivi di gravame e di averli ritenuti infondati sulla base delle argomentazioni già esposte in primo grado, purché queste siano congrue e coerenti.

Le conclusioni

La sentenza in esame rafforza due principi cardine del diritto penale d’impresa. In primo luogo, conferma che la responsabilità penale per la gestione societaria non si ferma alle cariche formali, ma si estende a chiunque eserciti un potere gestorio in modo significativo e continuativo, qualificandosi come amministratore di fatto. In secondo luogo, ribadisce la centralità del dovere degli amministratori di rendicontare la gestione del patrimonio sociale: di fronte a ‘buchi’ di cassa, non basta addurre giustificazioni generiche, ma è necessario fornire prove concrete della destinazione dei fondi, pena la condanna per distrazione.

Quando una persona può essere considerata ‘amministratore di fatto’ di una società?
Secondo la Cassazione, non è necessario che eserciti tutti i poteri di gestione. È sufficiente che svolga un’attività gestoria o cogestoria in modo non episodico ma continuativo, anche solo in specifici settori, dimostrando così un suo organico inserimento nell’assetto della società.

In un processo per bancarotta, chi deve provare dove sono finiti i beni della società?
La sentenza ribadisce che, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, l’onere di fornire la prova della loro reale destinazione grava sull’amministratore (sia esso di diritto o di fatto). L’imputato deve quindi giustificare attivamente che le somme non sono state distratte ma impiegate per fini sociali.

Un giudice d’appello può confermare una sentenza di primo grado semplicemente richiamandone le motivazioni?
Sì, può farlo attraverso una motivazione definita ‘per relationem’, ma a precise condizioni. Il giudice d’appello deve dimostrare di aver preso effettiva cognizione delle censure proposte con l’impugnazione e di averle meditate, ritenendo che le ragioni della prima sentenza siano coerenti e sufficienti a confutarle. Non è ammesso un rinvio generico e acritico.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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