Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 6954 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 6954 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOME Salvatore nato a Palermo 1’8 novembre 1946; COGNOME NOME nato a Palermo il 23 settembre 1983;
avverso la sentenza del 16 aprile 2024 della Corte d’appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la memoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
RITENUTO IN FATTO
Oggetto dell’impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d’appello di Palermo, confermando la condanna pronunciata in primo grado, ha ritenuto NOME COGNOME e NOME COGNOME responsabili, nella loro qualità, rispettivamente, di amministratore di diritto e amministratore di fatto dell RAGIONE_SOCIALE (dichiarata fallita il 10 settembre 2015), dei reat bancarotta fraudolenta patrimoniale (per aver distratto tutte le disponibilità liquid nonché parte degli autoveicoli, dei macchinari e dei beni strumentali dell’azienda,
alienandoli alla Euro intonaci di RAGIONE_SOCIALE senza alcun corrispettivo) e di bancarotta fraudolenta specifica (per aver sottratto o occultato i libri e le altre scritture contabili al fine di recare pregiudizio ai creditori).
L’unico ricorso, proposto nell’interesse di entrambi gli imputati, si compone di tre motivi d’impugnazione.
2.1. Il primo, formulato sotto i profili di inosservanza di norma processuale e violazione di legge (in relazione agli artt. 178 e 446 cod. proc. pen.) e connesso vizio di motivazione, attiene alla valutazione della richiesta di applicazione dell pena formulata dagli imputati in primo grado. La difesa premette che, disposto il giudizio immediato, gli imputati avanzavano, tempestivamente, richiesta di applicazione della pena, alla quale il Pubblico Ministero inizialmente prestava il proprio consenso, salvo poi revocarlo in un secondo momento. La richiesta veniva radicalmente preternnessa e veniva reiterata alla chiusura dell’istruzione dibattimentale e, successivamente, con l’appello, previa impugnazione della relativa ordinanza di rigetto pronunciata dal giudice di primo grado.
La Corte d’appello rigettava la relativa censura ritenendo che la restituzione degli atti al giudice dell’udienza preliminare avrebbe comportato un’indebita regressione del procedimento e che sarebbe stato onere della parte rinnovare tale richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Tanto, tuttavia, sostiene la difesa, significa non considerare come alcuna udienza preliminare è stata celebrata e la competenza a decidere sull’istanza doveva essere riconosciuta in capo al giudice per le indagini preliminari, il quale avrebbe dovuto valutare l’istanza, nel contraddittorio delle parti, fissando all’uopo apposita udienza all’esito della quale gli imputati avrebbero potuto valutare (in caso di riget dell’istanza) di accedere ad altro rito alternativo. Né tanto potrebbe rappresentare un’indebita regressione del procedimento, essendo pacifica (per come riconosciuto anche dalla Corte d’appello) l’anomalia processuale che si è verificata (l’omessa valutazione, da parte del Giudice per le indagini preliminari, della richiesta d patteggiamento avanzata dall’imputato nell’arco temporale trascorso tra la richiesta di giudizio immediato e l’emissione del relativo decreto); sicché la paventata regressione non solo non potrebbe ritenersi frutto di abnormità, ma avrebbe permesso il ripristino della corretta sequenza procedimentale. Né rileva, in ultimo, sostiene la difesa, la mancata riproposizione dell’istanza nel corso delle formalità preliminari al dibattimento: l’istanza, ritualmente proposta al Giudice per le indagini preliminari, conserva validità ed efficacia anche dopo l’emissione del giudizio immediato; tanto più che lo stesso giudice del dibattimento avrebbe potuto, ai sensi dell’art. 448 cod. proc. pen., provvedere autonomamente sulla richiesta (per come detto, ancora valida ed efficace).
2.2. Il secondo attiene all’imputazione per bancarotta fraudolenta patrimoniale e deduce, sotto i profili della violazione di legge (in relazione agli ar 216, 217 e 223 I. fall.) e del connesso vizio di motivazione, l’insussistenza di una condotta distrattiva: i veicoli sarebbero stati dismessi (e la circostanza pe cui non vi sarebbe traccia documentale non può, essa sola, fondare l’accertamento della responsabilità) e, comunque, sarebbero privi di valore commerciale; il corrispettivo dei beni strumentali (peraltro non di proprietà della fallita, ma del società proprietaria dell’immobile) sarebbe stato integralmente corrisposto, anche se, in parte, dopo la dichiarazione di fallimento.
Il terzo, formulato sotto il profilo del vizio di motivazione, attiene al rite svolgimento in fatto, da parte del COGNOME, della funzioni gestorie e deduce che i giudici di merito non avrebbero indicato le concrete modalità attraverso le quali si sarebbe estrinsecata l’attività di gestione in ipotesi esercitata dal ricorrent essendosi limitati ad evidenziare: a) la sovraordinazione gerarchica del COGNOME, così come dichiarata dai dipendenti, dato, in sé, non sufficiente; b) il ruolo assunto nella cessione dei macchinari, dato, invece, irrilevante, alla luce della destinazione del ricavato, interamente utilizzato per ripianare le passività. D’altronde, sostiene la difesa, non è sufficiente ritenere provato lo svolgimento delle funzioni gestorie, dovendosi, altresì, provare anche la circostanza che in tale ruolo l’imputato, in accordo con l’amministratore di diritto, abbia fornito un contributo attivo nei fat di distrazione oggetto d’imputazione. Tanto più che non vi è traccia, neanche nel capo d’imputazione, di una ipotizzabile sproporzione del prezzo riscosso rispetto all’effettivo valore dei macchinari ceduti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Come detto in precedenza, a seguito di richiesta di giudizio immediato, il difensore degli imputati aveva avanzato istanza ex art. 444 cod. proc. pen., indicando la pena finale, condizionalmente sospesa, di anni 2 di reclusione. Il Pubblico Ministero prestava il proprio consenso, ma, dieci giorni dopo, in ragione di una sopravvenuta informativa di polizia giudiziaria, lo revocava per il COGNOME e lo rettificava per il COGNOME.
Il Giudice per le indagini preliminari ometteva di provvedere esplicitamente sull’istanza e la medesima richiesta veniva reiterata alla chiusura dell’istruzione dibattimentale e, successivamente, con l’appello, previa impugnazione della relativa ordinanza di rigetto pronunciata dal giudice di primo grado.
Ebbene, va osservato:
a) che la competenza a conoscere e valutare la richiesta di applicazione della pena o di rito abbreviato avanzata nelle more tra la richiesta di giudizio immediato
e l’emissione del relativo decreto è del giudice per le indagini preliminari (Sez. U, n. 3088 del 17/01/2006, Bergamasco, Rv. 2325600);
b) che l’accordo tra l’imputato e il pubblico ministero, in ordine all determinazione della pena da applicare costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, una volta pervenuto a conoscenza dell’altra parte e quando questa abbia dato il proprio consenso, diviene irrevocabile e non è suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell’altra, in quanto il conse reciprocamente manifestato con le dichiarazioni congiunte di volontà determina effetti non reversibili nel procedimento e pertanto né all’imputato né al pubblico ministero è consentito rimetterlo in discussione (Sez. 1, n. 48900 del 15/10/2015, COGNOME, Rv. 265429) e l’errore del giudice, sotto tale profilo, ben può essere fatto valere impugnando la sentenza di primo grado (Sez. 4, n. 29965 del 19/06/2007, COGNOME, Rv. 236998);
c) il giudice ha l’obbligo di spiegare le ragioni del suo dissenso rispetto all’accordo tra le parti quando lo rifiuti ed ordini la citazione per il dibattim (Sez. 1, n. 8058 del 24/05/1995, COGNOME, Rv. 202149, massima dettata con riferimento alla richiesta di applicazione della pena concordata in appello, ma logicamente applicabile, per identità di ratio, anche all’ipotesi della richiesta patteggiamento).
Ciononostante, l’ordinamento appresta uno strumento, l’art. 448 cod. proc pen., diretto a tutelare gli interessi della parte in caso di dissenso da parte d pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagin preliminari (tale dovendosi intendere il silenzio espresso). E il richiamato art. 448 impone all’imputato, in questa ipotesi, l’onere di rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, e il giudice, se la ritien fondata, pronuncia immediatamente sentenza. E in questa sede, qualora la richiesta di patteggiamento, formulata in via ordinaria, venga rigettata, non è preclusa all’imputato la possibilità che si proceda con giudizio abbreviato, sempre che la relativa istanza venga formulata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (Sez. 4, n. 45838 del 12/09/2017, COGNOME, Rv. 270933).
Tale onere è stato pacificamente non adempiuto e tanto giustifica il rigetto del relativo motivo di censura.
2. Il secondo motivo è, invece, indeducibile.
2.1. Per come si è detto, il ricorrente deduce: a) che i veicoli sarebbero stati dismessi; b) che, comunque, erano privi di valore commerciale; c) che il corrispettivo dei beni strumentali (peraltro non di proprietà della fallita) sarebb stato integralmente corrisposto, anche se, in parte, dopo la dichiarazione di fallimento.
2.2. Sotto il primo profilo, va premesso che la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni che in epoca anteriore o prossima al fallimento erano nella disponibilità della società dichiarata fallita, può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti al soddisfacimento delle esigenze della società o al perseguimento dei relativi fini (Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Rv. 267710; Sez. 5, n. 22894 del 17/04/2013, Rv. 255385). La sentenza di fallimento, infatti, non determina – in ordine ai beni dell’impresa – lo spossessamento, in senso civilistico, dell’imprenditore, ma solo il trasferimento della “gestione” al curatore, che diviene detentore e amministratore di quei beni nell’interesse della massa (ex multis, Cass. civ., n. 17605 del 9/2015). Sicché l’imprenditore continua a conservare, in ordine a quei beni, obblighi di custodia e conservazione fino alla consegna al curatore, al momento della redazione dell’inventario (Sez. 5, n. 13528 del 08/02/2017, Rv. 269721). Cosicché, se è vero che il giudicante, nel ritenere la condotta distrattiva, non può semplicemente limitarsi alla rilevazione “notarile” dell’assenza dei predetti beni nel possesso del fallito (Sez. 5, n. 19896 del 07/03/2014, Rv. 259848), le informazioni che il fallito deve dare alla curatela e, conseguentemente, al giudice, al fine di consentire il rinvenimento dei beni che potrebbero essere stati potenzialmente distratti, devono essere specifiche e far sì che effettivamente avvenga il recupero di essi ovvero se ne conosca la sorte (Sez. 5 n. 17228 del 17/01/2020, Rv. 279204). Ebbene, la Corte territoriale ha dato atto, da un canto, della pacifica intestazione dei veicoli al Pubblico Registro Automobilistico e del loro valore commerciale (desumibile da tale iscrizione), dall’altro, dell’assenza di documentazione comprovante la demolizione o cessione a terzi. A fronte di ciò, in concreto, il ricorrente si è limitato ad evocare un’asser dismissione (quindi riconoscendo, dopo un’iniziale negazione, la pregressa disponibilità) senza, però, nulla allegare. E la genericità della deduzione non permette, a questa Corte, di esercitare il sindacato invocato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.3. La seconda censura è, invece, indeducibile in quanto afferente ad una circostanza (il valore in ipotesi esiguo dei beni) del tutto ininfluente ai fini perfezionamento del reato. Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di evidenziare come ben può integrare il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la dismissione di beni strumentali obsoleti, distaccati dal patrimonio sociale in assenza di utile o corrispettivo, trattandosi di beni la cui consistenza economica, sebbene minima, esigua o ridottissima, ben può essere idonea, comunque, a costituire una qualche garanzia per i creditori (Sez. 5 – n. 31680 del 03/06/2021, Rv. 281768). Tanto più che il corrispettivo della vendita, per quanto esiguo, non risulta comunque essere stato versato nelle casse della società.
2.4. Ad identiche conclusioni deve giungersi anche in relazione alla terza censura sollevata, afferente, per come si è detto, all’invocata “riparazione” della sottrazione in ipotesi connessa all’alienazione dei beni. In linea di principi secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’oggettività materiale della bancarotta distrattiva viene meno quando l’effetto distrattivo è annullato da un’attività di segno contrario, idonea a reintegrare l’originaria consistenza del patrimonio dell’impresa (Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011, COGNOME, Rv. 249721). Ciò che rileva, tuttavia, è che vi sia effettiva corrispondenza tra la condott distrattiva e quella di segno contrario e che questa avvenga prima della dichiarazione di fallimento, momento nel quale andrà apprezzata la permanenza offensiva dei fatti di bancarotta. Dato, quest’ultimo, che, anche nella prospettazione difensiva, non sussiste.
3. Ugualmente indeducibile è il terzo motivo di ricorso.
Appare opportuno premettere che, sotto il profilo idel – Fd processuale, la prova della ritenuta funzione gestoria, esercitata in fatto da parte di un soggetto non formalmente investito di tale carica, si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico di tale soggetto in qualunque settore gestionale dell’attività economica, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Rv. 256534; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, Rv. 269101). Accertamento che, se sostenuto da motivazione congrua e logica, è insindacabile in sede di legittimità, in quanto oggetto di un apprezzamento di fatto riservato ai giudici di merito (Sez. 5, n. 22413 del 14/04/2003, rv. 224948; Sez. 1, 12/05/2006, n. 18464, Rv. 234254).
Ciò considerato, i giudici di merito, con motivazione articolata, esauriente ed immune da vizi, hanno individuato una pluralità di indici, esplicitati dalle fon probatorie, di assoluto valore sintomatico non solo della qualifica di “amministratore di fatto” rivestita dal COGNOME (e del conseguente ruolo gestorio assunto), ma anche della fattiva partecipazione del COGNOME. In particolare: – le concordi dichiarazioni della maggior parte dei dipendenti, i quali lo hanno espressamente individuato come il loro “titolare”, ricordando che il medesimo impartiva direttive e pagava gli stipendi; – le dichiarazioni dei clienti della soci fallita che con lui si erano direttamente interfacciati; – il rinvenimento documentazione della società fallita nella sua abitazione; – il rinvenimento di macchinari già appartenenti alla società fallita presso la sede della “RAGIONE_SOCIALE, di cui proprio questi era socio accomandatario; la circostanza che il prezzo di vendita di detti macchinari, ceduti poco prima della data di cessazione di fatto dell’attività, non risultasse interamente versato; –
circostanza che detta ultima società, esercente attività sovrapponibile alla fallita fosse stata iscritta nel registro delle imprese poco dopo il fallimento della Trinacria – la circostanza che alcuni dei dipendenti fossero stati poi impiegati proprio presso la società di Finocchio.
Ebbene, a fronte di queste analitiche argomentazioni, le deduzioni volte a contestare la valutazione offerte dalla corte territoriale (peraltro mera riproduzione di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi), dietro la parvenza di una prospettata violazione di legge e di un asserito difetto motivazionale, invocano, di fatto, una nuova ed alternativa lettura delle medesime emergenze istruttorie, già esaminate dai giudici di merito, sollecitandone una valutazione diversa e più favorevole al ricorrente. Dimenticando, tuttavia, che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione non involge né la ricostruzione de fatti, né il relativo apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato alla verifi della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti: l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento stesso (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 2012, Rv. 251760). D’altronde, il ricorrente si limita a criticare la valenza probatoria d singolo elemento, isolandolo dal complesso argomentativo all’interno del quale è inserito, senza considerare, però, che ogni singolo fatto deve essere valutato non in modo parcellizzato, ma nella sua unitaria sistemazione all’interno del generale contesto probatorio (Sez. 2, n.33578 del 20/05/2010, Rv. 248128).
In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati e i ricorrenti condannati a pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17 gennaio 2025
Il Consig iere es GLYPH sore
Il Presidente