Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 7236 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3   Num. 7236  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Bari il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 17-01-2023 della Corte di appello di L’Aquila; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; letta la memoria di replica trasmessa dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, difensore di fiducia dell’imputato, che ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
Depositata in Cancelleria
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12 gennaio 2022, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE condannava NOME COGNOME alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, ajui contesta perché, quale amministratore di fatto della ditta “RAGIONE_SOCIALE“, con sede in Francavilla al mare e luogo di esercizio in Casacanditella, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, pur essendovi obbligato, non presentava la dichiarazione relativa ai redditi prodotti nell’anno di imposta 2013, per l’importo di euro 1.274.047,96, con iva evasa pari a euro 267.550,07; in RAGIONE_SOCIALE il 30 settembre 2014. Il Tribunale disponeva altresì la confisca del profitto del reato, pari all’importo prima indicato dell’imposta evasa.
Con sentenza del 17 gennaio 2023, la Corte di appello di L’Aquila, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, disponeva la pubblicazione della condanna sul sito internet del Ministero della Giustizia, confermando nel resto la decisione del Tribunale.
Avverso la sentenza della Corte di appello abruzzese, COGNOME, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione degli art. 40, comma 2, cod. pen., 63, comma 2, e 192, comma 3, cod. proc. pen., evidenziando che, unitamente all’odierno imputato, indicato quale presunto amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE: doveva essere tratto a giudizio, per responsabilità concorrente nello stesso reato, ovvero per non aver impedito l’evento criminoso, anche NOME COGNOME, titolare dell’omonima ditta individuale, nonché socio della RAGIONE_SOCIALE NOME: per cui sin dalle questioni preliminari la difesa ha richiesto che il P.M. provvedesse alla integrazione del capo di imputazione, a nulla rilevando che NOME COGNOME sia stato assolto in altro procedimento, perché ritenuto mero prestanome della medesima ditta, posto che in quel procedimento a NOME era stata contestata non la correità ai sensi dell’art. 40 cod. pen. per non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire in forza della previsione di cui all’art. 2392 cod. civ., ma la pien responsabilità nel reato ex art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000. Dall’omessa modifica dell’imputazione è scaturito che COGNOME è stato introdotto nel giudizio quale testimone estraneo ai fatti e non quale coimputato, le cui dichiarazioni, ex art. 192 cod. proc. pen., devono essere valutare in modo più rigoroso dal giudice.
Con il secondo motivo, sono stati dedotti il vizio di motivazione e il travisamento della prova, rilevandosi che, a fronte della laconica motivazione della sentenza di primo grado, la difesa aveva censurato specificamente nell’atto di appello l’esito incerto, contraddittorio e non decisivo degli accertamenti svolti,
nonché la ricostruzione degli elementi fattuali operata dal primo giudice sulla scorta degli accertamenti induttivi svolti dalla Guardia RAGIONE_SOCIALE e delle dichiarazioni lacunose e incoerenti del coimputato NOME COGNOME, ma il giudice di secondo grado avrebbe mancato di confrontarsi con le obiezioni difensive, assumendo innanzitutto un postulato preliminare macroscopicamente infondato, non precisato neppure dal primo giudice, affermando cioè che l’attività imprenditoriale della RAGIONE_SOCIALE era stata esercitata tramite una società di fatto instaurata tra l’imputato e i suoi familiari, non anche da NOME COGNOME, mentre invece nel verbale di verifica della Guardia di RAGIONE_SOCIALE si legge che in realtà COGNOME era socio lavoratore di questa presunta società di fatto. Peraltro, le deduzioni dei giudici di merito secondo cui le somme di denaro frutto dell’evasione fiscale sono state convogliate sui conti correnti personali di COGNOME e dei suoi familiari risultano completamente infondate se non addirittura false, perché mai riferite dal maresciallo COGNOME, il quale, rispetto alle fantomatiche carte ricaricabili, ha fatto riferimento a dichiarazioni di altre persone di cui non è traccia in atti e ha precisato di non aver accertato conti intestati a COGNOME.
Con il terzo motivo, infine, oggetto di doglianza è il vizio di motivazione con riferimento alla quantificazione dell’evasione, osservandosi che il semplice rimando al procedimento di quantificazione operato dalla Guardia RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE secondo il metodo induttivo e le valutazioni su base presuntiva e formale non assolvono l’esigenza di motivazione richiesta dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, dalle sentenze di merito si evincerebbe che la somma di euro 1.916.489,63 sarebbe stata rilevata da un accertamento diretto dei conti dell’imputato e dei suoi familiari, ma così non è, perché l’imputato non era titolare di alcun conto, mentre i conti dei suoi familiari avevano avuto movimentazioni modeste e non equiparabili a quella oggetto di evasione.
2.1. Con memoria trasmessa il 19 ottobre 2023, il difensore dell’imputato ha insistito nell’accoglimento del ricorso, ribadendone le argomentazioni e invocando altresì l’estinzione per prescrizione del reato contestato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, perché manifestamente infondato.
Iniziando dal primo motivo, occorre premettere che l’accusa elevata a carico di COGNOME è quella di non aver presentato, al fine di evadere le imposte, la dichiarazione relativa ai redditi prodotti nel 2013, r esse dovi obbligato, quale amministratore di fatto della ditta RAGIONE_SOCIALE di ara ·i tit4 aul. Orbene, come osservato dalla Corte territoriale all’esito di un giudizio di fatto non censurabile in questa sede, anche perché non adeguatamente contestato,
era già emerso nel corso del procedimento amministrativo di accertamento tributario eseguito dalla Guardia di RAGIONE_SOCIALE che l’attività imprenditoriale della RAGIONE_SOCIALE era svolta non individualmente, ma da una sorta di società di fatto, instaurata tra l’imputato e i suoi familiari NOME e NOME COGNOME, oltre che da NOME COGNOME, mentre NOME COGNOME aveva un ruolo meramente formale nella società, tanto è vero che questi, in un separato giudizio, è stato assolto dal medesimo addebito per non aver commesso il fatto dal Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, con sentenza divenuta irrevocabile. Di qui la condivisibile conclusione dei giudici di appello, secondo cui la contestazione elevata a carico di COGNOME è risultata coerente con le risultanze investigative e dibattimentali e non ha menomato in alcun modo il diritto di difesa del ricorrente, tanto più ove si consideri che il reat contestato è monosoggettivo e non a concorso necessario, per cui resta ininfluente l’eventuale mancata menzione nel capo di imputazione di altri soggetti che, in ipotesi, avrebbero potuto o dovuto concorrere nel reato.
Quanto poi alla veste in cui è stato sentito COGNOME, deve ritenersi corretta la qualificazione della sua posizione come testimone “puro”, dovendosi applicare il principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 21 del 2017, camera di consiglio del 07/12/2016 e n. 381 del 21 novembre 2006) e di legittimità (Sez. 2, n. 21599 del 16/02/2009, Rv. 244542), secondo cui la posizione della persona imputata in un procedimento connesso o collegato, che sia stata assolta con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto, è assimilata a quella di testimone, con conseguente inapplicabilità delle speciali regole di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen.
Di qui la manifesta infondatezza delle censure difensive, che invero non tengono conto dei canoni ermeneutici sopra richiamati, dovendosi solo aggiungere che, ai fini della qualificazione della posizione giuridica del teste, non rileva che l’imputazione elevata a suo carico non contenesse il richiamo all’art. 40, comma huAzobl Ma l cod. pen., essendo invece rilevante che la contestazione dalla quale egli è stato assolto per non aver commesso il fatto in via definitiva riguardava la medesima fattispecie oggetto del presente giudizio, ossia quella di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000 ascritta nei medesimi termini fattuali a COGNOME.
Passando al secondo e al terzo motivo di ricorso, suscettibili di essere affrontati unitariamente, perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine alla fattispecie a lui ascritta non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede. Occorre premettere in proposito che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un apparato argomentativo unitario, hanno compiuto un’adeguata disamina delle fonti dimostrative
disponibili, valorizzando in particolare gli accertamenti investigativi riportati da
teste di AVV_NOTAIO, da cui è emerso che la ditta individuale RAGIONE_SOCIALE, specializzata nella vendita a terzi di cofani mortuari, nell’anno 2013 ha conseguito ricavi di esercizio per un ammontare imponibile pari a euro 1.953.475 con costi deducibili pari a 679.427 euro, per cui l’impresa era tenuta a presentare la dichiarazione Iva per un importo pari a euro 267.550 euro.
Sul punto deve osservarsi che il procedimento seguito dalla Guardia RAGIONE_SOCIALE nella quantificazione dell’ammontare dell’imposta evasa è stato ragionevolmente ritenuto immune da censure dai giudici di merito, perché articolatosi nell’esaustiva acquisizione dei riscontri documentali riguardanti le contrapposte partite, indicative e dei ricavi e dei costi sostenuti dall’impresa, con evidenze che sono state poi concretamente verificate sulla base delle indagini bancarie, che hanno dato conferma dei flussi finanziari in entrata a conforto dell’effettivo incasso dei proventi della vendita dei beni commercializzati dalla RAGIONE_SOCIALE.
Quanto all’ascrivibilità della condotta omissiva a COGNOME, è stato sottolineato che questi, unitamente ai suoi familiari, ha amministrato di fatto l’impresa, gestendo tutti i rapporti commerciali con i fornitori delle casse funerarie e con i client occupandosi altresì della movimentazione delle entrate delle società tramite un articolato sistema di carte di credito ricaricabili intestate ai parenti e a COGNOME, amministratore formale della società che fungeva da mero prestanome.
Sentito quale teste, in quanto, come detto, assolto in via definitiva dall’analoga imputazione elevata a suo carico, NOME COGNOME ha riferito che a gestire la ditta era proprio NOME COGNOME, il quale si occupava di tutti i rapporti economici dell’impresa, impartendo le istruzioni ai suoi dipendenti, tra cui figurava di fatto lo stesso COGNOME, che era preposto al magazzino e che era pacificamente estromesso dall’amministrazione in concreto della ditta, venendo remunerato per le sue mansioni con la somma contante di 300 euro a settimana.
Le puntuali dichiarazioni del teste COGNOME si sono rivelate convergenti con gli accertamenti incrociati operati dalla P.G., estesi anche ai conti correnti di COGNOME e dei suoi familiari, accertamenti da cui è emerso anche che la somma di denaro corrispondente all’importo (euro 507.985) delle 14 fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti della RAGIONE_SOCIALE per la fornitura di cofani mortuari è convogliata sui conti correnti di COGNOME e dei suoi familiari, ciò a ulteriore riprova del pieno inserimento dell’imputato nella gestione aziendale.
Orbene, in quanto sorretto da argomentazioni non illogiche, il percorso motivazionale delle sentenze di merito non presta il fianco alle censure difensive, che, oltre a essere contraddistinte da palesi limiti di autosufficienza nel richiamo a fonti dimostrative il cui contenuto non è stato allegato o riportato nel loro reale contenuto, risultano finalizzate a sollecitare differenti apprezzamenti di merito non consentiti in sede di legittimità, dovendosi ribadire il costante principio (cfr.
ex plurimis Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601) secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomenta privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazi dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati d migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
Quanto, infine, alla richiesta difensiva di dichiarare estinto per prescr il reato contestato, occorre rilevare che la data di commissione del reato è correttamente indicata nell’imputazione nel 30 settembre 2014, termine ultim entro il quale doveva essere presentata la dichiarazioni dei redditi r all’anno di imposta 2013, per cui, avuto riguardo alla previsione di cui all’a comma 1bis, del d. Igs. n. 74 del 2000, in vigore dal 17 settembre 2011, prescrizione del reato contestato si computa in 10 anni, con la conseguenza la data di prescrizione matura il 30 settembre 2024, dunque dopo la definizi del giudizio non solo di appello, ma anche di legittimità, e ciò senza conside che, ove pure fosse maturata prima dell’odierna sentenza, la declaratori estinzione del reato sarebbe stata comunque impedita dal rilievo della manifes infondatezza delle doglianze sollevate, non consentendo l’inammissibili originaria dei ricorsi per cassazione la valida instaurazione dell’ulteriore impugnazione (cfr. in termini Sez. 7, ord. n. 6935 del 17/04/2015, Rv. 266172)
In conclusione, il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME deve es dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai s dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto, infine, della sentenza della Corte costituzionale n. 186 de giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della caus inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata i equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento de spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa de ammende.
Così deciso il 27/10/2023