Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23221 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23221 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a ASCOLI PICENO il 24/06/1965 COGNOME NOME nato a SAN BENEDETTO DEL TRONTO il 20/11/1972
avverso la sentenza del 09/09/2024 della Corte d’appello di Ancona; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
lette le conclusioni del difensore del COGNOME, avv. NOME COGNOME che ha chiesto accogliersi il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 27/10/2022, il Tribunale di Ancona ha condannato, per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME per aver occultato le scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE (gerente bar, ristoranti e strutture ricettive), dichiarata fallita il 25/6/2015, tanto al fine di recare pregiudizio ai creditori e di procurarsi un ingiusto profitto, impedendo al curatore di ricostruire il patrimonio ed il movimento degli affari della
società e di rinvenire beni nella disponibilità della stessa. Il passivo di euro 4.852.356,33 era per lo più derivante da debiti erariali, avendo, la detta società, evaso totalmente le imposte a partire dal 2006. Al COGNOME è stata irrogata la pena di 2 anni di reclusione, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, al COGNOME quella di 4 anni e 8 mesi di reclusione, con la recidiva semplice, al COGNOME quella di 4 anni e 6 mesi di reclusione, con la recidiva specifica infraquinquennale. Venivano, altresì, applicate le pene accessorie.
Su impugnazione degli imputati, la Corte d ‘a ppello di Ancona, con sentenza del 9/9/2024, ha confermato la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME si fonda su due motivi
4.1. Col primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606 lett. c) cod. proc. pen. in relazione all’art. 195 cod. proc. pen. e l’ inutilizzabilità delle dichiarazioni rese al Curatore da soggetti terzi, e poi trasfuse nella sua relazione o dedotte allorché costui è stato escusso.
La difesa censura la sentenza per aver fondato l ‘affermazione di responsabilità del COGNOME principalmente sulle dichiarazioni rese al Curatore fallimentare durante la sua attività di indagine e da questi, poi, trasfuse nella relazione ex art. 33 r.d. 267/1942 ed evidenziate in sede dibattimentale. Pur ammessa l’utilizzabilità, come prova documentale, della relazione del curatore, la difesa sostiene l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese al Curatore da soggetti diversi dagli imputati: le uniche, queste ultime, che -si ammette, da parte ricorrente -sarebbero utilizzabili.
Non rimarrebbe, dunque, prova sufficiente del ruolo gestionale del RAGIONE_SOCIALE nella società RAGIONE_SOCIALE dato che altri testi non lo avrebbero confermato.
4.2. Col secondo motivo, la difesa del COGNOME lamenta la violazione vizi motivazionali e violazioni di legge in relazione alla attribuzione della veste di amministratore di fatto e dell’obbligo giuridico alla tenuta delle scritture contabili.
Viene evidenziato che le dichiarazioni di COGNOME NOME e COGNOME NOME, secondo cui COGNOME si occupava degli incassi e dei pagamenti, non sarebbero di per sé sufficienti ad attribuirgli la qualifica di amministratore di fatto, trattandosi di condotte “neutre”, se non corroborate da altri atti di gestione concreti, potendo essere potenzialmente appannaggio anche di un dipendente con mansioni elevate.
Si richiama la nozione giurisprudenziale di amministratore di fatto, che
richiede l’esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione, desumibile da elementi sintomatici di gestione o cogestione (quali l’inserimento organico con funzioni gerarchiche e direttive nelle varie fasi aziendali, la gestione dei rapporti con dipendenti e fornitori, ecc.).
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME si fonda su sette motivi di seguito sintetizzati.
5.1. Col primo si deduce l’i nosservanza o erronea applicazione degli artt. 108 e 178 cod. proc. pen.
La difesa lamenta il rigetto da parte della Corte d’appello della richiesta di rinvio dell’udienza e di concessione di un termine a difesa, presentata in seguito alla nomina del nuovo difensore di fiducia due giorni prima dell’udienza di trattazione, che si svolgeva in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti. Sostiene che tale rigetto ha precluso al nuovo legale ogni difesa.
5.2. Col secondo motivo lamenta l’i nosservanza o erronea applicazione degli artt. 178 e 179 cod. proc. pen.
Il motivo censura il rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire il movimento carceri relativo al COGNOME. La difesa aveva dedotto che COGNOME si trovava detenuto presso vari istituti penitenziari (di Marino del Tronto e Fermo) dal 2013 al 2017. La Corte d’appello ha respinto la richiesta ritenendola tardiva e priva di elementi sufficienti a dimostrare la detenzione per l’intero periodo. La difesa argomenta che sarebbe stato onere del giudice verificare lo stato di detenzione dell’imputato e che, non essendo stata disposta la sua traduzione per partecipare alle udienze di primo grado, né avendo egli rinunciato a comparire, si sarebbe verificata una nullità assoluta e insanabile ai sensi degli artt. 178, comma 1, lettera c), e 179 cod. proc. pen., con violazione del suo diritto a intervenire nel processo.
Allega documentazione proveniente dal carcere di Marino del Tronto (AP), che confermava che il COGNOME era stato ivi detenuto in vari periodi e, in particolare, nel gennaio 2016.
5.3. Col terzo motivo si assume l’i nosservanza o erronea applicazione dell’art. 195 cod. proc. pen., eccependosi l’ inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette del curatore e di quelle di terzi trascritte nella sua relazione ex art. 33 r.d. 267/1942.
Il motivo, in modo similare al primo proposto dal COGNOME, sostiene che, mentre l’utilizzabilità delle dichiarazioni a carico rese dai coimputati al curatore sarebbe affermata in modo consolidato, non sarebbero utilizzabili le dichiarazioni dei testimoni ‘veicolate’ attraverso la detta relazione, anziché acquisite mediante
escussione dibattimentale.
Si assume, inoltre, che il curatore, agendo su mandato dell’autorità giudiziaria, rivestirebbe un ruolo assimilabile a quello della polizia giudiziaria e, pertanto, la sua testimonianza indiretta su dichiarazioni acquisite da testimoni sarebbe inutilizzabile ai sensi dell’art. 195 cod. proc. pen.: il principio di cui all’art. 195, comma 1, cod. proc. pen. (sull’ascolto dei testi di riferimento rimesso al volere della stessa difesa) si assume sarebbe inapplicabile quando la testimonianza indiretta sia stata resa da uno di quei soggetti indicati dall’art. 195, comma 4, cod. proc. pen.
Tanto varrebbe a maggior ragione nei casi in cui vi sarebbero dubbi sull’autenticità di quanto verbalizzato dal curatore, in particolare in relazione alle dichiarazioni rese da COGNOME e COGNOME avendo costoro reso dichiarazioni sostanzialmente identiche.
5.4. Col quarto motivo, la difesa del COGNOME sostiene vizi motivazionali e violazioni di legge, nonché la carenza di prova a carico o la sussistenza di una prova viziata.
Il motivo si concentra sulla testimonianza indiretta del curatore riguardante le dichiarazioni di COGNOME NOME. Si afferma che la COGNOME avesse disconosciuto la firma e le dichiarazioni rese al curatore il 20/7/2015, come risulterebbe da un file audio acquisito dopo il giudizio d’appello. La difesa chiede una perizia grafologica sulla firma della COGNOME e, in caso di accertata falsità, l’audizione della stessa a dibattimento per accertare la verità di quanto attribuitole.
Considerata la medesima portata -a quelle della COGNOME -delle dichiarazioni rese al curatore dal COGNOME, parte ricorrente solleva dubbi sulle modalità di verbalizzazione da parte del curatore.
Sostiene che la condanna basata su tali dichiarazioni, in assenza di altri riscontri gravi, precisi e concordanti, sarebbe pertanto viziata.
5.5. Col quinto motivo, la difesa COGNOME deduce l’i nosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche ed il travisamento delle risultanze processuali in particolare sul ruolo del COGNOME nella vicenda.
La difesa contesta l’interpretazione della dichiarazione del COGNOME che lo definiva il “tuttofare” dello chalet , argomentando che ciò, in ogni caso, indicava lo svolgimento di mansioni operative varie (bagnino, cameriere, barista, rapporti con fornitori) tipiche di un dipendente, come confermato dalla menzione del suo nome tra quelli indicati sui cedolini paga dalla teste COGNOME la quale aveva anche chiarito che era stato il COGNOME ad affidarle l’incarico di consulenza.
Riconoscendo che COGNOME si occupasse di approvvigionamento, gestione dello stabilimento e del personale, la difesa sottolinea che mai si fosse occupato
delle questioni economiche e contabili della società, gestite invece dal COGNOME e/o dal COGNOME.
Richiama la giurisprudenza sulla nozione di amministratore di fatto, che richiede la partecipazione diretta e concreta alla gestione della vita societaria, interventi nelle strategie e nelle fasi economiche fondamentali, identificazione generalizzata come amministratore da parte di dipendenti e terzi, elementi che, a suo dire, mancherebbero nel caso del ricorrente.
5.6. Col sesto motivo, si lamenta l’i nosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche e il travisamento delle risultanze processuali in particolare sul ruolo del PIRONATO nel reato e sull’elemento soggettivo necessario per la sua configurabilità.
Anche ammettendo che questi fosse stato amministratore di fatto della fallita, per la gestione operativa da lui tenuta, la difesa sostiene la mancanza del dolo necessario per la bancarotta fraudolenta documentale.
Evidenziando la chiara divisione di ruoli accertata dalla Corte d’appello (COGNOME formale, COGNOME gestione fiscale/contabile, COGNOME operativo/tuttofare), si argomenta che la gestione contabile fosse esclusivamente in mano al COGNOME. Richiama il principio per cui il dolo non può essere presunto dalla sola assenza di scritture, ma deve essere provato attraverso le modalità della condotta, dimostrando la coscienza e volontà di rendere impossibile la ricostruzione degli affari societari. COGNOME, non occupandosi di contabilità, incassi o rapporti con i professionisti fiscali, non avrebbe avuto la consapevolezza e volontà richieste e, al più, avrebbe potuto essere ritenuto negligente, per aver trascurato di verificare la regolare tenuta delle scritture contabili.
Elemento cruciale addotto dalla difesa è la detenzione di COGNOME dal 18/10/2013 al 3/10/2014, periodo che include l’inizio della verifica della Guardia di Finanza (in data 7/2/2014), la quale aveva, poi, accertato la mancanza delle scritture contabili. Durante la detenzione, COGNOME non avrebbe potuto né possedere o occultare alcunché, né consegnare la documentazione: tanto escluderebbe la sua partecipazione dolosa alla condotta contestata.
5.7. Col settimo motivo, in via subordinata, la difesa censura vizi motivazionali e violazioni di legge circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’applicazione della recidiva specifica infraquinquennale.
Sostiene che la motivazione della Corte d’appello sarebbe apparente o, comunque, insufficiente, limitandosi a formule generiche. Argomenta che non sarebbe stata data adeguata giustificazione al diniego delle attenuanti, nonostante elementi a favore di COGNOME (ruolo limitato alla gestione operativa, assenza di gestione contabile, richiesta di assoluzione da parte del Pubblico Ministero in primo
grado). Contesta inoltre l’applicazione della recidiva, rilevando che in quasi 10 anni dalla data del reato contestato (25/6/2015), COGNOME non aveva subito altre condanne, né aveva altri procedimenti in corso, indice, a suo dire, di rieducazione e reinserimento sociale, che deporrebbe in senso contrario alla ritenuta sua una maggiore pericolosità. Chiede infine che la Corte indichi specificamente quale precedente condanna giustifichi l’applicazione della recidiva specifica infraquinquennale e perché essa aggravi la pena nel caso di specie.
Le parti hanno concluso per iscritto come sopra specificato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, per diversi profili inammissibili, sono nel complesso infondati.
Il primo motivo del ricorso COGNOME (rigetto da parte della Corte d’appello della richiesta di rinvio dell’udienza e di concessione di un termine a difesa, presentata in seguito alla nomina del nuovo difensore di fiducia due giorni prima dell’udienza di trattazione, che si svolgeva in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti) è manifestamente infondato.
Come rilevato dalla Corte d’appello, la nomina dell’avv. COGNOME quale nuovo difensore di fiducia del COGNOME, in sostituzione del precedente difensore, e la richiesta di rinvio dell’udienza sono intervenute a soli due giorni dall’udienza, «da svolgersi senza la partecipazione delle parti, quindi quando era ormai preclusa alle parti anche la presentazione di memorie di replica».
Orbene, correttamente la Corte territoriale ha rilevato ciò e ha rigettato l’istanza , posto che, se così non fosse, sarebbe consentito alle parti di determinare, a loro piacimento, la regressione del processo ad una fase già chiusa e l’esercizio di facoltà oramai precluse. Come di recente statuito, «in generale, un nuovo difensore assume le facoltà e i diritti che sono esercitabili in relazione allo stato e alla fase in cui il processo si trova nel momento della sua nomina», «essendo fin troppo evidente che una nuova nomina non può far regredire il processo per consentire al nuovo difensore di esercitare tutte le facoltà e tutti i diritti che vengono riconosciuti alla difesa fin dall’inizio del procedimento» (Sez. 5, Sentenza n. 501 del 5/10/2022, dep. 2023, non massimata).
Il secondo motivo proposto dal COGNOMEcirca il rigetto della richiesta di acquisire il movimento carceri relativo al medesimo ricorrente) è parimenti inammissibile per manifesta infondatezza, in fatto e in diritto.
Anzitutto, non è dato comprendere come la circostanza che il COGNOME ‘dal 2013 al 2017 si trovava recluso’ (p. 2 ricorso) possa incidere in relazione alla partecipazione ad un processo il cui decreto che dispone il giudizio è stato emesso in data 19/2/2020 e la cui udienza di apertura del dibattimento è del 4/3/2021.
La doglianza è, per giunta, manifestamente infondata anche in diritto.
Come oramai pacifico presso questa Corte (Sez. U n. 7635 del 30/09/2021, dep. 2022, Costantino, Rv. 282806; Sez. 2, n. 13706 del 08/03/2024, COGNOME, non massimata; Sez. 2, n. 13956 del 07/03/2024, COGNOME, non massimata), la restrizione carceraria o domiciliare per altra causa dell’imputato che sia, invece, libero nel suo procedimento, comporta il dovere per il giudice di disporne la traduzione (e, se del caso, costituisce legittimo impedimento tale da determinare il rinvio del processo, qualora l’ordine di traduzione non sia eseguibile per l’udienza già fissata), a condizione che tanto sia noto al medesimo giudice: o perché emerga dagli atti oppure perché comunicato dall’imputato o dal suo difensore (posto che, laddove la circostanza non sia dedotta e non emerga, sarebbe impensabile gravare l’ufficio, per ogni processo e ogni udienza, del dovere di verificare se l’imputato non comparso sia ristretto, accertando ciò presso gli istituti carcerari e gli uffici giudiziari).
Nella specie, non si deduce che tanto sia mai stato effettivamente comunicato al Tribunale o che sia comunque emerso innanzi ad esso: sicché qualsivoglia accertamento in merito, in sede d’appello, sarebbe stato del tutto ultroneo, dovendosi escludere in radice la sussistenza della lamentata nullità.
Le doglianze circa l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal Curatore a dibattimento e della sua relazione ex art. 33 r.d. 267/1942 su quanto dettogli da testimoni nel corso della procedura fallimentare (terzo motivo proposto dal COGNOME e primo motivo del ricorso COGNOME) sono inammissibili, sia perché manifestamente infondate, sia perché prive di argomenti che ne illustrino la decisività.
Secondo l’orientamento dominante in sede di legittimità, le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare sono ammissibili come prove documentali in ogni caso e non solo quando siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile, atteso che gli accertamenti documentali e le dichiarazioni ricevute dal curatore costituiscono prove rilevanti nel processo penale, al fine di ricostruire le vicende amministrative della società (così, ex plurimis , Sez. F, n. 49132 del 26/07/2013, Rv. 257650; Sez. 5, n. 39001 del 09/06/2004, Rv. 229330; Sez. 5, n. 6887 del 13/04/1999, Rv. 213607).
Ed ancora, le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla
disciplina di cui all’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, in quanto il curatore non rientra tra dette categorie di soggetti e la sua attività non è riconducibile alla previsione di cui all’art. 220 disp. att., cod. proc. pen., che concerne le attività ispettive e di vigilanza (così Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 272664-01).
Né è applicabile, nel nostro ordinamento, il principio espresso dalla Corte EDU (sentenze 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito e 27 aprile 2004, Kansal c. Regno Unito) secondo cui il diritto inglese viola l’art. 6 della CEDU nella parte in cui consente l’utilizzo contro il fallito delle dichiarazioni rese al curatore ed ottenute esercitando poteri coercitivi, in ragione della diversità dei poteri riconosciuti al curatore dalla legge fallimentare italiana (Sez. 5, n. 38431 del 17/05/2019, Rv. 277342-01).
Più in particolare, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 62, 63, 64, 191, 195 e 526 cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., in relazione agli artt. 6 CEDU, 47, comma 2, e 48 C.D.F.U.E., nella parte in cui non è prevista l’inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese al curatore nel corso della procedura fallimentare e da questi trasfuse nella propria relazione, proprio per il diverso ruolo ricoperto dal curatore. Questi, infatti, non svolge, come detto, attività ispettive e di vigilanza, né esercita poteri coercitivi, neppure ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 49 e 220 r.d. 267/1942, che prevede, in capo al fallito, un mero obbligo di presentazione per rendere «informazioni o chiarimenti» ai soli «fini della gestione della procedura», pur essendo egli tenuto a rappresentare anche «quanto può interessare ai fini delle indagini preliminari in sede penale» (Sez. 5, n. 17828 del 09/02/2023, Rv. 284589-02).
«Nondimeno, se le persone che il curatore ha esaminato rivestono il ruolo di indagati o imputati nel medesimo procedimento e procedimento connesso o collegato, tali dichiarazioni vanno valutate alla luce dell’art. 192 c.p.p., comma 3, in quanto non può certo essere il “filtro” consistente nell’intervento del curatore quel che può valere a far derogare dalla predetta regola di valutazione. Diversamente ragionando, si giungerebbe alla conclusione -ovviamente paradossale – che, se un soggetto imputato o indagato di reato connesso o collegato o del medesimo reato opera una chiamata in correità davanti al giudice, si deve fare applicazione dell’art. 192, comma 3, se – viceversa – tali dichiarazioni vengono rese al curatore, esse sarebbero valutabili ex se. Ma l’apparente paradosso si supera se solo si distingue tra acquisibilità (della relazione) e valutazione (del suo contenuto)» (Sez. 5, n. 20090 del 17/04/2015, Fiorentino,
Rv. 263819-01, in motivazione).
Orbene, correttamente, sin dalla sentenza di primo grado, si è quindi evidenziato che ‘ le circostanze sono state riferite dal curatore COGNOME anche in sede testimoniale e le dichiarazioni de relato ricevute, e già contenute nelle relazioni, non sono state fatte oggetto di richiesta di sentire il teste de relato di riferimento ex art. 195 c.p.p. ‘, essendo, per giunta, l’unica escussione richiesta, quella di COGNOME NOME, ‘ stata pure rinunciata dalla difesa ‘ (p. 7 sentenza di primo grado).
Ma, oltre che manifestamente infondate in diritto, le doglianze non specificano alcunché circa la decisività del sostenuto vizio di inutilizzabilità.
È pacifico, infatti, che, in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali, a pena di inammissibilità per genericità del motivo, non solo indicare gli atti specificamente affetti dal vizio, ma soprattutto chiarirne, altresì, l’incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, di modo da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 1219 del 12/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278123-01; confronta, negli stessi termini, Sez. 5, n. 25082 del 27/02/2019, Baiano, Rv. 277608-02). Insomma, nell’ipotesi in cui si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 6, n. 1269 del 20/11/2024, dep. 2025, Lato, Rv. 287504-01, in motivazione).
Nulla di tutto ciò si desume dai ricorsi, con quanto ne consegue in termini di inammissibilità delle censure.
La doglianza di cui al quarto motivo COGNOME (inattendibilità delle parole attribuite alla COGNOME e al COGNOME dal curatore) è, per più profili, palesemente inammissibile.
Anzitutto, nel caso di cosiddetta «doppia conforme», è inammissibile ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen., il motivo fondato persino sul travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, che sia stato dedotto per la prima volta con il ricorso per cassazione, poiché in tal modo esso viene sottratto alla cognizione del giudice di appello, con violazione dei limiti del devolutum ed improprio ampliamento del tema di cognizione in sede di legittimità (Sez. 6, n.
21015 del 17/05/2021, COGNOME, Rv. 281665-01; Sez. 3, n. 11963 del 12/11/2024, dep. 2025, non massimata). E, nella specie, si parla di materiale probatorio emerso dopo il giudizio d’appello.
Orbene, le dichiarazioni dei menzionati testi sono utilizzate, in sede d’appello, per argomentare l’assenza di responsabilità del COGNOME, ritenuto -dalla difesa -estraneo all’amministrazione di fatto della fallita: giammai essendosi dedotto, prima che in questa sede, che le dichiarazioni rese al curatore dai predetti testi fossero addirittura false (deducendosi, anzi, che gli elementi a riprova di tanto sarebbero emersi dopo il giudizio d’appello).
In secondo luogo, persino in caso di travisamento, sarebbe stato, come noto, necessario spiegare il perché della decisività della doglianza, indicando le ragioni per cui l’atto comprometterebbe, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01).
Nella specie, tale deduzione risulta del tutto omessa, con ciò che ne consegue, in termini di inammissibilità della deduzione.
Infine, per quanto oltre si dirà, i giudici di merito hanno fondato il loro convincimento su dati -rimasti incontestati -che prescindono del tutto da quelli oggetto della doglianza in esame e che appaiono costituire tessuto motivazionale solido, razionale, coerente e sufficiente a fondare la decisione presa.
Le doglianze sul ruolo di amministratori di fatto, in capo ai ricorrenti (prospettate col quinto motivo del ricorso COGNOME e col secondo del ricorso COGNOME), sono da disattendere.
Nella specie, le conformi sentenze di merito hanno ritenuto provato il ruolo di amministratori di fatto di COGNOME NOME e COGNOME NOME sulla base di una serie di dati che non si limitano alle parole del curatore e configurano atti di concreta gestione della società.
Tali dati istruttori risultano o del tutto pretermessi, oppure oggetto di esame parziale, da parte del ricorrente, già per come riportati nelle sentenze di merito e, in particolare, da p. 8, paragrafo 3, di quella d’appello e da p. 7 di quella di primo grado. Tanto in violazione del pacifico principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, i motivi che deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e che, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071-01; Sez. 1, n. 20262 del 02/05/2024, non
massimata, Sez. 5, n. 19976 del 19/04/2024, non massimata; Sez. 5, n. 2490 del 13/12/2019, dep. 2020, Guardo, non massimata).
Invero, nella sentenza d’appello si menzionano, anzitutto, le dichiarazioni rese dall’amministratore di diritto, COGNOME NOMECOGNOME nell’interrogatorio del 31/1/2019, laddove aveva evidenziato di essere un mero prestanome, indicando in COGNOME l’effettivo amministratore, gerente i contatti con clienti, fornitori e col commercialista, e nel COGNOME colui che si occupava di tutto (il “tuttofare”) in relazione allo chalet .
Si richiamano, poi, le dichiarazioni di COGNOME NOMECOGNOME allorché sentito dal curatore, laddove ha addotto:
-di aver «definito il trattamento economico, l’orario di lavoro e le mansioni richieste con il sig. NOME COGNOME con cui aveva svolto pure il colloquio di lavoro;
-che «i ruoli di comando di decisione e di responsabilità erano ricoperti dai sig.ri NOME COGNOME e NOME COGNOME mentre il sig. COGNOME NOME, se pur presente, non sembrava ricoprire alcun ruolo di comando»;
-che «il sig. NOME COGNOME si occupava degli incassi giornalieri e dei pagamenti e a fine servizio ritirava l’incasso dell’attività del ristorante», mentre «il sig. COGNOME si occupava dell’approvvigionamento delle vivande del ristorante, della gestione dello stabilimento balneare e del personale addetto alle cucine e alle sale» (laddove il COGNOME «non ricopriva una funzione specifica, ma dava un aiuto all’occorrenza»);
-che, comunque, tutti gli imputati erano «costantemente presenti nella gestione del RAGIONE_SOCIALE».
La sentenza d’appello riporta, poi, anche le conformi e coerenti parole del lo stesso COGNOME allorché sentito come testimone: «Mi sono rapportato da un punto di vista dipendente-datore di lavoro con NOME COGNOME e COGNOME NOME». Sicché, del tutto superflui sono i dubbi sollevati -e, invero, scarsamente comprensibili -circa l ‘ipotizzata errata trascrizione o narrazione delle sue dichiarazioni, da parte del curatore: avendo il COGNOME, comunque, in sede di deposizione dibattimentale, reso dichiarazioni conformi a quelle di cui parla il curatore e non considerate dai ricorrenti. Tanto relega, inevitabilmente, all’irrilevanza e inammissibilità ogni questione posta su quanto riferito dal curatore (peraltro, senza alcun serio fondamento).
Inoltre, con riferimento al TANZI si richiama -da parte dei giudici di merito -quanto dichiarato dalla teste NOME, consulente del lavoro, secondo cui era stato il TANZI «a recarsi nel suo studio ed affidarle l’incarico di consulente del lavoro», apparendo egli «come responsabile della società (‘Venne lui insieme ad
altre persone, Però il dominus per me era lui io mi riferivo a lui’)» (pagine 9 -10 sentenza d’appello). La teste ha, altresì, specificato che il COGNOME «si qualificò come un responsabile della società incaricato a seguire l’accertamento ispettivo e a consegnarle il verbale di accesso» (p. 9 sentenza di primo grado).
Quanto al COGNOME , la COGNOME conferma di averlo visto «in un’occasione almeno» (p. 9 sentenza di primo grado), ma i giudici di merito rimarcano come lo stesso si fosse recato da lei, in tale frangente, «perché aveva problemi di assunzioni» (p. 10 sentenza d’appello): ovve ro esercitando mansioni tipiche di chi gestisce una compagine societaria (assunzione di personale) e non quale suo mero dipendente. E, sempre secondo la Corte territoriale, la detta teste non aveva «affatto affermato che i cedolini relativi al COGNOME si riferissero ad attività di lavoro dipendente presso la RAGIONE_SOCIALE», e come la circostanza, ove pure vera, fosse comunque «inidonea a escludere che fosse amministratore di fatto della predetta società»: affermazione che risulta, nel quadro descritto, niente affatto illogica.
Si menziona, poi, da parte del giudice d’appello, quanto affermato da COGNOME NOME, che «si era occupata al tempo delle pratiche amministrative della società poi fallita» e «lavorava per conto di COGNOME NOME che, assieme a COGNOME, gestiva lo stabilimento balneare e ristorante RAGIONE_SOCIALE nell’annualità 2013 attraverso la società RAGIONE_SOCIALE».
Ed ancora, la sentenza d’appello cita, a sostegno del ritenuto ruolo di amministratori di fatto, in capo ai ricorrenti, la deposizione del teste della difesa COGNOME, COGNOME COGNOME, avendo questi dichiarato di essere «stato incaricato di curare alcune pratiche edilizie per conto di detta società, e che la persona che gli avrebbe ‘presentato la società’ era proprio COGNOME NOME», seppur qualificatosi «come amico»: laddove, correttamente la detta sentenza rimarca che, a fronte della narrazione di un fatto certo (l’incarico dato al COGNOME dal COGNOME ), il teste s’era limitato ad esprimere solo un’opinione riguardo alla sua addotta veste di «amico» e «alla carenza di un ruolo gestionale in capo all’imputato, opinione – peraltro priva di qualsiasi indicazione che la giustifichi», non essendo stato «indicato quale altro soggetto avrebbe affidato l’incarico al COGNOME».
Si richiama, ad ulteriore supporto, la deposizione di COGNOME COGNOME che, nel parlare, con riferimento al COGNOME, del ruolo di «consulente» («senza però spiegare che tipo di consulenza fornisse alla società e a che titolo»), confermava, considerati anche gli altri elementi di prova, «che COGNOME fosse amministratore di fatto della detta società».
Infine, lo stesso COGNOME «nelle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 26.5.2022, ricorda che COGNOMEè stato mio socio negli anni passati, sempre in
Acquaviva, sull’altra struttura che ho avuto’» (p. 11 sentenza di primo grado).
Come detto, con tali dati probatori le difese omettono di confrontarsi correttamente, nei termini sopra detti, al fine di corroborare l’assunta decisività delle -ipoteticamente inutilizzabili, secondo i ricorrenti -parole del curatore: le quali, da ultimo, pienamente utilizzabili, per quanto detto, forniscono ulteriore linfa al già solido quadro probatorio che emerge aliunde e sopra riassunto.
In particolare, i giudici di merito riportano le dichiarazioni rese al curatore da NOME (già cuoca del ristorante), evidenziando come esse fossero sostanzialmente sovrapponibili a quelle del COGNOME: il quale, si ripete, le ha reiterate anche laddove escusso come teste.
Secondo la COGNOME, COGNOME e COGNOME «erano gli effettivi titolari e gestori dell’attività assieme al sig. COGNOME NOME» ed «il trattamento economico, l’orario di lavoro e le mansioni» erano «state definite con il sig. NOME COGNOME». Anche per la COGNOME, poi, «il sig. NOME COGNOME si occupava degli incassi e dei pagamenti e giornalmente ritirava l’incasso delle attività del ristorante», mentre «il sig. NOME COGNOME si occupava dell’approvvigionamento delle vivande del ristorante e dello stabilimento balneare» (laddove il COGNOME «non ricopriva una funzione specifica, ma dava un aiuto all’occorrenza»). La teste evidenzia, ancora, che tutti gli imputati «erano costantemente presenti nella gestione del Mama Lulu RAGIONE_SOCIALE» (p. 9 sentenza d’appello).
In definitiva, i giudici di merito hanno valorizzato una serie di elementi che non possono affatto dirsi viziati da manifesta illogicità, da contraddittorietà o da carenze e che, correttamente, hanno ritenuto denotassero inequivocabilmente la qualifica di amministratori di fatto in capo agli imputati.
Tale qualifica, è bene ribadire, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., può evincersi anche dal compimento di una singola operazione distrattiva, quando attuativa del disegno fraudolento di dismettere i beni della fallita (Sez. 5, n. 30197 del 01/06/2021, Rv. 28186701), ovvero dall’ideazione del meccanismo fraudolento (Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, Rv. 279829-02; Sez. 5, n. 32398 del 16/03/2018, Rv. 273821-01). Altrimenti, la stessa postula l’esercizio in modo continuativo e significativo, e non episodico o occasionale, di un’apprezzabile attività gestoria tipica della medesima qualifica (e non necessariamente di tutti i poteri ad essa correlati: Sez. 5, n. 2514 del 04/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285881-01; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 256534-01; Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 2015, Rv. 264009-01; Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 279838-01, in motivazione). Insomma, sintomatico del menzionato ruolo, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, è l’espletamento di poteri gestionali apicali,
esercitato in ambito aziendale e produttivo, ovvero in ambito amministrativo o, ancora, in ambito contrattuale o disciplinare (ancora Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 256534-01; analogamente Sez. 3, n. 42147 del 15/07/2019, Reale, Rv. 277984-01 e Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540-01), specie laddove si impegni economicamente, e in modo non esiguo, l’impresa . In tal senso, sono state ritenute significative, ad esempio, le decisioni prese circa gli importi dei compensi in favore di fornitori e collaboratori, quelle relative alle retribuzioni da erogare ai dipendenti, alle loro stesse e al l’affidamento a costoro delle concrete mansioni da svolgere (così, ad esempio, Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 256534-01, in motivazione).
È evidente che si tratti, in simili casi, di un accertamento di fatto che dipende dalle singole situazioni processuali, dalle emergenze istruttorie e dalle difese delle parti: posto che anche l’espletamento di funzioni apicali ben potrebbe, ipoteticamente, non esser decisivo in determinati contesti societari, e specie in relazione ad imprese di notevoli dimensioni, in cui, come noto, siffatti compiti possono anche esser delegati a dipendenti di vertice. È stato, ad esempio, ritenuto inidoneo all’uopo il con ferimento di una procura speciale per seguire, per conto dell’amministratore di diritto, una verifica fiscale e rispondere in modo congruo ai verificatori (così Sez. 3, n. 41891 del 17/09/2024, Gentile, Rv. 287125-01): sicché è scontato che debba rifuggirsi da semplicistici e insoddisfacenti automatismi.
Ma è, altresì, indubbio che, laddove non si deduca o comunque emerga che possa trattarsi di siffatti peculiari contesti, i detti elementi sintomatici ben possano orientare i giudici di merito nel senso di ritenere il ruolo di amministratore di fatto.
Trattasi, naturalmente, di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione. (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 256534-01): come, per quanto evidenziato, è certamente accaduto nella specie. Invero, i giudici di merito hanno chiarito che i poteri gestori in concreto più volte esercitati dai ricorrenti ne rimarcavano il ruolo di amministratori di fatto, desumibile dall’incasso di somme e dai pagamenti effettuati (COGNOME), dal rapportarsi con i dipendenti o anche solo con i terzi che chiedevano di esserlo, concordando con loro le retribuzioni ed assegnando le relative mansioni (COGNOME), dall’affidamento di incarichi a terzi per svolgere specifiche e rilevanti attività in favore della società , come l’espletamento di pratiche edilizie (COGNOME), dall’occuparsi di rifornire tutto quanto occorrente a ll’impresa (COGNOME), dalla costante presenza durante l’esercizio dell’attività d’impresa (COGNOME e COGNOME), da lla netta distinzione di compiti tra gli stessi, dalle significative parole di uno dei ricorrenti (COGNOME che, nelle richiamate dichiarazioni spontanee, ricorda che COGNOME non fosse stato, in passato, un suo
dipendente, ma fosse stato suo ‘ socio ‘ .
Come detto, sono argomenti esenti da vizi motivazionali, insuscettibili di nuova valutazione in questa sede.
Il sesto motivo di ricorso del COGNOME (insussistenza del dolo di bancarotta fraudolenta documentale in capo a questi) è infondato.
Atteso il pacifico interesse pubblico sotteso all’obbligo di regolare tenuta delle scritture contabili, così da consentire, in sede di procedura fallimentare, la ricostruzione esatta delle vicende inerenti alla società e ai suoi beni, è dovere sia degli amministratori di diritto, sia di quelli di fatto, quello di istituire, laddove manchino, le scritture contabili fino alla cessazione non solo sostanziale, ma anche formale della stessa società, dunque fino alla cancellazione dal registro delle imprese (Sez. 5, n. 20514 del 22/01/2019, Martino, Rv. 275261-01; Sez. 5, n. 15516 del 11/02/2011, Di, Rv. 250086-01).
Ciò comporta, che, una volta correttamente acclarato, per quanto detto, la veste di amministratore di fatto anche in capo al COGNOME, era preciso obbligo giuridico anche suo, oltre che del COGNOME, quello di adoperarsi per la redazione delle scritture, colmando la pluriennale mancanza di esse: tanto sino alla dichiarazione di fallimento (avvenuta il 25/6/2015, dunque ben dopo il periodo di detenzione dedotto sino al 3/10/2014).
È pacifico, poi, che la fattispecie di occultamento, omessa tenuta o distruzione delle scritture contabili richieda il fine di recare pregiudizio ai creditori o di procurare a sé o altri un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Rv. 284304-01, in motivazione; Sez. 5, n. 2900 del 02/10/2018, dep. 2019, Rv. 274630-01). Tale fine può essere desunto anche dalla protrazione nel tempo delle condotte e dall’ingente esposizione debitoria finale (Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Rv. 284304-01; Sez. 5, n. 18320 del 07/11/2019, dep. 2020, Rv. 279179-01; Sez. 5, n. 47762 del 16/12/2022, non massimata).
Nel caso di specie, correttamente la Corte d’appello ha dato conto, assieme al dato oggettivo della mancata consegna delle scritture contabili, dei seguenti elementi, da cui ha tratto la sussistenza del dolo specifico:
-l’esistenza di amministratori di fatto che non si sono palesati spontaneamente;
-l’omessa consegna al curatore, non di alcuni libri contabili, ma della loro totalità, perdurata anni;
-la RAGIONE_SOCIALE era enormemente gravata da debiti, per oltre 4 milioni di euro (passività fiscali poi accertate e iscritte a ruolo a titolo definitivo senza ricorso);
-l’ultimo bilancio depositato, relativo all’anno 2011, esponeva un patrimonio netto sociale di € 256.273 e crediti per € 54.220, cosicché già la società era da ritenersi irrimediabilmente decotta;
-durante la gestione COGNOME e COGNOME, la RAGIONE_SOCIALE non aveva depositato i bilanci di esercizio, non aveva trasmesso alcuna dichiarazione fiscale ed aveva accumulato debiti ulteriori, aggravando lo stato di dissesto già in essere;
-a fronte di tale situazione debitoria, il curatore non rinveniva alcun bene, somme di denaro o altre attività riferibili alla RAGIONE_SOCIALE, e ciò, specie considerando l’assenza di qualsiasi prova della destinazione degli incassi al pagamento dei creditori sociali, rendeva ragionevole la presunzione che i ricavi venissero in tutto o in parte incamerati dagli amministratori.
Tali elementi, in base alla menzionata giurisprudenza, sono stati correttamente ritenuti «sufficienti a provare induttivamente anche il dolo specifico di cui all’ipotesi di cui alla prima parte dell’art. 216 co. 1° n. 2 L. Fall.» (pagine 1617 sentenza d’a ppello).
Anche il settimo motivo del ricorso COGNOME (circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’applicazione della recidiva specifica infraquinquennale) va disatteso.
Sfugge al sindacato di legittimità, se sorretta da motivazione non manifestamente illogica o arbitraria, bensì aderente ai criteri legali, in primis quelli di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., la valutazione sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549-02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269-01; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986-01), che è congruamente motivato con l’assenza di elementi di segno positivo (tanto che non rileva più, ex art. 62bis , comma 3, cod. pen., l’incensuratezza dell’imputato: Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986-01; Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489-01) ovvero sulla base di singole ragioni ostative ritenute preponderanti dal giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità, se non contraddittorie o incongrue, neppure quando non vi sia lo specifico apprezzamento di ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419-01; così pure Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, Rv. 275509-03, in motivazione).
La decisione censurata ha evidenziato, al riguardo, la ‘assoluta carenza delle scritture contabili’, ‘l’ingente esposizione debitoria, l’assenza di attivo societario e chiari segnali di una gestione totalmente indifferente alle esigenze di tutela delle
ragioni dei creditori sociali’ e, pertanto, circostanze che non si prestano ad essere considerate di scarsa gravità: rendendo, così, una motivazione priva di manifesta illogicità o altro vizio motivazionale.
Ed ancora, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, anche l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva rientra nell’esercizio dei poteri discrezionali del giudice del merito, su cui incombe solo l’onere di fornire adeguata motivazione, con particolare riguardo all’apprezzamento dell’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo che giustifichi l’aumento di pena (si vedano Corte Cost. sent. n. 185/2015, nonché, ex plurimis , Sez. 2, n. 50146 del 12/11/2015, COGNOME, Rv. 265684-01).
Orbene, nella specie, la sentenza d’appello ha specificato che ‘tra i precedenti del COGNOME risulta una condanna per bancarotta fraudolenta divenuta definitiva il 20/12/2011′ e che, ‘a parte l’insensibilità dimostrata rispetto alle precedenti condanne, il nuovo episodio delittuoso qui in contestazione esprime in concreto una maggiore colpevolezza e, soprattutto, una maggiore pericolosità sociale degli imputati, data la progressione criminosa insita nell’aver operato illecitamente in veste societaria, nell’assoluta e totale trasgressione dei più elementari doveri di corretta gestione e avvalendosi scaltramente dell’ulteriore schermo costituito da un prestanome’.
Trattasi, anche in questo caso, di motivazione adeguata, priva di manifeste illogicità, come tale incensurabile in Cassazione.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. , alla declaratoria di rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 14/05/2025.