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Amministratore di fatto: la Cassazione conferma condanna

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta a carico di due persone ritenute amministratori di fatto di una società fallita. La sentenza ribadisce che per qualificare un soggetto come amministratore di fatto non rileva la carica formale, ma l’esercizio concreto e continuativo di poteri gestori, come impartire direttive finanziarie, gestire i rapporti con le banche e decidere pagamenti. La Corte ha ritenuto inammissibili i ricorsi, giudicando le censure proposte come un tentativo di rivalutare il merito dei fatti, e ha confermato la validità delle prove raccolte, incluse le dichiarazioni di un coimputato.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di Fatto: Quando la Gestione Occulta Conduce alla Condanna per Bancarotta

Nel diritto societario e penale, la figura dell’amministratore di fatto assume un’importanza cruciale. Si tratta di colui che, pur senza un’investitura formale, agisce come il vero dominus di una società, prendendo decisioni e impartendo ordini. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 33720/2024) ha ribadito un principio fondamentale: la responsabilità penale per i reati fallimentari non si ferma alle cariche ufficiali, ma colpisce chiunque eserciti concretamente il potere gestorio. Analizziamo questo caso, che offre spunti essenziali sulla prevalenza della sostanza sulla forma.

I Fatti del Processo: Una Gestione Societaria Occulta

Il caso riguarda due imputati, condannati in primo e secondo grado per una serie di reati di bancarotta legati al fallimento di una società operante nel settore medicale. Secondo l’accusa, i due, pur figurando formalmente come direttore finanziario e consulente, erano in realtà i coamministratori di fatto della società.

Le condotte contestate erano gravi e articolate:
– Effettuazione di ingenti pagamenti ingiustificati verso una società fornitrice.
– Stipula di un finanziamento a favore di un’altra società, garantito con un immobile di proprietà della società poi fallita.
– Acquisizione di una società rivelatasi una ‘scatola vuota’, in cambio di una somma di denaro ingiustamente conseguita dai soci della società acquisita.
– Distrazione di somme di denaro a favore proprio e di altri soggetti.

In sostanza, gli imputati avrebbero orchestrato operazioni dolose che hanno causato il fallimento dell’azienda.

La Difesa degli Imputati e il Ruolo dell’Amministratore di Fatto

Davanti alla Corte di Cassazione, la difesa ha contestato proprio la qualifica di amministratore di fatto. Secondo i ricorrenti, i giudici di merito non avrebbero indicato elementi sufficienti a dimostrare un ruolo di gestore effettivo, limitandosi a descrivere la loro partecipazione a singole operazioni distrattive. Tale partecipazione, secondo la difesa, al massimo avrebbe potuto configurare un concorso ‘dall’esterno’ (come extraneus) nel reato commesso dagli amministratori di diritto. Inoltre, veniva contestata l’utilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese da un coimputato, ritenute non attendibili.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, confermando integralmente la sentenza di condanna della Corte d’Appello. I giudici hanno ritenuto che le doglianze dei ricorrenti non fossero vizi di legittimità, ma tentativi di ottenere una nuova e non consentita valutazione dei fatti, attività riservata esclusivamente ai giudici di merito.

Le Motivazioni della Sentenza: Oltre la Forma, la Sostanza

Il cuore della decisione risiede nelle motivazioni con cui la Corte ha cristallizzato il concetto di amministratore di fatto. La Cassazione ha sottolineato come i giudici di merito avessero fornito una motivazione precisa e coerente, indicando analiticamente i poteri di gestione concretamente esercitati dagli imputati.

Nello specifico, era emerso che:
L’imputato 1 (direttore finanziario) impartiva direttive sulla gestione amministrativa, contabile e finanziaria, intratteneva direttamente i rapporti con le banche, sceglieva i fornitori da pagare ed emetteva assegni.
L’imputato 2 (consulente) impartiva direttive operative sulla gestione contabile e finanziaria, curava i rapporti con gli istituti di credito e dava disposizioni per il pagamento dei fornitori.

Entrambi, inoltre, concordavano le operazioni societarie e finanziarie più importanti direttamente con un altro socio. Queste attività, secondo la Corte, vanno ben oltre la mera consulenza o l’esecuzione di ordini altrui e configurano un’ingerenza significativa e continuativa nella vita della società, tipica dell’amministratore.

Per quanto riguarda le dichiarazioni del coimputato, la Corte ha osservato che la loro utilizzabilità era legittima, poiché la difesa non aveva mai chiesto di esaminarlo in dibattimento. In ogni caso, la decisione si fondava su un quadro probatorio ampio e variegato, che includeva le testimonianze di numerosi dipendenti e gli accertamenti del curatore fallimentare.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza in commento rafforza un principio cardine del diritto penale societario: ai fini della responsabilità per bancarotta, ciò che conta è chi detiene il potere decisionale effettivo, non chi appare nei registri ufficiali. La qualifica di amministratore di fatto non è un’etichetta astratta, ma il risultato di un’attenta analisi del comportamento concreto di un soggetto all’interno dell’organizzazione aziendale. Chiunque impartisca direttive strategiche, gestisca le finanze e intrattenga rapporti chiave per conto della società, si espone alle medesime responsabilità penali di un amministratore legalmente nominato. Questa pronuncia serve da monito: nascondersi dietro ruoli formali di consulente o dipendente non è sufficiente a schermarsi dalle conseguenze legali quando, nella sostanza, si agisce come il vero ‘capitano’ della nave.

Chi può essere considerato un amministratore di fatto?
Un soggetto che, pur non avendo una nomina formale, si ingerisce in modo significativo e continuativo nella gestione della società, impartendo direttive amministrative, contabili e finanziarie, curando i rapporti con gli istituti di credito e decidendo quali fornitori pagare.

Come viene provato in giudizio il ruolo di amministratore di fatto?
Il ruolo viene provato attraverso elementi concreti che dimostrano l’esercizio di poteri gestori. Nel caso specifico, la prova è derivata dalle dichiarazioni di testimoni (come i dipendenti), dagli accertamenti del curatore fallimentare e da altre risultanze processuali che, nel loro insieme, delineano un quadro di gestione effettiva da parte degli imputati.

È possibile utilizzare in un processo le dichiarazioni accusatorie di un coimputato che non è stato esaminato?
Sì, la sentenza chiarisce che la testimonianza indiretta del curatore fallimentare, che riporta le dichiarazioni ricevute da un coimputato non comparso in dibattimento, è utilizzabile come prova se l’imputato o il suo difensore non hanno chiesto l’esame diretto del coimputato stesso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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