Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4816 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5   Num. 4816  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a GENOVA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 28/09/2022 della CORTE APPELLO di GENOVA visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Genova riformava parzialmente in senso favorevole all’imputato la sentenza con cui il tribunale di Genova, in data 9.2.2021, aveva condanNOME COGNOME NOME alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della curatela fallimentare, costituita parte civile, in relazione ai fatti in rubrica ascrittigli ai capi a) e b) dell’imputazione, in qualità di amministratore di fatto della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita dal tribunale di Genova con sentenza del 26.7.2016, dichiarando non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo b), perché estinto per prescrizione, COGNOME con COGNOME conseguente COGNOME rideterminazione COGNOME dell’entità COGNOME del trattamento sanzioNOMErio, e confermando nel resto la sentenza impugnata.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando, COGNOME in relazione al delitto di COGNOME bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, di cui al capo a): 1) violazione di legge, in punto di attribuzione al COGNOME della qualifica di amministratore di fatto; 2) violazione del disposto degli artt. 63, 512 e 511, co. 4, c.p.p., in ordine all’utilizzazione della denuncia sporta da COGNOME NOME, del cui contenuto è stata data lettura; 3) violazione di legge per avere la corte territoriale qualificato la condotta del COGNOME in termini di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, invece che di bancarotta preferenziale, trascurando di considerare che i beni immobili venduti dalla società fallita a terzi (i box auto ubicati a Genova, in INDIRIZZO) erano di proprietà di altra società della moglie dell’imputato, che a sua volta li aveva ceduti alla “RAGIONE_SOCIALE“, beni sui quali era stata iscritta ipoteca, che veniva cancellata grazie al ricavato della vendita, una parte del quale era stata destinata a tale scopo, mentre la rimanente parte era confluita sul conto corrente estero ricondotto all’imputato e alla di lui moglie, legale rappresentante della società
originariamente dante causa, che risultava creditrice del valore dei cespiti.
 Con requisitoria scritta del 4.10.2023 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Con conclusioni del 20.10.2023 il difensore di fiducia della costituita parte civile, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile o rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del grado.
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Manifestamente infondato appare il primo motivo di ricorso, oltre che generico, in quanto con esso il ricorrente ripropone acriticamente censure già disattese dalla corte territoriale con la cui motivazione sul punto l’imputato non si confronta realmente, censure che, pertanto, devono essere considerate considerare non specifiche ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710).
La corte territoriale, del resto, con motivazione del tutto immune dai denunziati vizi, ha correttamente desunto la qualifica di amministratore di fatto da una serie di specifici indici rivelatori e, in particolare, 1) dal conferimento al COGNOME di una serie di procure speciali che “riguardavano l’intero patrimonio della società, per cui equivalevano a permettergli di disporne liberamente”; 2) “dalla circostanza che le operazioni che hanno portato al fallimento sono state tutte compiute dal COGNOME, con regolare procura, e tutte trasferendo i beni a una società della moglie”, la “RAGIONE_SOCIALE“, senza che a tali atti di disposizione patrimoniale, aventi a oggetto i “box” auto di INDIRIZZO, in Genova, e un immobile in Zerbolo, facesse seguito il pagamento del prezzo da parte dell’acquirente; 3) dall’ulteriore circostanza che a vendere i beni della società fallita acquistati dalla “RAGIONE_SOCIALE“, fu sempre l’imputato, questa volta in veste in veste di procuratore della società acquirente; 4) dal fatto che il ricavato della vendita dei “box”, come
riferito dal curatore, venne direttamente accreditato sul conto corrente acceso dal COGNOME presso un banca croata, in virtù di un bonifico disposto in suo favore dalla moglie.
Ad ulteriore riprova, sul piano logico, dell’effettivo ruolo svolto dal COGNOME, vero artefice dell’intera operazione, la corte territoriale, con motivazione intrinsecamente coerente, ha, inoltre, evidenziato come “l’imputato per una precedente condanna per bancarotta non poteva esercitare uffici direttivi”, per cui “era normale che non risultasse formalmente come titolare”.
Non può non rilevarsi, del resto, come il ragionamento svolto dalla corte territoriale sul punto sia conforme al costante insegnamento di questa Corte, alla luce del quale, ai fini dell’attribuzione della qualifica di amministratore “di fatto” è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta, come nel caso che ci occupa, da congrua e logica motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540).
In particolare, alla giurisprudenza di legittimità non è estranea l’affermazione del principio, secondo cui la prova della qualifica di amministratore di fatto può trarsi anche dal conferimento di una procura generale “ad negotia”, quando questa, per l’epoca del suo conferimento e per il suo oggetto, concernente l’attribuzione di autonomi e ampi poteri, sia sintomatica della esistenza del potere di esercitare attività gestoria in modo non episodico o occasionale ovvero sia seguita dall’attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa (cfr. Sez. 5, n. 2793 del 22/10/2014, Rv. 262630; Sez. 5, n. 4865 del 25/11/2021, Rv. 282775).
Nel caso in esame le singole procure conferite al COGNOME, globalmente considerate, vanno valutate alla stregua di una procura generale, perché hanno consentito all’imputato, come già detto, di operare sull’intero patrimonio della società fallita, non a caso operante nel settore immobiliare, e di disporne liberamente, come in effetti è avvenuto.
6. Generici, se non del tutto non conferenti, appaiono i motivi di ricorso volti a far valere l’inutilizzabilità della querela presentata prima della dichiarazione di fallimento dal COGNOME, successivamente deceduto.
Ciò per la decisiva ragione, ben evidenziata dalla corte territoriale, che l’accertamento della responsabilità del COGNOME prescinde dal contenuto della querela del COGNOME, trovando adeguato fondamento nella relazione del curatore fallimentare AVV_NOTAIO NOME e negli esiti delle indagini di polizia giudiziaria.
Sotto questo profilo va apprezzata l’inammissibilità degli indicati motivi di ricorso sotto un ulteriore aspetto.
Come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, infatti, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (cfr. Cass., Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269218; Cass., Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, Rv. 270303; Cass., Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, Rv. 279829).
A tale onere il ricorrente non ha certo adempiuto.
Per mera completezza espositiva, a contestazione dell’assunto difensivo, va, infine, evidenziato che, come affermato in un condivisibile arresto, in tema di letture dibattimentali, il decesso del querelante integra un’ipotesi di impossibilità di natura oggettiva che consente l’acquisizione della querela ai sensi dell’art. 512, c.p.p., e l’utilizzabilità a fi probatori, senza che ciò determini una violazione dell’art. 6 CEDU
qualora la sentenza di condanna si fondi in modo esclusivo o significativo sulla querela, in quanto la sopravvenuta morte del dichiarante non può essere collegata all’intento di sottrarsi al contraddittorio dibattimentale, purché le dichiarazioni in essa contenute siano fatte oggetto di una valutazione particolarmente accurata (cfr. Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Rv. 265900).
Inammissibile deve ritenersi anche l’ultimo motivo di ricorso, perché meramente reiterativo e versato in fatto.
Il ricorrente, in particolare, non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Cass., Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal menzioNOME ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
La corte territoriale, del resto, attraverso congrua motivazione, ha escluso la configurabilità della bancarotta preferenziale, rilevando che solo con riferimento alla vendita dei “box” di INDIRIZZO il frutto della vendita era stato utilizzato al fine di cancellare le ipoteche su di essi gravanti, per consentirne l’ulteriore vendita a terzi, precisando, altresì, che “solo una piccola parte del ricavato è stato a ciò destiNOME, mentre il resto è stato incassato dal COGNOME“.
Corretta, dunque, appare la qualificazione della condotta in termini di bancarotta fraudolenta, posto che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, integrano il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione tutte le operazioni economiche che, esulando dagli scopi dell’impresa, determinano, senza alcun utile per il patrimonio sociale, un effettivo depauperamento di questo in danno dei creditori, anche attraverso il distacco di beni da detto patrimonio, senza immettervi alcun corrispettivo, come avvenuto nel caso in esame, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 15679 del 05/11/2013, Rv. 262655; Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106).
COGNOME pari COGNOME costate COGNOME risulta COGNOME nella COGNOME giurisprudenza COGNOME di COGNOME legittimità l’insegnamento, secondo cui, in materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita è desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della loro destinazione al soddisfacimento delle esigenze della società (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 19896 del 07/03/2014, Rv. 259848; Sez. 5, n. 6548 del 10/12/2018, Rv. 275499; Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Rv. 279204).
Se ciò è vero, come è vero, risulta affermazione del tutto generica, indimostrata e contraddetta dalle risultanze processuali quella del ricorrente, secondo cui la condotta del COGNOME si sarebbe risolta in un utile economico per la società fallita, apparendo, per converso, l’intera operazione, come ricostruita dai giudici di merito, lesiva degli interessi del ceto creditorio di quest’ultima, attraverso il depauperamento del patrimonio sociale.
8. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000), nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla costituita parte civile nel presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 3500,00, oltre accessori di legge. 
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile nel presente giudizio, che liquida in complessivi euro 3500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 26.10.2023.