Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13613 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13613 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/12/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a FIRENZE il DATA_NASCITA NOME nato a CAGLIARI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 07/03/2023 della CORTE APPELLO di CAGLIARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME
che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Cagliari confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Cagliari, in data 30.6.2021, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato COGNOME NOME e COGNOME NOME, ciascuno alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta documentale e di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione in rubrica loro ascritti, in qualità, rispettivamente, di amministratore unico e di amministratore di fatto della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita dal tribunale di Cagliari il 20.5.2011.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, con un unico atto di impugnazione, con cui lamentano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione: 1) al ruolo di amministratore di fatto contestato al COGNOME; 2) alla mancata dimostrazione della distrazione delle somme di denaro, relative a crediti riscossi dai clienti della società fallita; 3) alla mancata sussistenza della bancarotta fraudolenta documentale in addebito.
Con requisitoria scritta dell’8.11.2023, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO chiede che il ricorso venga accolto, limitatamente ai motivi relativi alla fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione.
Con conclusioni scritte del 27.11.2023, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore degli imputati, nel riportarsi ai motivi di impugnazione, insiste per l’accoglimento dei ricorsi, replicando alla requisitoria scritta del pubblico ministero.
I ricorsi vanno dichiarati inammissibili per le seguenti ragioni.
4.1. Con riferimento alle doglianze volte a contestare il ruolo di amministratore di fatto svolto dal COGNOME, va rilevato che la corte territoriale ha evidenziato, con puntuale argomentazione, come tutti i soggetti escussi a sommarie informazioni testimoniali abbiano dichiarato
che il COGNOME, sin dalla costituzione della società: “gestiva in via esclusiva i rapporti con i clienti e i fornitori, di cui era l’unico referente; ordinava le merci; riceveva i pagamenti; decideva se e come effettuare le compensazioni”, presentandosi “a tutti come il titolare della RAGIONE_SOCIALE“, rilevando, al contempo, l’infondatezza della tesi difensiva, secondo cui tali attività erano state svolte dall’imputato nella qualità di dipendente della società fallita, posto che “il preteso contratto di lavoro non risulta firmato dall’imputato e comunque le attività stesse erano state da lui compiute anche in epoca precedente all’invocata assunzione, risalente, in ipotesi, al 12 gennaio 2009”.
Si tratta di una conclusione assolutamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla luce del quale la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 c.c., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione, anche se “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale.
La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento delriter” di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare.
In conclusione può affermarsi che in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 I. fall. vanno
individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (cfr. Sez. 5, 13.4.2006, n. 19145, rv. 234428; Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Rv. 268273; Sez. 5, n. 27264 del 10/07/2020, Rv. 279497; Sez. 5, n. 7437 del 15/10/2020, Rv. 280550).
Peraltro l’accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto, come nel caso che ci occupa, da motivazione congrua e logica (cfr. Sez. 5, 14.4.2003, n. 22413, rv. 224948; Sez. 1, 12.5.2006, n. 18464, rv. 234254).
A fronte di tale limpido percorso argomentativo, il COGNOME reitera la doglianza già articolata in sede di appello, eccependo che, a differenza di quanto affermato dalla corte territoriale, in sede di impugnazione era già passata in giudicato la sentenza con cui la corte di appello di Cagliari, nell’ambito di un distinto giudizio civile, aveva stabilito che l’imputato non aveva rivestito il ruolo di amministratore di fatto della “RAGIONE_SOCIALE“, sicché, rileva il ricorrente, tutte le attività a lui ascritte interpretate dai giudici di merito come rivelatrici del suo ruolo di cogestione societaria, vanno invece considerate come poste in essere in conformità alla sua effettiva qualifica di lavoratore dipendente della società fallita, come disciplinata dal relativo contratto collettivo nazionale.
Si tratta di un rilievo manifestamente infondato, stante la completa autonomia dei due giudizi in materia civile e in materia penale.
Come è stato chiarito da tempo, infatti, la sentenza civile si limita ad accertare una situazione controversa “iuxta alligata et probata”, ma non sana le eventuali illiceità che ne abbiano condizionato l’esito; ne consegue che l’intangibilità degli effetti del giudicato civile è ancorata all’oggetto specifico della controversia civile, come delimitato dagli ordinari elementi costitutivi (soggetti, “petitum” e “causa petendi”), ma non impedisce, anche in difetto dell’esperimento dell’impugnazione straordinaria della revocazione, che in sede penale si proceda ad
accertamenti di tipo diverso (cfr. Sez. 2, n. 35325 del 16/05/2007, Rv. 237858).
Inoltre, come è stato evidenziato in un condivisibile arresto, il giudicato civile fa stato sulle sole questioni concernenti lo stato di famiglia o di cittadinanza (cfr. Sez. 3, n. 17532 del 31/01/2019, Rv. 275444), sicché nessuna autorità può attribuirsi in sede penale al giudicato civile invocato a sostegno del proprio assunto dal COGNOME, apparendo del tutto irrilevante, pertanto, stabilire quando quest’ultimo abbia iniz!ato il rapporto di lavoro dipendente con la società fallita, che, per le ragioni già esposte, non esclude il ruolo di amministratore di fatto pacificamente svolto dall’imputato.
Nel resto i motivi di ricorso con cui si contesta il contenuto delle dichiarazioni rese dalle persone sentite a sommarie informazioni sul ruolo svolto dal COGNOME, che il ricorrente degrada a mere percezioni valutative, si presentano come censure in punto di fatto, che non sono scrutinabili in questa sede di legittimità, in cui è precluso il percorso argomentativo seguito dal menzionato ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 2:77758; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
4.2. Anche in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di bancarotta fraudolente documentale cd. “generica”, consistente nella tenuta dei libri e delle altre scritture contabili in guisa tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società fallita, i rilievi difensivi incentrati sulla dedotta circostanza che “le inconnpletezze e le irregolarità di alcune registrazioni contabili ha comunque consentito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari” della fallita, come dimostrato dagli esiti della consulenza
tecnica d’ufficio disposta nel giudizio civile e della consulenza tecnica di parte resa nel giudizio penale nell’interesse degli imputati, appaiono inammissibili, perché manifestamente infondati.
Orbene, proprio la necessità di ricorrere agli indicati consulenti costituisce la riprova che la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili era tale da rendere, se non impossibile, quantomeno molto difficoll:osa la ricostruzione del patrimonio e del movimento di affari della società (circostanza rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui si discute: cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21028 del 21/02/2020, Rv. 279346), senza tacere che l’irregolare tenuta della contabilità si può fondatamente evincere già alla luce della mancata contabilizzazione delle somme di denaro oggetto dell’attività distrattiva, di cui si dirà in seguito.
Come affermato, infatti, da un condivisibile arresto di questa Corte, dedicato al tema, non specificamente aggredito dai ricorrenti, dell’elemento GLYPH soggettivo del GLYPH reato di GLYPH bancarotta fraudolenta documentale cd. “generica”, in tema di bancarotta fraudolenta documentale di cui alla seconda ipotesi dell’art. 216, comma 1, n. 2 legge fall., il dolo, generico, può essere desunto, con metodo logicopresuntivo, dall’accertata responsabilità dell’imputato per fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto la condotta di irregolare tenuta dei libri o delle altre scritture contabili, che rappresenta l’evento fenomenico dal cui verificarsi dipende l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato, è di regola funzionale all’occultamento o alla dissimulazione di atti depauperativi del patrimonio sociale (cfr. Sez. 5, n. 33575 del 08/04/2022, Rv. 283659).
Risulta, dunque, del tutto immune da vizi la motivazione con cui la corte di appello ha sottolineato l’incompletezza della contabilità della “RAGIONE_SOCIALE“, in cui il conto cassa presentava importi negativi; vi erano annotazioni incoerenti, come, ad esempio, in ordine ai conferimenti dei soci; non erano stati annotati pagamenti ricevuti per decine di migliaia di euro e spese sostenute per pari importi; non erano stati aggiornati per anni il libro degli inventari e dei cespiti ammortizzabili.
Va, inoltre, sottolineato, per mera completezza espositiva, con riferimento agli atti di cui i ricorrenti lamentano la mancanza di adeguata valutazione da parte della corte territoriale (si tratta delle menzionate consulenze tecniche) e al mancato aggiornamento del libro inventari e bilancio per l’anno 2009, del libro inventari per gli anni 20102011 e del registro dei cespiti ammortizzabili per gli anni 2010-2011, che i rilievi dei ricorrenti, da un lato, sono parziali e di natura meramente fattuale, dall’altro, incorrono nella violazione del principio della cd. “autosufficienza del ricorso”, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca vizi di motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga, come nel caso in esame, la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Rv. 256723; Cass., Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Rv. 270071). Siffatta interpretazione va mantenuta ferma, come chiarito da alcuni recenti arresti, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 165 bis, co. 2, d.lgs 28 luglio 1989, n. 271, inserito dall’art. 7, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, dovendosi ribadire l’onere di puntuale indicazione ed allegazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419; Cass., Sez. 2, n. 35164 del 08/05/20:1.9, Rv. 276432).
4.3. Inammissibili appaiono anche i motivi di ricorso relativi alla ritenuta condotta distrattiva, avente a oggetto versamenti in denaro operati da una serie di clienti della società fallita, che, tuttavia, non erano stati annotati nelle scritture contabili, senza che fosse stato possibile verificare se le suddette somme, entrate nel patrimonio della “RAGIONE_SOCIALE” come ricostruito dalle indagini svolte dal curatore fallimentare e dalla Guardia di Finanza, fossero state destinate a soddisfare esigenze legate all’oggetto sociale, circostanza correttamente posta dai giudici di merito a fondamento dell’affermazione di responsabilità degli imputati (:fr., ex
plurimis, Sez. 5, n. 37109 del 23/06/2022, Rv. 283582; Sez 5, n. 32740 del 09/07/2014, Rv. 261654).
I ricorrenti contestano la motivazione della corte territoriale, affermando che, sulla base della documentazione in atti e del contenuto della consulenza tecnica di parte, elementi non adeguatamente valutati dalla corte di appello, emergerebbe la destinazione delle somme di denaro incassate ai fini sociali, come, ad esempio, il pagamento degli emolumenti in favore dei dipendenti.
Si tratta, tuttavia, di rilievi inammissibili, in quanto volti a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze processuali, come si è già detto non consentita in questa sede di legittimità, e, comunque, relativi ad atti che, in violazione del principio della cd. “autosufficienza”, di cui si è del pari già parlato nelle pagine precedenti, non sono stati allegati ai ricorsi. Non può, infine, non rilevarsi l’evidente errore di diritto in cui sono incorsi i ricorrenti nell’affermare, nella parte dell’atto di impugnazione dedicata all’esame della norma incriminatrice di cui all’art. 216, I.fall., che la condotta distrattiva contestata “consiste nell’escludere danaro dal proprio patrimonio, allo scopo di creare pregiudizio ai creditori”, richiedendo il dolo specifico, vale a dire “la coscienza e la volontà di commettere il delitto con l’intenzione di cagionare una danno alla massa creditizia”.
Si tratta di una tesi, in punto di diritto, manifestamente infondata, costituendo ormai “diritto vivente” nella giurisprudenza della Corte di Cassazione i principi secondo cui, da un lato, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte; dall’altro, il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo e non è dunque necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini della
eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 legge fallimentare (cfr., ex plurimus, Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Rv. 266805; Sez. 5, n. 3229 del 14/12/2012, Rv. 253933).
5. Un’ultima riflessione va fatta in ordine al trattamento sanzionatorio, perché la difesa, sia pure nell’ambito del motivo di ricorso volto a contestare la qualifica di amministratore di fatto del COGNOME, inserisce rilievi del tutto sganciati dal tema proposto, contestando la decisione della corte territoriale di non riconoscere in favore della COGNOME, un trattamento sanzionatorio più favorevole, né la sospensione condizionale della pena inflitta, di cui l’imputata sarebbe meritevole, non risultando a suo carico alcun precedente penale, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello.
Si tratta anche in questo caso di censure inammissibili, in quanto genericamente finalizzate a sollecitare una diversa valutazione in punto di trattamento sanzionatorio, in quanto la corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione sul punto, non solo i precedenti penali degli imputati, ma anche la “complessiva gravità del fatto”, senza tacere che, come si evince dal certificato del casellario giudiziale in atti, a carico della COGNOME risultano due precedenti penali per omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, sia pure per fatti risalenti nel tempo.
Infine, poiché compete al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di verificare, alla stregua dei criteri previsti dalla norma sostanziale, se la sospensione condizionale possa o meno essere concessa, l’impossibilità di formulare un giudizio favorevole sulla prognosi che l’imputato si asterrà per l’avvenire dal commettere ulteriori reati, può ben formare oggetto di una motivazione implicita, quando risulta evidente che tale prognosi sia smentita, come nel caso in esame, proprio dal giudizio negativo formulato dal giudice sulla capacità a delinquere dell’imputa, desunta dai precedenti penali e dalla gravità del reato.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende,
tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 6.12.2023.