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Amministratore di diritto: la responsabilità penale

La Corte di Cassazione ha esaminato il caso di un’amministratrice di una società, condannata per bancarotta fraudolenta, che sosteneva di essere una mera prestanome del marito, effettivo gestore. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per carenze procedurali, ribadendo che l’amministratore di diritto è responsabile se, accettando la carica, ha la generica consapevolezza delle condotte illecite poste in essere dall’amministratore di fatto. Tuttavia, la Corte ha annullato la sentenza limitatamente alle pene accessorie, rinviando il caso al giudice di merito per rideterminarne la durata, in seguito a una pronuncia della Corte Costituzionale.

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Pubblicato il 29 luglio 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Amministratore di diritto e bancarotta: la responsabilità del prestanome

Accettare il ruolo di amministratore di diritto per una società, agendo di fatto come un semplice “prestanome”, non esonera dalla responsabilità penale in caso di bancarotta. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza n. 52121 del 2019. In questo articolo, analizzeremo una decisione che, pur dichiarando inammissibile il ricorso principale, offre spunti cruciali sulla figura dell’amministratore formale e sulla corretta applicazione delle pene accessorie.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un’amministratrice e socia accomandataria di una s.a.s., dichiarata fallita e condannata in primo e secondo grado per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. La difesa dell’imputata si basava su un punto centrale: ella era solo un’amministratrice formale, una prestanome. La gestione effettiva della società era interamente nelle mani del marito, nel frattempo deceduto.

Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello aveva errato nel confermare la condanna, basando la sua colpevolezza sul mero legame coniugale con l’amministratore di fatto. L’imputata sosteneva di non avere alcuna consapevolezza delle attività illecite, adducendo di non conoscere la lingua italiana, di non comprendere gli atti che le venivano sottoposti e che il suo ruolo si limitava a mansioni marginali come “portare il caffè”.

La Posizione della Cassazione sull’Amministratore di Diritto

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo di ricorso inammissibile. La doglianza della difesa, pur toccando il tema cruciale della consapevolezza, è stata giudicata generica e carente del requisito di “autosufficienza”. In pratica, la ricorrente ha fatto riferimento a presunte prove emerse nel dibattimento (come la sua ignoranza della lingua o il suo ruolo passivo) senza però trascriverle nel ricorso, né indicare la loro esatta collocazione nel fascicolo processuale. Questo ha impedito alla Cassazione di valutare la fondatezza delle censure, non potendo la Corte intraprendere una ricerca autonoma degli atti.

La Responsabilità Penale del Prestanome

Nonostante l’inammissibilità, la Corte ha colto l’occasione per ribadire un principio consolidato in giurisprudenza. L’amministratore di diritto risponde dei reati commessi dall’amministratore di fatto in base all’articolo 40, comma 2, del codice penale, ovvero per non aver impedito un evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire.

Per affermare tale responsabilità, non è necessaria la prova di un dolo specifico. È sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la “generica consapevolezza” delle condotte poste in essere dall’amministratore effettivo (dolo generico) o, in alternativa, la semplice accettazione del rischio che tali condotte illecite possano verificarsi (dolo eventuale). Chi accetta di fare da prestanome si assume la responsabilità penale derivante dalla sua condotta omissiva, ovvero il non aver vigilato sulla gestione societaria.

L’Annullamento sulle Pene Accessorie

Il punto più innovativo della sentenza risiede in un’altra questione, rilevata d’ufficio dalla Corte. La condanna includeva le pene accessorie previste dall’art. 216 della legge fallimentare, applicate nella durata fissa di dieci anni. Tuttavia, la Corte ha ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 222 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità di questo automatismo.

La Consulta ha stabilito che la durata delle pene accessorie non può essere fissa, ma deve essere determinata dal giudice in concreto, valutando la gravità del fatto e la colpevolezza del reo, secondo i criteri generali dell’art. 133 del codice penale.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si snodano su due binari paralleli. Da un lato, la motivazione per l’inammissibilità del ricorso si fonda su un rigoroso rispetto delle regole procedurali. Il principio di autosufficienza è un cardine del giudizio di legittimità e la sua violazione impedisce alla Corte di entrare nel merito delle questioni di fatto. La Corte non può sostituirsi al ricorrente nella ricerca delle prove a sostegno delle sue tesi. Dall’altro lato, la motivazione per l’annullamento parziale della sentenza si basa su una questione di pura legalità sopravvenuta. L’intervento della Corte Costituzionale ha reso illegale una sanzione (la pena accessoria fissa di 10 anni) che era legale al momento della decisione d’appello. La Cassazione, come custode della legge, ha l’obbligo di rilevare d’ufficio tale illegalità e di porvi rimedio.

Le Conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, ma solo limitatamente alla durata delle pene accessorie, rinviando il caso alla Corte d’Appello di Perugia per una nuova valutazione su questo specifico punto. Per il resto, il ricorso è stato dichiarato inammissibile. La pronuncia offre due insegnamenti fondamentali: in primo luogo, conferma che la posizione di amministratore di diritto comporta doveri di vigilanza e controllo la cui omissione può portare a una condanna per bancarotta, essendo sufficiente la consapevolezza del rischio delle altrui attività illecite. In secondo luogo, recepisce un importante principio di civiltà giuridica, stabilendo che anche le pene accessorie devono essere proporzionate e individualizzate dal giudice, abbandonando ogni automatismo sanzionatorio.

L’amministratore di diritto che agisce come “prestanome” è responsabile per i reati di bancarotta commessi dall’amministratore di fatto?
Sì, secondo la sentenza l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non aver impedito l’evento illecito che aveva l’obbligo giuridico di impedire.

Cosa è sufficiente per affermare la colpevolezza dell’amministratore di diritto?
È sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza delle condotte illecite dell’amministratore di fatto (dolo generico) o anche solo l’accettazione del rischio che tali eventi possano verificarsi (dolo eventuale).

Le pene accessorie per il reato di bancarotta hanno una durata fissa?
No. La Corte, richiamando una sentenza della Corte Costituzionale, ha stabilito che l’applicazione di una pena accessoria nella durata fissa di dieci anni è illegale. La durata deve essere determinata dal giudice caso per caso, in base alla gravità del reato e ai criteri dell’art. 133 del codice penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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