Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 30627 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 30627 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/06/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a TORINO il 21/04/1969 COGNOME NOME nato a CUTRO il 29/03/1954 NEMESH VOLODYMYR nato il 20/07/1989 COGNOME NOME nato a CROTONE il 19/02/1978 COGNOME NOME nato a BOTRICELLO il 13/05/1972
NOME nato a TORINO il 14/01/1978
NOME COGNOME nato a CUTRO il 05/11/1968
COGNOME NOME nato a CATANZARO il 28/06/1985
avverso la sentenza del 02/07/2024 della CORTE APPELLO di CATANZARO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo:
l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di COGNOME con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di CATANZARO;
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di COGNOME
limitatamente all’aumento operato per l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. c.p contestata al capo 11), di mesi due di reclusione, da eliminarsi, con rideterminazione della pena in anni 20 e mesi 1, ridotta per il rito ad anni 13, mesi 5 e giorni 10 reclusione e il rigetto del ricorso nel resto;
il rigetto dei ricorsi di COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME E NOME COGNOME;
la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di COGNOME e COGNOME
uditi i difensori:
avv.ti COGNOME COGNOME COGNOME COGNOME e COGNOME che hanno concluso, per i rispettivi assistiti, chiedendo l’accoglimento dei ricorsi;
avv. COGNOME che ha concluso, riportandosi ai motivi di ricorso nella qualità di delegato dell’Avv. COGNOME chiedendo l’accoglimento del ricorso con riferimento ai propri assistiti.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa il 23 dicembre 2022, in esito a rito abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, per quel che qui rileva, dichiarava:
NOME COGNOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 1) e 2), unificati dal vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di 3 anni, 6 mesi di reclusione e 3.000,00 euro di multa;
NOME COGNOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 3), 11), 19), 20, 21) e 22), unificati dal vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di 11 anni, 4 mesi di reclusione e 10.000,00 euro di multa;
NOME COGNOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 4), 5), 8), 9), 10), 11) e 19), unificati dal vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di 14 anni di reclusione;
NOME COGNOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 13) e 14), unificati dal vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di 7 anni di reclusione e 2.000,00 euro di multa;
NOME COGNOME colpevole del reato ascrittogli al capo 15) e lo condannava alla pena di 3 anni, 8 mesi di reclusione e 2.000,00 euro di multa;
NOME COGNOME colpevole dei reati ascrittigli ai capi 16) e 17), unificati dal vincolo della continuazione, e lo condannava alla pena di 7 anni di reclusione e 2.000,00 euro di multa;
NOME COGNOME colpevole del reato ascrittogli al capo 18) e lo condannava alla pena di 3 anni, 8 mesi di reclusione e 2.000,00 euro di multa.
Il G.i.p. assolveva NOME COGNOME dal reato associativo ascrittogli al capo 19) per non aver commesso il fatto.
Sulla base delle evidenze acquisite, costituite da intercettazione di conversazioni telefoniche e ambientali, dichiarazioni di collaboratori di giustizia e risultanze di pregressi procedimenti penali, il primo Giudice riteneva raggiunta la prova della esistenza e operatività di un’organizzazione criminale di stampo ‘ndranghetistico denominata locale di San Leonardo di Cutro, composta da diverse ‘ndrine che mantenevano la loro autonomia.
La sentenza di primo grado ricostruiva, in particolare, l’attività di indagine compiuta, corroborata dalle risultanze investigative acquisite in diversi procedimenti di competenza della D.D.A. Tale attività si poneva in una sorta di sovrapposizione e ideale prosecuzione delle investigazioni effettuate nell’ambito del procedimento n. 5065/17 R.G.N.R. D.D.A., noto come operazione “Malapianta/Infectio”, che aveva permesso di ricostruire l’esistenza e l’operatività, all’interno della predetta locale, dell’articolazione dei COGNOME, nella quale erano
coinvolti, secondo l’impostazione accusatoria e per quanto qui rileva, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
L’organizzazione, caratterizzata dalla operatività di più persone con distinzione di ruoli e avvantaggiata della carica intimidatoria già acclarata in precedenti procedimenti penali in capo ai suoi vertici, poteva giovarsi dell’esistenza di una cassa comune, utilizzata anche per il sostentamento dei carcerati e delle loro famiglie e alimentata dai proventi di reati di diversa tipologia (usura estorsione, traffico di stupefacenti).
Con sentenza del 2 luglio 2024, impugnata dal P.M. per le posizioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME e da 14 imputati, la Corte di appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia del G.i.p. di Catanzaro:
assolveva NOME COGNOME dal reato ascrittogli al capo 17) perché il fatto non sussiste;
dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in ordine ai reati ascrittigli ai capi 3) e 20) per difetto della condizion procedibilità;
dichiarava NOME COGNOME colpevole del reato ascrittogli al capo 19) e lo condannava alla pena di 8 anni di reclusione;
riduceva la pena inflitta a NOME COGNOME per il residuo reato di cui al capo 16) a 4 anni, 5 mesi, 10 giorni di reclusione e 7.555,00 euro di multa;
esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., contestata ai capi 5), 9) e 10), rideterminava la pena inflitta a NOME COGNOME in 13 anni e 6 mesi di reclusione;
esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., contestata al capo 21), rideterminava la pena inflitta a NOME COGNOME in 9 anni, 6 mesi e 15 giorni di reclusione.
Seguivano le statuizioni su pene accessorie e misure di sicurezza, nonché in materia civile.
2.1. Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e COGNOME
NOME COGNOME ha presentato due atti difensivi, l’uno a firma dell’avv. NOME COGNOME l’altro a firma dell’avv. NOME COGNOME
3.1. Con il primo motivo, comune a entrambi gli atti, si contesta vizio di motivazione, anche per travisamento, in relazione alla ritenuta sussistenza della
circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen. contestata al ca della rubrica (usura aggravata in danno di NOME COGNOME).
La Corte di merito aveva attribuito peculiare rilievo, a dimostrazione della ravvisabilità dell’aggravante nella declinazione del metodo mafioso, a una conversazione, intercorsa il 14 settembre 2019 fra l’imputato e la persona offesa COGNOME durante la quale il COGNOME, nell’insistere nella richiesta di restituzione di quanto pattuito, fece presente al suo interlocutore di avere “i cristiani addosso”, espressione interpretata dai giudici territoriali come evocativa della cointeressenza di altri soggetti finanziatori del prestito, cui il CURCIO avrebbe dovuto dare conto e che appartenevano a contesti associativi.
Secondo la difesa, qualora il ricorrente avesse effettivamente avuto “i cristiani addosso”, avrebbe ulteriormente insistito per poter ottenere dallo SCALESE l’adempimento del debito; per contro, la constatazione della estrema stringatezza della espressione utilizzata, l’assenza di commenti e/o rilievi da parte della persona offesa e il consensuale differimento per la soluzione del pagamento degli interessi fornivano alla espressione utilizzata dal CURCIO il significato di una mera sollecitazione rivolta allo SCALESE a far fronte agli impegni assunti.
L’assunto della Corte distrettuale, inoltre, si scontrava con l’accertata circostanza per cui lo SCALESE alla erogazione degli interessi provvedeva anche assicurando al CURCIO e ai familiari la fruizione di servizi della sua agenzia di viaggi. Ad avviso della difesa, se l’imputato fosse stato tenuto a dar conto a terzi finanziatori del prestito, certamente non avrebbe potuto utilizzare i servizi dell’agenzia “scaricando” il relativo costo sugli interessi da percepire, atteso che, invece, avrebbe dovuto procedere all’incameramento del relativo ammontare e metterlo a disposizione dei finanziatori medesimi.
Prestava il fianco a censure anche la valorizzazione dell’uso del pronome personale plurale “noi” (“sai noi come siamo combinati”; “e con tutti i nostri problemi”), come evocativo di un clan di ‘ndrangheta, emerso nella conversazione del 14 ottobre 2019, intercorsa, anch’essa, tra imputato e persona offesa.
La Corte avrebbe errato nell’estrapolare tali espressioni dal testo integrale della conversazione, che restituiva contestuali espressioni nelle quali vi era diretto, personale e unico riferimento al CURCIO.
D’altra parte, anche nelle conversazioni successive a quella del 14 ottobre l’imputato si poneva, nella rappresentata difficoltà dello COGNOME a far fronte ai suoi impegni finanziari, come colui che, in via diretta e senza interferenze di altri, gestiva il prestito usurario.
Né l’uso del plurale poteva evocare, con il conseguente timore e assoggettamento della persona offesa, la vicinanza del COGNOME al clan COGNOME, atteso che lo COGNOME aveva piena contezza delle vicende legate a quella famiglia,
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sicché le espressioni utilizzate dal ricorrente nulla potevano avere aggiunto alla conoscenza dell’imprenditore.
Tali dialoghi, seppure connotati da singole e sporadiche “sfumature” larvatamente riferibili ai TRAPASSO, non fornirebbero, in ogni caso, la dimostrazione, da un lato, della provenienza del finanziamento da terzi e, dall’altro, che per il recupero del prestito e degli interessi il CURCIO avesse tenuto un comportamento valutabile nella direzione della sussistenza della circostanza aggravante in questione.
3.2. Nell’atto a firma dell’avv. COGNOME oltre a eccepirsi la carenza di qualsivoglia riscontro circa la contiguità del CURCIO al clan COGNOME, la mancata valutazione della biografia criminale dell’imputato, mai condannato per reato associativo mafioso o per reati con aggravante mafiosa, il mancato apprezzamento dell’inesistenza, nel caso concreto, di un effettivo utilizzo del metodo mafioso, si evidenzia come la Corte di merito non abbia tenuto presente l’esistenza, in favore del CURCIO, di un giudicato cautelare, avendo la Corte di cassazione, nella sentenza n. 142/2022, escluso la sussistenza dell’aggravante in discussione.
3.3. Il vizio di motivazione si contesta anche in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche (secondo motivo dei due atti difensivi).
Si rimprovera alla Corte di appello di non aver adeguatamente apprezzato l’incensuratezza dell’imputato e la sua confessione, posto che, a fronte del carattere ondivago delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, solo grazie al contributo fornito dal CURCIO era stato possibile stabilire l’esatta richiesta usuraria e l’esatto ammontare degli interessi.
3.4. Con il terzo motivo di ricorso articolato nell’atto a firma dell’avv. COGNOME infine, si deduce vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale indicato le ragioni effettive per le quali si era sensibilmente discostata, nell determinazione della pena-base, dal minimo edittale.
Il ricorso di NOME COGNOME si fonda su due motivi.
4.1. Con il primo, si lamenta l’omessa risposta a specifici motivi di gravame dedotti in relazione al reato di estorsione di cui al capo 14) della rubrica (estorsione aggravata in danno di NOME COGNOME).
Secondo la difesa del ricorrente, i richiami operati nella sentenza impugnata al contenuto di intercettazioni o alla pressione esercitata dall’imputato sulla persona offesa finalizzata a prospettarle la possibilità di farsi aiutare dai familia ovvero, ancora, alla offerta di intervenire personalmente presso i suoi genitori, sarebbero tutte circostanze inerenti al fatto di usura e non a quello di estorsione.
Ad analoghe conclusioni doveva pervenirsi quanto ai cosiddetti “inseguimenti” della persona offesa effettuati da COGNOME
L’assenza di prova del fatto estorsivo, attraverso il richiamo alla c.d. estorsione “ambientale”, sarebbe stata colmata dai giudici del gravame utilizzando l’elemento congetturale costituito dall’asserita appartenenza del ricorrente ad un contesto di ‘ndrangheta.
L’ambiguità della motivazione sarebbe resa palese dalla impossibilità di comprendere se la condotta estorsiva si identificava con quella “esplicita” tenuta nell’incontro al bar del 17 luglio 2019 ovvero con quella “implicita/ambientale” desumibile dall’essere nota allo COGNOME l’appartenenza del ricorrente all’associazione mafiosa.
Quanto all’episodio delle minacce esplicite, la Corte di appello non avrebbe fornito risposta ai motivi di gravame con i quali la difesa aveva criticato l’attendibilità della persona offesa – la quale si era detta minacciata dall’aver fatt il COGNOME riferimento alla sua pregressa esperienza carceraria – in quanto smentita dal carattere cordiale del rapporto tra i due emerso dai dialoghi captati successivamente all’incontro al bar.
Anche nella parte della motivazione relativa alle pagine da 59 a 63 veniva fatto riferimento a circostanze tutte comprovanti il reato di usura.
4.2. Con il secondo motivo, si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., contestata ai capi 13) (usura) e 14) (estorsione).
Nell’atto di appello, la difesa, fra l’altro, aveva sostenuto l’estensibilità principi affermati dalla Suprema Corte nella vicenda cautelare concernente l’imputato COGNOME tenuto conto del territorio quale contesto in cui era stata esercitata la pressione ambientale delle organizzazioni criminali e della riconducibilità dell’effetto intimidatorio tipico della condotta aggravata all caratura criminale del soggetto agente, argomenti che erano stati cassati dalla Corte di legittimità.
Il difensore, dopo aver incorporato nel ricorso il motivo di gravame sulla circostanza aggravante in questione (da pag. 14 a pag. 20), lamenta la mancata esaustività della risposta fornita dalla Corte di appello alle pagg. 63 e ss., da considerarsi alla stregua di una motivazione apparente e travisante.
Non era dato comprendere da quali dialoghi la Corte suddetta avrebbe ritenuto provata la circostanza, né a quale delle due declinazioni essa avrebbe reputato di ricondurla.
D’altro canto, nella vicenda cautelare del COGNOME, la Suprema Corte aveva chiarito come fossero prive di valenza l’opinione e la convinzione della persona offesa circa l’appartenenza mafiosa di un soggetto, così come detta appartenenza non avrebbe potuta essere desunta unicamente dalle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia.
Sarebbe stato, poi, travisato dalla Corte di merito il dialogo riportato a pag. 61 della impugnata sentenza, laddove il COGNOME aveva fatto riferimento a impegni assunti “con altri”, senza individuare chi questi “altri” fossero, frase cui l’estensore aveva aggiunto, a pag. 63, elementi dal carattere meramente presuntivo (il riferimento al contesto territoriale a agli esiti di altri procedime penali), non idonei, pertanto, a riempire un effettivo vuoto motivazionale.
Il ricorso di NOME COGNOME critica la sentenza impugnata, sotto il profilo del vizio di motivazione (primo motivo) e della violazione di legge (secondo motivo), in riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si addebita alla Corte di appello di non aver tenuto in adeguata considerazione, ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti, l’assoluta estraneità del NEMESH al contesto associativo investigato, la sua condotta processuale collaborativa e la sua incensuratezza.
Sul punto doveva contestarsi la contraria affermazione contenuta in sentenza, posto che il ricorrente, pur essendo stato imputato del reato di guida in stato di ebbrezza, aveva beneficiato dell’estinzione del reato per aver svolto, positivamente, i lavori di pubblica utilità di cui all’art. 186, comma 9-bis, cod. strada.
La Corte di merito sarebbe incorsa in errore, non solo per non aver valutato gli elementi di segno positivo evidenziati dalla difesa, ma anche per aver fondato il diniego delle attenuanti richieste esclusivamente sulla gravità del fatto e per non aver applicato la regula iuris enunciata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 42414 del 29 aprile 2021.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato ad un unico motivo, con cui si denuncia la mancanza ovvero l’apparenza della motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., contestata al capo 18) della rubrica.
A fronte della contestazione dell’aggravante nella sua duplice declinazione, la Corte di merito non avrebbe, in primo luogo, speso alcuna motivazione con riguardo al profilo agevolativo.
Quanto al profilo del metodo, nel fare riferimento a tale COGNOME per il quale COGNOME avrebbe operato, la persona offesa COGNOME aveva richiamato la sua attività lavorativa, lecita, di produzione di formaggi e di allevamento di ovini, sicché non era dato comprendere da quali elementi la Corte di appello avesse potuto desumere che il COGNOME fosse il titolare del prestito usurario e, soprattutto, che operasse in qualità di appartenente a un sodalizio criminoso.
Con riguardo a tale obiezione difensiva, la Corte di merito aveva risposto richiamando i rapporti di parentela tra il ricorrente e la nipote del boss COGNOME e quelli di frequentazione con soggetti ritenuti vicini alla cosca, tra i quali, appunto NOME COGNOME
Tale risposta viene censurata, nel ricorso, dalla difesa, in quanto, con essa, la Corte di appello dimostrava di aver stabilito una sorta di inaccettabile automatismo tra l’esistenza di legami tra il ricorrente e soggetti gravitanti in ambienti non del tutto leciti e la titolarità, in capo a costoro, del prestito usurar e, soprattutto, di aver affermato che COGNOME ne fosse a conoscenza.
Con riferimento a quest’ultima circostanza, negli atti, in realtà, vi era la prova del contrario.
In una delle conversazioni intercettate (prog. n. 52 del 2019), infatti, COGNOME non solo non sapeva chi avesse erogato il prestito, ma dichiarava di non volerlo nemmeno sapere, così palesando un chiaro atteggiamento di distacco da quell’argomento.
Illogico, quindi, doveva considerarsi il passaggio motivazionale di pag. 42 laddove i giudici dell’impugnazione avevano ricollegato a soggetti terzi che COGNOME non conosceva e non voleva conoscere quell’effetto intimidatorio e di soggezione che presupponeva, viceversa, una conoscenza reale ed effettiva di appartenenti a un’organizzazione criminosa, nella specie del tutto insussistente.
Il ricorrente, d’altro canto, nell’interrogatorio del 25 giugno 2021, aveva dichiarato di essersi inventato la circostanza che i soldi darin prestito non fossero suoi solo per paura di non recuperarli.
La stessa persona offesa, nelle s.i.t. del 23 dicembre 2019, aveva escluso di essere intimorita dallo COGNOME
Del tutto sfornite di supporto probatorio, quindi, erano le conclusive affermazioni cui era approdata la Corte di merito (pag. 45), secondo le quali il non contestato legame di amicizia esistente tra imputato e persona offesa non aveva impedito al primo di ricordare larvatamente all’amico che, “se fosse dipeso da lui”, e se avesse avuto la disponibilità, lo avrebbe aiutato (salvo, poi, chiedere anche per lui una ricompensa, cioè un viaggio), atteso che, con tale comportamento, COGNOME non aveva fatto altro che evocare ulteriormente nella mente dell’usurato, al momento della scadenza della rata, la presenza di altri soggetti, certamente meno indulgenti di lui nel caso in cui avesse agito da solo.
7. Il ricorso di NOME COGNOME si fonda su tre motivi.
7.1. Con il primo, si deduce vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod.
pen., contestata al capo 15) della rubrica (usura aggravata in danno di NOME COGNOME).
Le considerazioni spese nella sentenza impugnata secondo le quali l’imputato, nei dialoghi con la persona offesa intercettati, nel fare riferimento ad altri soggetti finanziatori al fine di ottenere il pagamento della rata a titolo interessi, avrebbe evocato e richiamato alla mente della vittima la forza intimidatoria del vincolo associativo da cui conseguiva la condizione di assoggettamento della medesima, sarebbero, ad avviso della difesa, incoerenti con il complessivo tenore delle evidenze captative.
La Corte di merito avrebbe, infatti, trascurato di valutare:
che le espressioni usate dal COGNOME non lasciavano trasparire che i terzi finanziatori fossero appartenenti ad associazioni criminose;
che l’imputato nessuna parola aveva impiegato per evocare, seppure in modo indiretto e implicito, la forza di intimidazione del vincolo associativo.
Decisivo rilievo, al riguardo, ad avviso della difesa, assumeva la conversazione del 22 novembre 2019, nella quale COGNOME riferiva allo COGNOME che i “terzi finanziatori” avrebbero preteso la restituzione del denaro da lui e non dalla persona offesa, a dimostrazione del fatto che alcun tipo di intimidazione e assoggettamento avrebbe potuto suscitare in SCALESE il riferimento di COGNOME a terze persone dalle quali egli avrebbe, a sua volta, ricevuto il denaro dato in prestito a SCALESE.
Tale prospettazione veniva condivisa dalla persona offesa, che, pertanto, non si era mai trovata nella necessità di dover confrontarsi con un soggetto diverso dal COGNOME nella gestione del prestito, neanche allorché, a partire dal mese di settembre 2019, lo SCALESE aveva smesso di versare la rata mensile di interessi. E tanto era emerso, ancora, dalla constatazione che il COGNOME, rappresentando la sua difficile situazione economica, aveva invitato lo SCALESE a incontrare le “terze persone”, invito immediatamente declinato dallo COGNOME, senza che il COGNOME avesse obiettato alcunché o reiterato l’invito o paventando che sarebbero state le “terze persone” a portarsi dalla persona offesa.
Frutto di travisamento, poi, era l’attribuzione al termine “famiglia”, usato dal COGNOME nella conversazione del 22 novembre 2019, del significato di “famiglia di ‘ndrangheta”.
La lettura completa della frase proferita dall’imputato orienterebbe, ad avviso della difesa, verso un significato del tutto diverso da quello fatto proprio dalla Corte di appello, cui si perveniva in base agli inequivoci riferimenti, fat dall’imputato, alla propria “casa” e alla “moglie”, la quale aveva espresso delle lamentele per la visita di certe persone a lei non gradite, nonché alla luce dell’utilizzazione del termine “schifezza”, atto a descrivere la situazione venutasi a
determinare in conseguenza di dette visite, che si poneva come assolutamente improprio ove riferito alla “famiglia di ‘ndrangheta”.
D’altro canto, se, come affermato dalla Corte distrettuale, COGNOME avesse fatto parte della omonima ‘ndrina della locale di San Leonardo di Cutro, non si comprendeva perché egli avrebbe dovuto essere esasperato per le visite di soggetti, invisi alla moglie, che pretendevano la restituzione del denaro.
Quanto alle dichiarazioni di COGNOME di essersi rivolto per il prestito all’imputato perché conosceva la sua appartenenza alla omonima famiglia di ‘ndrangheta, si trattava, a giudizio della difesa, di un dato irrilevante perché generico e sprovvisto di supporto fattuale, né corroborato da alcun atteggiamento posto in essere dal COGNOME, nel momento iniziale del rapporto con la persona offesa, finalizzato a spendere la pretesa appartenenza.
Altrettanto inconsistente era il dato riveniente dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME già svalutate dalla Suprema Corte nell’incidente cautelare concernente NOME COGNOME
Insondabile, infine, il riferimento al “contesto”, valorizzato dalla Corte territoriale in modo totalmente generico.
7.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione con riguardo al diniego delle attenuanti generiche.
Non era munita di adeguata motivazione l’affermazione della Corte di appello a proposito della confessione “di comodo” resa dal ricorrente, il quale, viceversa, aveva reso completa ed ampia ammissione sulla provenienza del denaro e sul contenuto delle conversazioni.
Inoltre, la Corte suddetta avrebbe svalutato lo stato di incensuratezza dell’imputato.
7.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena base per il reato di usura.
La Corte di appello si era discostata dal minimo edittale con richiamo a criteri che esulavano dalla previsione dell’art. 133 cod. pen., basando la propria decisione su elementi, quali l’ammontare del prestito e la ritenuta gravità della condotta, che, tuttavia, rimanevano su un piano di mera enunciazione formale.
7.4. L’avv. COGNOME nell’interesse del ricorrente, ha fatto pervenire “motivi aggiunti”, aventi ad oggetto il tema della circostanza aggravante di cui all’art. 416 -bis.1. cod. pen.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a cinque motivi.
8.1. Con il primo, si deduce violazione del combinato disposto degli artt. 649 e 238-bis cod. proc. pen. alla luce dell’art. 6 CEDU.
Rileva il difensore del ricorrente che la sentenza impugnata ha attribuito rilievo penale, come condotta partecipativa mafiosa, ai contatti e alle frequentazioni intercorsi tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nonostante quest’ultimo sia stato assolto, in via definitiva, dalla contestazione associativa mafiosa per il medesimo periodo temporale nell’ambito del procedimento denominato “Malapianta-Infectio”.
Nell’affermare, a dispetto della pronuncia assolutoria, che NOME COGNOME sia un partecipe, seppure al limitato fine di riconoscere l’esistenza dell’associazione e l’intraneità di altri sodali, la Corte di appello avrebbe violato, ancor prima della presunzione d’innocenza e del giudicato, il principio di non contraddizione.
L’avere il ricorrente “triangolato” due incontri tra NOME COGNOME e NOME e NOME COGNOME non potrebbe, quindi, esplicare alcuna efficacia dimostrativa di una condotta associativa, perché non potrebbe essere in alcun modo rivalutata ed affermata la partecipazione mafiosa del primo (NOME COGNOME).
8.2. Con il secondo motivo si eccepisce illogicità della motivazione in relazione all’affermata esistenza di una cosca denominata “COGNOMERAGIONE_SOCIALECHIEFARI” e alla partecipazione mafiosa di NOME e NOME COGNOME.
Nell’attribuire piena efficacia di prova alle sentenze di condanna rese nei confronti di NOME e NOME COGNOME nel procedimento c.d. “Orthus”, la Corte di appello si sarebbe rifugiata nella pregiudizialità penale che, sciogliendosi dal giudicato assolutorio di NOME COGNOME aveva in precedenza denunciato come insussistente.
Così facendo, la suddetta Corte avrebbe eluso l’onere motivazionale ricavabile dal disposto dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per come espressamente richiamato dall’art. 238-bis, facendo discendere, in via inferenziale, l’esistenza di un fatto ignoto da un documento inidoneo a provarlo, in assenza di riscontri esterni.
Ciò andrebbe ad incidere sulla rilevanza penale della condotta ascritta al ricorrente, consistita nell’aver intrattenuto rapporti con NOME e NOME COGNOME in quanto non avrebbe potuto essere ritenuta la partecipazione mafiosa di questi ultimi.
8.3. Con il terzo motivo, si denuncia l’illogicità della motivazione in relazione alla affermata partecipazione mafiosa di NOME COGNOME e alla ritenuta rilevanza partecipativa dell’incontro con NOME COGNOME
La Corte di appello ha ascritto rilevanza partecipativa, nei confronti del ricorrente, alla circostanza che egli avesse favorito un incontro tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nel corso del quale il secondo avrebbe dovuto ricevere dal primo un proprio assegno, evidentemente privo di copertura, prima che venisse incassato.
La Corte medesima, tuttavia, non ha spiegato in base a quali elementi avrebbe considerato dimostrata l’intraneità mafiosa del TEDESCO.
In altra parte della sentenza (pag. 127) si evidenzia che costui sarebbe “esponente della cosca COGNOME” in quanto fratello di NOME COGNOME, già condannato per “omicidio di mafia” e raggiunto da un provvedimento di prevenzione nel 2018: tali elementi, ad avviso della difesa, sarebbero del tutto insufficienti ad affermare l’intraneità mafiosa di NOME COGNOME.
Si censura, inoltre, come illogica la motivazione laddove la Corte territoriale, a proposito di una causale dell’incontro descritta secondo canoni leciti, pur ammettendo di non poterne ricostruire in modo preciso i motivi, li ha ascritti, comunque, a “questioni riservate di cui non si parlava apertamente per telefono”, così facendo coincidere, arbitrariamente, la “riservatezza” con la “illiceità”.
8.4. Con il quarto motivo, si contesta la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. in relazione all’originaria imputazione di esercizio arbitrario delle proprie ragioni aggravato (capo 20).
A fronte di un’assoluzione riportata in primo grado, la Corte di appello aveva rivalutato, in ottica associativa, la condotta posta in essere dal COGNOME, affermando che la sua presenza attiva al momento dell’incontro fra il COGNOME e NOME COGNOME fosse segno di intraneità nel contesto di una mediazione di un conflitto tra privati nel territorio di operatività del sodalizio.
Così facendo, si sarebbe violato il giudicato assolutorio formatosi sul capo 20).
8.5. Con il quinto ed ultimo motivo, si deduce violazione di legge in relazione all’art. 416-bis cod. pen.
Con riferimento alla costruzione dell’ipotesi di partecipazione mafiosa, il difensore del ricorrente, analizzando le condotte ascritte all’imputato a pag. 144 della sentenza impugnata, osserva che egli:
era presente in auto quando NOME COGNOME recuperò una quota di interessi usurari da tale COGNOME ma non partecipò all’incontro tra i due;
aveva accompagnato COGNOME incaricato di dirimere una controversia tra tale COGNOME e tale COGNOME ma non era neppure sceso dall’auto;
aveva intermediato un incontro tra NOME COGNOME e NOME COGNOME ma non vi aveva partecipato;
aveva partecipato a un incontro tra l’imprenditore NOME COGNOME e tale NOME COGNOME avente natura e finalità lecite;
aveva ricevuto le confidenze di COGNOME del quale era socio in affari leciti, sugli interna corporis dell’associazione.
Si trattava, a giudizio della difesa, di un complesso di comportamenti che, come ritenuto dal primo giudice, non superavano il livello di “contiguità compiacente” e di “fascinazione”.
A riprova di ciò, non erano desumibili, dagli atti, gli indicator dell’appartenenza mafiosa individuati dalla giurisprudenza di legittimità.
COGNOME inoltre, non era riconosciuto come partecipe neppure dagli associati, tanto che NOME COGNOME, collaboratore di giustizia e capo della cosca COGNOME non aveva reso alcuna dichiarazione accusatoria nei suoi confronti.
Assolutamente illogica la risposta fornita dalla Corte di appello sul punto, secondo cui il COGNOME avrebbe avuto rapporti solo con altri affiliati, affermazione, questa, che adombrerebbe, in ipotesi, il concorso del ricorrente in uno o più reati-fine o un concorso esterno nell’associazione mafiosa, ma che non potrebbe mai essere spesa, per la sua illogicità, con riferimento ad una partecipazione associativa.
NOME COGNOME ha proposto due motivi di ricorso (non contestati i capi 21 e 22 afferenti alle armi e alle munizioni).
9.1. Con il primo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al capo 11) (usura aggravata in danno di NOME COGNOME).
Neppure la sentenza di secondo grado avrebbe colmato, secondo la difesa del ricorrente, i vuoti motivazionali inficianti la pronuncia di primo grado e segnalati con il gravame.
COGNOME era stato accusato di usura ai danni di NOME COGNOME per avere presentato a quest’ultimo NOME COGNOME sebbene la persona offesa non avesse mai indicato come suo usuraio il ricorrente e questi non avesse mai ricevuto denaro, né concordato interessi usurari.
I giudici di merito non avrebbero, dunque, adeguatamente chiarito l’effettivo contributo concorsuale apportato dal COGNOME.
La Corte di appello, inoltre, non avrebbe fornito alcuna risposta al motivo di impugnazione relativo alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., con il quale si era dedotto che la finalità agevolativa avrebbe dovuto dimostrare l’individuazione di flussi finanziari verso l’associazione e non verso il singolo, nonché l’esistenza del dolo specifico.
9.2. Con il secondo motivo, si denunciano vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al capo 19) della rubrica (reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.).
Si rimprovera, in primo luogo, alla Corte di appello di aver erroneamente valorizzato, in ottica associativa, la condotta del COGNOME descritta al capo 3), reato
divenuto improcedibile, consistita nell’aver chiesto, insieme a NOME COGNOME a NOME COGNOME informazioni riguardo a quanto riferito da COGNOME medesimo alla p.g. su un precedente attentato perpetrato ai suoi danni.
Si era trattato, infatti, di una condotta posta in essere per la propria convenienza e non certo per agevolare la cosca, rispetto alla quale finalità mancavano elementi esplicativi.
Egualmente irrilevanti, per dimostrare la partecipazione associativa del COGNOME, dovevano ritenersi gli altri incontri evidenziati in sentenza alle pagg. 118 ss., atteso che era sempre l’imputato a muoversi da solo e a spendere unicamente il proprio nome: sul punto, la pronuncia avversata si appalesava carente di motivazione.
Vacuo e generico, poi, doveva reputarsi il contributo dichiarativo del collaboratore NOME COGNOME il quale aveva indicato il COGNOME come incaricato di raccogliere i proventi delle estorsioni per conto di NOME COGNOME e degli COGNOME.
Nel valutare le dichiarazioni del collaborante la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare che l’imputato non era stato raggiunto da alcuna accusa di estorsione.
Ci si duole, ancora, che i giudici del gravame, in violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen., si siano avvalsi, per dimostrare l’esistenza della locale di San Leonardo di Cutro, di sentenze non ancora irrevocabili emesse in diversi procedimenti, come quelle relative alla operazione “RAGIONE_SOCIALE“.
Non adeguatamente affrontato in sentenza era il tema della permanenza dell’associazione, posto con i motivi di gravame, con particolare riferimento ai plurimi arresti scaturiti dalla appena citata operazione.
Nessun elemento a sostegno dell’attualità dell’esistenza di un sodalizio mafioso in San Leonardo di Cutro sarebbe stato addotto dalla Corte di Catanzaro, dovendosi, tra l’altro, tenere presente che NOME COGNOME, nel citato procedimento “Malapianta-Infectio” era stato assolto dalla imputazione associativa e che NOME COGNOME aveva riferito che il cognato (appunto, NOME COGNOME) era “lontano da contatti con la criminalità organizzata”.
Difettava, in particolare, la prova della riorganizzazione dell’associazione oggetto del processo “RAGIONE_SOCIALE“, fiaccata dagli arresti e al cui permanenza era cessata in quel momento; così come mancava l’analisi di risultanze probatorie conducenti verso l’avvenuto svolgimento di rituali di affiliazione, una precisa suddivisione di ruoli, svolti con costanza tale da determinare stabile affidamento del gruppo.
Quanto alla posizione specifica del COGNOME non avrebbe chiarito la Corte territoriale il momento della sua “entrata in scena” in ambito associativo, né avrebbe spiegato quali elementi sarebbero stati apprezzabili quali riscontri
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dell’affermazione del COGNOME a proposito del collegamento del ricorrente con gli ARENA.
Non adeguata era, inoltre, la risposta sulla dedotta carenza di prova sulla forza di intimidazione esercitata dalla presunta cosca.
D’altro canto, la decisione non si sarebbe confrontata con il dato per cui la disponibilità operativa manifestata nei riguardi di singoli esponenti, anche di vertice, del sodalizio mafioso, non costituisce, di per sé, comportamento sufficiente ad integrare la condotta di partecipazione.
Infine, non sarebbe delineata, in sentenza, l’esistenza di una cassa comune, così come non veniva lambito il tema della spartizione degli ingenti profitti che gli imputati avrebbero tratto dalle varie vicende estorsive e usurarie.
Il ricorso di NOME COGNOME è articolato in sette motivi.
10.1. Con il primo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione, anche per travisamento, in relazione al capo 19) della rubrica (art. 416-bis cod. pen.).
Il primo evidente elemento di illogicità inficiante la ricostruzione associativa proposta dalla Corte di appello, quanto alla specifica posizione del ricorrente, risiederebbe nella omessa considerazione dell’assenza, nelle varie vicende associative passate in rassegna (indagini “Kiteryon”, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“), di riferimenti alla figura del ricorrente e alla “famiglia” COGNOME in generale, posto che il narrato di NOME COGNOME quanto alla persona di NOME COGNOME proiettava quella figura in altri e diversi ambiti criminali.
A differenza di quanto affermato in sentenza, neppure dalle parole del collaboratore di giustizia NOME COGNOME poteva trarsi l’indicazione della famiglia COGNOME fra le quattro famiglie menzionate nel verbale del 25 gennaio 2020 a proposito della “riforma” che aveva interessato la locale di San Leonardo di Cutro.
COGNOME in realtà, aveva parlato di NOME COGNOME e non di una ‘ndrina COGNOME, precisando, tra l’altro, che dopo la riforma e l’uccisione di NOME, figlio di NOME, tale famiglia aveva perso importanza tanto da indurre NOME al ritiro.
Non era dato comprendere, pertanto, come la sentenza potesse assumere quale centrale dato probatorio l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta operativa dopo la “riforma” del 2009 e composta anche dalla ‘ndrina COGNOME
Tale erroneo presupposto, assume il difensore del ricorrente, aveva inevitabilmente inficiato la successiva verifica della Corte di merito circa la composizione della locale e la sua operatività dopo gli arresti del 2018.
Presa dalla necessità di circoscrivere, temporalmente, l’operatività del sodalizio in imputazione, la sentenza si sarebbe lasciata condurre dall’idea che
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l’associazione, siccome esistente già prima del 2018, non potesse che comprendere anche gli odierni imputati, incluso il ricorrente.
Paradossalmente, proprio la verifica invocata coi motivi di gravame in ordine al tempo d’inizio della partecipazione associativa di NOME COGNOME diventava un tema inesplorato, con rinuncia della Corte di appello ad occuparsi di quell’elemento che avrebbe consentito, sul piano fattuale e logico, di saggiare la tenuta della conclusione in termini di intraneità del ricorrente.
In altre parole, l’idea errata che NOME COGNOME facesse già parte del sodalizio avrebbe viziato in radice il ragionamento della Corte suddetta, il suo sviluppo e la sua conclusione.
Tale errore avrebbe, tra l’altro, determinato l’illogicità della risposta fornit in sentenza a proposito della lettura del comportamento assunto dal ricorrente successivamente all’arresto di NOME COGNOME e della moglie di costui e alla decisione del COGNOME di collaborare con la giustizia, quando egli, pur essendo NOME COGNOME ancora libero, aveva preso l’iniziativa di “convocare gli appartenenti alla famiglia COGNOME“.
Sulla base dell’erroneo presupposto dell’esistenza di un siffatto gruppo criminale, la Corte di appello aveva spiegato il mancato coinvolgimento del “mafioso” NOME COGNOME libero in quel momento, con la illogica considerazione secondo cui “anche per ragioni anagrafiche” il predetto avrebbe assunto “una posizione partecipativa non di primo piano” e ciò avrebbe contribuito “a spiegare la ragione per la quale, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, fosse stato il più giovane nipote COGNOME NOME a farsi carico dei problemi sorti per il sodalizio in seguito alla scelta collaborativa di COGNOME Dante”.
Nel GLYPH ricorso GLYPH si GLYPH stigmatizza GLYPH la GLYPH palese GLYPH contraddizione, GLYPH rilevabile nell’argomentare della Corte distrettuale, laddove, da un lato, ci si affanna, nonostante l’assoluzione, a dimostrare la mafiosità di NOME COGNOME al fine di caratterizzare in senso mafioso la scena investigata e, dall’altro, se ne fa a meno proprio nel momento in cui massima sarebbe stata la preoccupazione per il sodalizio a causa della scelta collaborativa di NOME COGNOME atteso che NOME COGNOME ne parlò con tutti ad eccezione che con lo zio NOMECOGNOME con il quale avrebbe avuto in comune l’appartenenza mafiosa.
L’errore nelle premesse e l’errore nelle inferenze caratterizzerebbe anche il tentativo di superare l’ostacolo dell’indipendenza “operativa” dei due COGNOME attraverso la valorizzazione dello “stretto rapporto di parentela” in considerazione della “forte base familiare” che accomuna le ‘ndrine.
Nel ricorso, al riguardo, si rileva la profonda contraddizione esistente tra tale affermazione e quanto affermato in sentenza a proposito del mancato interessamento di NOME COGNOME da parte di NOME nel “momento di particolare
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fibrillazione per l’associazione”, susseguente alla già evocata scelta collaborativa di NOME COGNOME
Un’ulteriore censura viene mossa a quel passaggio motivazionale in cui si ravvisa un indizio di mafiosità del ricorrente nell’atteggiamento tenuto nei confronti dei nipoti in seguito alla intrapresa collaborazione con la giustizia del loro genitore.
Secondo la sentenza, se davvero NOME COGNOME non fosse stato un mafioso, avrebbe dovuto manifestare solidarietà ai nipoti per la difficile scelta compiuta dal padre e non avrebbe dovuto, invece, terrorizzarli per impedire che anch’essi si allontanassero da quell’ambiente criminale.
Tale affermazione, a giudizio del difensore del ricorrente, svelerebbe l’illogicità della costruzione associativa, in quanto se la sentenza non si curava di escludere i giudizi di valore dal ragionamento giudiziario non poteva dirsi superato il pericolo di una decisione irrimediabilmente soggettiva.
Il ricorso, poi, insiste nel criticare l’omessa valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME scagionanti lo COGNOME, e di non avere assegnato, nella ponderazione comparativa tra prova diretta (dichiarato di COGNOME) e prova indiretta (coinvolgimento in reati-fine e conversazioni intercettate), prevalenza alla prova diretta; e ciò anche perché i dialoghi intercettati, riportati a pag. 8 della sentenza impugnata, non avrebbero disvelato l’appartenenza del ricorrente al sodalizio del proprio cognato, né dalle informazioni di p.g. sarebbe emersa alcuna sua frequentazione con potenziali sodali o una sua segnalazione come intraneo alla cosca.
Si contesta, in ricorso, l’esistenza di alcun elemento di segno opposto capace di contrastare la netta affermazione di COGNOME a proposito della lontananza del cognato “da contatti con la criminalità organizzata”.
In realtà, assume la difesa, alla base della ritenuta appartenenza associativa di NOME COGNOME vi sarebbe la sola osservazione della condotta tenuta dal ricorrente all’indomani degli arresti dei congiunti. Un’analisi, tuttavia, condotta partendo dall’erroneo presupposto della previa qualità mafiosa dell’imputato e che si sarebbe posta quale limitato obiettivo quello di assicurare la tesi secondo cui (dimenticando NOME COGNOME) la condotta di NOME COGNOME era stata orientata “a tutelare la cosca e garantirne la conservazione mediante la sua riorganizzazione”.
Invocare, poi, la condanna per i reati-fine significava rinunciare a confrontarsi col dato probatorio che, proprio in relazione alla commissione di quei reati, per come dedotto nell’atto di appello, aveva evidenziato l’assenza di qualità mafiosa del ricorrente, come dimostrato dalla esclusione della relativa specifica aggravante in relazione ai capi 5), 9) e 10) della rubrica.
Averla, viceversa, ritenuta per il capo 8) segnava un elemento di palese contraddittorietà rispetto alla sua esclusione per i capi 9) e 10), aventi ad oggetto altri due rapporti illeciti intercorsi con la stessa persona offesa.
Quanto al capo 4), la relativa vicenda si collocava in epoca precedente a quella di operatività della contestata associazione e non poteva essere utilmente richiamata in ottica associativa.
Venendo ai messaggi vocali intrattenuti con COGNOME che definiva COGNOME come “guardiano del tesoro generale e grande capo o boss”, la difesa stigmatizza come illogica e contraddittoria la risposta fornita dalla Corte di Catanzaro ai motivi di gravame.
Si segnala, inoltre, in ricorso che la condizione, descritta dal COGNOME in relazione a COGNOME, di addetto alla raccolta dei proventi delle estorsioni per conto di NOME COGNOME e degli COGNOME, allontanerebbe la figura di COGNOME da quella del ricorrente.
Ancora, si segnala che, al di là dell’affidabilità probatoria, sotto il profil logico, di un dato vocale espresso da soggetti che dovrebbero appartenere al medesimo sodalizio criminale, se si riconosce che NOME COGNOME rispetto a quei messaggi vocali, con tono congruo e scherzoso negava la circostanza, non si comprende logicamente perché il giudice di appello avrebbe affidato il convincimento di responsabilità a quegli stessi dialoghi di cui pure ha riconosciuto il tenore “canzonatorio”.
Da ultimo, rimarca la difesa che le plurime incoerenze palesate dalla sentenza impugnata hanno trovato la loro massima espressione nella parte in cui la Corte di merito nel valutare le dichiarazioni di NOME COGNOME da un lato, le ha ritenute attendibili tanto da utilizzarle per compiere l’intera costruzione associativa e di responsabilità dei singoli imputati e, dall’altro, le ha stimat inattendibili solo quando hanno escluso la mafiosità del ricorrente.
10.2. Con il secondo motivo, si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 416-bis, quarto comma, cod. pen. (aggravante dell’associazione armata).
A fronte di un articolato e specifico motivo di gravame, la Corte distrettuale avrebbe completamente omesso di motivare.
10.3. Con il terzo motivo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo 4) dell’imputazione.
Rispetto alla obiezione difensiva inerente al mancato riscontro delle dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME da parte di quelle rese dal fratello NOME, che, piuttosto, le smentivano, la Corte di appello aveva inteso opporre la propria opinione, invocando, tuttavia, un dato fattuale frutto dell’erroneo convincimento per cui il riferimento fatto da NOME COGNOME alla
“famiglia COGNOME” negli anni ’90 potesse consentire di ricondurre al ricorrente anche la condotta estorsiva contestata al capo 4).
Non si comprendeva, sul piano della verifica dell’affidabilità dichiarativa, come la sentenza potesse considerare neutra l’affermazione del predetto Nicola secondo la quale egli era convinto che, dopo la morte del padre (nel 2007), nessuno avesse proseguito nel pagamento.
In realtà, anche questa decisione di condanna scaturiva dall’erroneo presupposto della qualità di partecipe del ricorrente al sodalizio di cui al capo 19).
10.4. Con il quarto motivo, si eccepiscono violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo 8) dell’imputazione.
Nell’atto di appello, a conferma della bontà del rilievo circa l’eventualità che la vicenda potesse essere ricondotta nell’ambito del rapporto usurario esistente tra i protagonisti, veniva segnalato come quella del capo 8) fosse l’unica ipotesi di estorsione riguardante i rapporti usurari contestati all’imputato e la ragione di tale circostanza era da individuare soltanto nel fatto che questo rapporto fosse l’unico a caratterizzarsi anche per una controprestazione illecita di altri vantaggi usurari, diversi dagli interessi.
Essa, tuttavia, accedeva al rapporto di prestito esistente e rappresentava un vantaggio usurario e non un’imposizione.
A fronte di tali rilievi, la Corte di merito aveva dato una caratterizzazione estorsiva “pura” a quella dazione sganciandola dai rapporti di prestito. Non avendo, peraltro, agganci fattuali cui ancorare la pretesa estorsiva, aveva richiamato il concetto di minaccia “silente”.
Né poteva rassicurare, per dimostrare l’estorsione, il concetto di estorsione “contrattuale”, poiché occorreva affrontare il tema della possibile riconducibilità di quella vicenda al rapporto di prestito, che non trovava, nella stessa ricostruzione offerta dalla sentenza, sicuri e definitivi approdi di quantificazione delle obbligazioni; di conseguenza, appariva alta l’eventualità che quelle dazioni, diverse dagli interessi, costituissero esse stesse parti del rapporto usurario con un sicuro rilievo, se non altro, di contenimento o di ammorbidimento delle pretese vantate dall’agente.
10.5. Con il quinto motivo, si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., nella declinazione del metodo, contestata ai capi 4) e 8) dell’imputazione.
Dopo ampi richiami giurisprudenziali, il ricorso perviene all’approdo per cui la contestazione dell’aggravante in esame richiede un esercizio di fatto di una metodologia mafiosa, non potendosi questa concretizzare mai nelle forme di una
minaccia silente, ritenuta nei confronti del ricorrente in virtù della sua presunta appartenenza mafiosa.
Ed invero, nel particolare caso della minaccia silente verrebbe ad applicarsi la circostanza aggravante prevista dall’art. 628, terzo comma, n. 3), cod. pen., con esclusione della contemporanea applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen.
10.6. Con il sesto motivo, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio della motivazione, si censura la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., nella sua declinazione agevolativa, contestata ai capi 4) e 11) dell’imputazione.
Si rimprovera alla Corte di appello l’incoerenza del percorso argomentativo che aveva portato a escludere l’aggravante de qua in relazione a tre capi d’imputazione, affermandone, pur a fronte dell’identità della condotta dell’agente, la ricorrenza rispetto ad altri capi. Con il risultato di una illogica distinzione per sarebbero aggravate sia dal metodo mafioso che dalla finalità agevolativa soltanto le condotte di cui al capo 4) dell’imputazione, mentre, con riferimento al capo 8), residuerebbe soltanto il metodo mafioso, e, rispetto al capo 11), escluso il metodo, residuerebbe soltanto la finalità dell’agevolazione.
Ricordate, alla luce della giurisprudenza di legittimità, la natura soggettiva e la necessaria sussistenza del dolo specifico, si censura la motivazione per essersi limitata a considerare la pretesa qualità mafiosa dell’agente che, in uno al coinvolgimento del COGNOME, avrebbe consentito di dimostrare la finalità agevolatrice della condotta: una considerazione tanto generica quanto contraddittoria rispetto agli altri fatti usurari per i quali detta finalità non era ravvisata.
10.7. Con il settimo ed ultimo motivo di ricorso, si eccepisce la violazione dell’art. 81, cpv., cod. pen. in ragione dell’erronea applicazione degli aumenti di pena a titolo di continuazione.
In relazione ai reati-satellite, la sentenza avrebbe errato nel considerare, nella determinazione dei singoli aumenti, una quota di aumento riferibile al reato e un’altra riferibile alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen ciò in violazione del principio per cui è solo in riferimento alla violazione più grav che vanno applicate le circostanze che la riguardano, mentre le circostanze inerenti ai reati-satellite restano prive di efficacia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Va dichiarato inammissibile il ricorso di NOME COGNOME circoscritto alla contestazione, sotto il duplice profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge, del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Ormai consolidata è la tradizione di legittimità, secondo cui la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limi atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737 – 01), sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275640 – 01).
Altrettanto costante è l’insegnamento per cui, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed att a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02).
La Corte di merito ha dedicato un’ampia pagina (pag. 16) alla confutazione delle deduzioni difensive e alla conferma del giudizio negativo operato dal G.u.p. di Catanzaro, valutando in modo del tutto logico quali elementi ostativi al riconoscimento del beneficio richiesto: a) la circostanza di essere stato l’imputato l’esecutore materiale di entrambi gli episodi estorsivi commessi, all’interno di una stessa giornata, in danno di due diversi operatori economici, al servizio di NOME COGNOME; b) la chiara matrice mafiosa dei gesti intimidatori; c) la spiccata capacità criminale rivelata dalle modalità violente delle commesse estorsioni, a fronte della quale doveva giudicarsi ininfluente la sua formale estraneità al sodalizio mafioso; d) la strumentalità della confessione resa dal COGNOME, in quanto successiva all’esecuzione della misura cautelare applicata nei suoi confronti, in un momento, cioè, in cui il quadro probatorio a suo carico (chiamata in correità di NOME COGNOME, riscontrata dalle videoriprese) era già “granitico”.
Manifestamente infondati, oltre che reiterativi di censure già adeguatamente confutate in appello, sono i rilievi proposti in ricorso, con cui si stigmatizza la mancata valutazione degli elementi positivi allegati dalla difesa, rifuggendo, tuttavia, dal confronto critico con il robusto ordito motivazionale appena sintetizzato.
Radicalmente infondata in diritto, poi, è l’obiezione difensiva secondo cui la Corte di merito non avrebbe apprezzato la sostanziale “incensuratezza” del NEMESH, che nel ricorso si fonda sulla dichiarata estinzione del reato
contravvenzionale iscritto nel certificato del casellario giudiziale a seguito di esito positivo dei lavori di pubblica utilità ai sensi dell’art. 186, comma 9 -bis, cod. strada.
Il giudice del gravame, sul punto, si è, infatti, esattamente conformato al principio per cui, ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, giudice, alla luce dei criteri di determinazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen., può considerare i precedenti giudiziari, ancorché non definitivi, e, pertanto, a maggior ragione, può tener conto dei reati estinti (Sez. 5, n. 39473 del 13/06/2013, Paderni, Rv. 257200 – 01).
2. Inammissibile è anche il ricorso proposto da NOME COGNOME.
2.1. Manifestamente infondato e aspecifico è il primo motivo di ricorso, afferente alla imputazione di usura aggravata di cui al capo 11), contestata in concorso con NOME COGNOME in danno dell’imprenditore NOME COGNOME.
Diversamente da quanto assunto dalla difesa, la Corte di merito ha chiarito, con motivazione adeguata sul piano logico, in cosa sia consistito il contributo concorsuale fornito dal ricorrente: a) sia dalle prime fasi del patto usurario, avendo COGNOME presentato COGNOME alla persona offesa, affinché il primo gli erogasse il prestito a condizioni usurarie; b) sia nella fase della riscossione, quando la vittima iniziava a essere meno puntuale nei pagamenti, sollecitando lo COGNOME ad agire in modo più pressante (segno di un comune interesse alla riscossione) e lo SCALESE per indurlo a pagare (pag. 117 della sentenza impugnata).
Con tale esaustivo e non illogico corpo motivazionale il ricorrente non si confronta, rendendo aspecifiche, oltre che manifestamente infondate, le sue censure.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi a proposito della contestata carenza di motivazione sull’aggravante mafiosa, nella sua declinazione agevolativa, l’unica ritenuta in sede di merito.
Ed invero, la motivazione sul punto si rinviene a pag. 82 della pronuncia avversata, a proposito dell’esame della posizione di NOME COGNOME come detto, concorrente del COGNOME nel reato di cui al capo 11) della rubrica.
La Corte di Catanzaro ha, in quella parte della decisione, convenientemente ravvisato l’aggravante de qua, considerando che all’epoca dell’insorgere del prestito COGNOME faceva parte della cosca, che al prestito era interessato anche COGNOME e che l’usura costituiva terreno di elezione della locale di San Leonardo di Cutro, sicché, attraverso i prestiti usurari erogati in favore di piccoli imprendito e commercianti, il sodalizio mafioso si infiltrava nel tessuto economico dei piccoli centri uscendone rafforzata.
Con tale adeguata argomentazione il ricorso omette ogni specifico confronto.
2.2. La stessa valutazione va operata con riguardo al secondo motivo di ricorso, inerente alla imputazione associativa di cui al capo 19).
Il giudice dell’appello ha dedicato ben diciassette pagine di motivazione (da pag. 119 a pag. 136) per giustificare l’intraneità ad essa del ricorrente.
Nelle conclusive considerazioni di sintesi (pagg. 135-136), la Corte di appello ha ritenuto integrato l’apporto stabile e continuativo fornito da COGNOME al gruppo criminale sub capo 19):
nelle condotte di ausilio prestate a NOME COGNOME esponente apicale del sodalizio, con riguardo al recupero dei crediti usurari;
nelle risposte alle richieste di persone che a lui si rivolgevano perché a loro nota la sua forza criminale mafiosa, al fine di risolvere contrasti tra privati per recuperare crediti (come nel caso di NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME oggetto del capo 20, improcedibile per mancanza di querela, ma indicativo della veste di COGNOME e della sua forza intimidatrice);
nell’essersi presentato dal soggetto estorto dal collaboratore di giustizia COGNOME per verificare cosa avesse dichiarato, palesando, quindi, la sua disponibilità a perseguire i fini della cosca e dei suoi sodali;
nell’individuare le nuove attività economiche da taglieggiare.
La lettura unitaria degli elementi di prova acquisiti, nella coerente valutazione della Corte di merito, ha lumeggiato, senza incongruenze logiche, un ruolo rilevante interpretato da COGNOME nella compagine di appartenenza, tenuto conto, tra l’altro: a) che egli aveva la possibilità di confrontarsi direttamente co soggetti di comprovata “mafiosità” e sodali della stessa locale di ‘ndrangheta come NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME; b) che egli esercitava il potere mafioso sul territorio come risolutore di conflitti fra terzi, come già accennato; c) che egli poteva rivolgersi ad esponenti di consorterie mafiose operanti in territori limitrofi per questioni che, alla luce della cautela che connotava le conversazioni volte a fissare gli appuntamenti, risultavano legate a interessi illeciti degl appartenenti alle singole associazioni e non potevano essere riconducibili a mere occasioni conviviali.
Nella prospettazione difensiva, connotata, al contrario, da un approccio atomistico, si formulano censure di volta in volta meramente assertive e/o confutative, rivalutative e quasi sempre aliene da uno specifico confronto con i plurimi e variegati elementi di prova, letti dalla Corte territoriale in mod giustamente unitario.
Ciò vale, ad esempio:
per la lettura alternativa opposta dalla difesa a quella fornita dalla Corte di Catanzaro, non manifestamente illogica, sull’apprezzamento in chiave associativa della condotta ascritta a COGNOME al capo 3), oggetto di declaratoria di improcedibilità;
b) per la valutazione degli incontri evidenziati in sentenza alle pag. 119 ss., oggetto di critica genericamente assertiva;
per la valutazione del contributo dichiarativo offerto dal collaboratore NOME COGNOME, anch’essa solo genericamente e assertivamente criticata;
– dl) per le considerazioni sulla esistenza della locale di San Leonardo di Cutro, composta dalle ‘ndrine o famiglie COGNOME e COGNOME, avversate in modo generico e confutativo, e sul momento d’ingresso in essa di COGNOME anch’esso contestato in modo generico a fronte di una imputazione che parla, per tutti gli adepti, di un inizio della condotta partecipativa risalente al 2018, come peraltro confermato dal tempus commissi delicti relativo alla usura aggravata di cui si è detto, coincidente con il gennaio 2018.
Manifestamente infondata, poi, è la censura con cui si rimprovera alla Corte di appello di aver utilizzato, a carico del ricorrente, sentenze non ancora irrevocabili – quali quelle di primo e secondo grado emesse nel procedimento c.d. “RAGIONE_SOCIALE” (operazioni così denominate confluite nell’unico procedimento n. 5965/17 R.G.N.R.) – in violazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen.
A pag. 83 della sentenza impugnata i giudici del gravame sottolineano che, nel presente procedimento, è stata acquisita, nel corso delle indagini, la copia di tutti gli atti del procedimento a quo n. 5065/17 (c.d. “Malapianta-Infectio”), compresi i verbali dell’udienza preliminare, del dibattimento e del giudizio abbreviato, atti che, essendosi proceduto nel giudizio ad quem con rito abbreviato, hanno potuto essere autonomamente valutati al fine di ricostruire, a prescindere dagli esiti processuali, l’esistenza e l’operatività della locale di San Leonardo di Cutro, oltre che la sua composizione.
Trattasi di considerazioni del tutto corrette, pienamente in sintonia con l’insegnamento di legittimità, secondo cui la disposizione contenuta nell’art. 238, comma 1, cod. proc. pen., che limita l’acquisizione di verbali di prove di altro procedimento ai casi di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento, non è applicabile nel giudizio abbreviato dove vige il principio della decisione allo stato degli atti, che implica la possibilità di utilizzazione di pro diverse da quelle che potrebbero essere legittimamente utilizzate in dibattimento, purché non acquisite “contra legem” (Sez. 5, n. 12491 del 14/02/2020, COGNOME, Rv. 278957 – 01), evenienza, quest’ultima, non dedotta dalla difesa.
Non è superfluo aggiungere che se è vero che la sentenza pronunciata in altro procedimento penale, non ancora irrevocabile, è apprezzabile alla stregua di un documento e può essere utilizzata solo come prova dei fatti documentali da essa rappresentati, non anche per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove in essa contenute, è altrettanto vero che non è precluso al giudice, che si avvalga degli elementi di prova acquisiti al processo, di riprodurre i percorsi valutativi tracciati in quelle sentenze, fermo restando il dovere di sottoporre gli elementi di prova, di cui legittimamente dispone, ad autonoma valutazione critica, secondo la regola generale di cui all’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 41405 del 16/05/2019, COGNOME, Rv. 277136 – 01).
Anche sotto questo profilo, non sono emerse specifiche censure in ricorso.
In conclusione, i ricorsi proposti da COGNOME e COGNOME vanno dichiarati inammissibili, dal che consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento dell’ulteriore somma, ritenuta congrua, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Vanno rigettati i ricorsi proposti nell’interesse di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME va rigettato perché, nel suo complesso, infondato.
Si ricorda che il ricorrente, assolto in primo grado dall’imputazione associativa di cui al capo 19) per avere il G.U.P. di Catanzaro (pag. 137) ritenuto di apprezzare, nella condotta dell’imputato, una mera “contiguità compiacente”, è stato, viceversa, condannato, per detto reato, dalla Corte di appello, in accoglimento del gravame del P.M.
4.1. Il difensore si duole, in primo luogo, che la Corte territoriale, nell’affermare, a dispetto della pronuncia assolutoria di NOME COGNOME dalla contestazione associativa, che costui fosse un partecipe, seppure al limitato fine di riconoscere l’esistenza dell’associazione e l’intraneità di altri sodali, avrebbe violato, ancor prima della presunzione d’innocenza e del giudicato, il principio di non contraddizione.
La doglianza è infondata.
Occorre ricordare che l’acquisizione della sentenza COGNOME irrevocabile di assoluzione del coimputato del medesimo reato non vincola il giudice, che, fermo il principio del “ne bis in idem”, può rivalutare anche il comportamento dell’assolto, al fine di accertare la sussistenza ed il grado di responsabilità
dell’imputato da giudicare (Sez. 5, n. 15 del 21/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278389 – 01; Sez. 2, n. 9693 del 17/02/2016, COGNOME, Rv. 266656 – 01).
Né è superfluo rammentare che, in tema di sentenze irrevocabili acquisite ai fini di prova del fatto in esse accertato, in assenza di pregiudizialità penale e fermo restando l’obbligo motivazionale vigente in presenza di un giudicato assolutorio per il medesimo fatto, la differenza tra le acquisizioni processuali di un procedimento già definito e di altro in corso può condurre il giudice di merito a epiloghi diversi, in ciò consistendo il richiamo operato dall’art. 238-bis cod. proc. pen. alle regole interpretative fissate dagli artt. 187 e 192, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904 – 05).
Del tutto coerente con i principi appena richiamati si rivela l’iter argomentativo sviluppato dalla Corte di merito tramite il rinvio a quanto esposto a proposito della posizione di NOME COGNOME (pagg. 91 e ss.).
Nell’esaminare quest’ultima posizione, infatti, i giudici del gravame hanno evidenziato, del tutto correttamente, che nel giudizio definito in abbreviato con sentenza di assoluzione irrevocabile di NOME COGNOME dalla contestazione associativa (procedimento n. 5065/17), il giudice di merito non aveva valutato nessuna delle condotte estorsive contestate nel presente procedimento ai capi 4) e 7), oggetto di condanna in primo grado e protrattesi per decenni con modalità indicative della caratura criminale mafiosa dell’imputato e dell’ultrattività della sua partecipazione al sodalizio; né risultavano valutati, nel separato procedimento, i rapporti intrattenuti da NOME COGNOME nel corso del 2017 con esponenti di altre ‘ndrine, a ulteriore riprova di come egli non avesse dismesso la sua veste di intraneo all’associazione de qua; né, infine, risultavano valutati i rapporti intrattenuti con NOME COGNOME, fidato sodale di NOME COGNOME e a lui legato da stabile frequentazione.
Dunque, coerente con le premesse è l’approdo cui è pervenuta la Corte distrettuale, per cui l’assoluzione di NOME COGNOME nel separato procedimento non impediva al giudice di merito preposto al presente procedimento di addivenire a valutazione incidentale di segno opposto con riferimento al suo inserimento nella locale di San Leonardo di Cutro dal 2008 in avanti.
Conseguentemente, del tutto legittima, in contrasto con quanto dedotto dalla difesa, deve ritenersi l’inferenza della intraneità del ricorrente COGNOME all’associazione di cui al capo 19) tratta dalla Corte di Catanzaro anche dalla sua funzione di stabile intermediario tra la cosca COGNOME, coinvolgente NOME COGNOME, e la cosca COGNOME di Chiaravalle.
4.2. Generica e manifestamente infondata è la censura di illogicità della motivazione, formulata con il secondo motivo di ricorso, in relazione all’affermata
esistenza, da parte della Corte di merito, della cosca “COGNOMERAGIONE_SOCIALECOGNOME” e alla partecipazione mafiosa di NOME e NOME COGNOME.
Sul punto, va detto che i giudici del gravame, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, hanno fatto corretta applicazione dell’art. 238-bis cod. proc. pen., acquisendo la sentenza emessa dal G.U.P. del Tribunale di Catanzaro in data 27 settembre 2021 (c.d. operazione ‘Orthus’), irrevocabile il 14 febbraio 2024, avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del sodalizio “COGNOME–COGNOME” di Chiaravalle e della partecipazione ad esso di NOME COGNOME anche nel periodo di frequentazione con COGNOME e COGNOME
Non si comprende perché nel ricorso si assuma che detta decisione non sarebbe sufficiente a ritenere dimostrata la partecipazione mafiosa di NOME e NOME COGNOME posto che l’applicazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., invocata dalla difesa, è semmai funzionale, secondo la previsione dell’art. 238-bis cod. proc. pen., alla valutazione della condotta partecipativa di COGNOME e non dei due COGNOME, per la quale è ovviamente sufficiente l’affermazione irrevocabile di responsabilità penale nel separato processo.
Di conseguenza, la difesa del ricorrente avrebbe dovuto spiegare perché, nella specie, non sarebbero emersi riscontri esterni atti a dimostrare, attraverso la partecipazione di COGNOME a incontri con appartenenti alla consorteria “COGNOME“, la cui esistenza è stata riconosciuta con accertamento definitivo, la intraneità del ricorrente al gruppo “COGNOMERAGIONE_SOCIALE“.
La censura, per la sua genericità, non può essere presa in considerazione nella presente sede di legittimità.
4.3. Meramente confutative e rivalutative sono le deduzioni articolate nel terzo motivo, con cui si denuncia l’illogicità della motivazione con riferimento all’affermata partecipazione mafiosa di NOME COGNOME e alla ritenuta rilevanza partecipativa dell’incontro di COGNOME con l’imprenditore NOME COGNOME.
La Corte di merito, quanto al primo profilo, nell’indicare NOME COGNOME quale “esponente del clan COGNOME” (pag. 140) ed “esponente della cosca COGNOME” (pag. 127), non ha semplicemente evidenziato la circostanza che il fratello NOME COGNOME venne condannato all’ergastolo per l’omicidio “di mafia” di NOME COGNOME, ma ha aggiunto (pag. 127) che il suddetto NOME COGNOME, con provvedimento del Tribunale di Catanzaro n. 84/2018, versato in atti, era stato attinto dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno e dalla misura di prevenzione patrimoniale della confisca di beni, provvedimento, quello appena menzionato, del tutto ignorato in ricorso.
Quanto al secondo profilo, la censura difensiva, oltre che rivalutativa, pecca di aspecificità, in quanto omette di confrontarsi sul complessivo contesto “mafioso” in cui avvenne, a casa di NOME COGNOME, l’incontro fra COGNOME e COGNOME: da
un lato, non considerando che a quel pranzo avrebbero dovuto partecipare anche NOME e NOME COGNOME ossia due “capi” della cosca “COGNOMERAGIONE_SOCIALECOGNOME” (poi costretti a rinunciare per un sopravvenuto problema di salute di un prossimo congiunto); dall’altro, ignorando che a quell’incontro COGNOME era affiancato da COGNOME, ovvero da un altro affiliato alla cosca “COGNOMERAGIONE_SOCIALECOGNOME“.
4.4. Quanto meno infondato, in diritto, è il quarto motivo di ricorso, con il quale si contesta la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. in relazione all’originaria imputazione di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (capo 20).
Secondo la costante tradizione di legittimità, invero, l’assoluzione relativa a reati fine non ha alcun rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato per il reato associativo. Infatti, da un lato, per la configurazione de reato associativo non è necessaria la consumazione di reati fine, ma soltanto un generico programma criminoso che preveda la loro consumazione; dall’altro, l’assoluzione relativa a reati fine potrebbe trovare adeguata giustificazione in una mancanza di riscontri relativi a tali reati (Sez. 4, n. 8092 del 28/01/2014, COGNOME e altri, Rv. 259129 – 01; Sez. 1, n. 5036 del 03/04/1997, COGNOME ed altri, Rv. 207792 – 01; Sez. 6, n. 4609 del 03/02/1995, COGNOME ed altri, Rv. 201147 01).
In coerenza con tali principi, si è, tra l’altro, affermato che la preclusione da “bis in idem” non impedisce di valutare una condotta, già giudicata con sentenza irrevocabile di assoluzione dal delitto di riciclaggio, ai fini della prov della diversa fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa (Sez. 6, n. 40743 del 23/06/2016, COGNOME, Rv. 268151 – 01).
Del tutto immune da vizi, pertanto, è la valutazione, operata dalla Corte di merito ai fini dell’intraneità associativa, della circostanza per cui COGNOME, consapevole della finalità della visita e NOME COGNOME spalleggiò, con la sua presenza fisica, il sodale COGNOME mentre svolgeva un’attività di mediazione nell’ambito di un conflitto tra privati nel territorio di operatività della cosca, c esercitando il potere mafioso che gli derivava dall’appartenenza alla locale di San Leonardo di Cutro.
4.5. Generica, anche per aspecificità, e assertiva è la censura, dedotta con l’ultimo motivo di ricorso, con cui si eccepisce la violazione di legge in relazione al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Il difensore si limita a riepilogare le valutazioni operate dal primo giudice a sostegno della pronuncia assolutoria, senza, tuttavia, formulare critiche specifiche al costrutto argomentativo edificato, in contrapposizione al G.U.P., dalla Corte di appello, sviluppato da pag. 139 a pag. 145, e avversato solo con espressioni generiche miranti a stigmatizzare, in modo assertivo, l’inconducenza degli
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elementi apprezzati dai giudici del gravame a integrare il reato associativo mafioso.
Né si comprende la critica di illogicità elevata in ricorso alla risposta fornita dalla Corte di Catanzaro al rilievo circa il silenzio serbato dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME elemento apicale della cosca di appartenenza, posto che non appare integrare il vizio di manifesta illogicità la considerazione, svolta dai giudici dell’appello, a proposito del fatto che COGNOME non ebbe mai a rapportarsi, direttamente, con il COGNOME.
Il ricorso va, in conclusione, rigettato.
Va, parimenti, respinto il ricorso di NOME COGNOME circoscritto alla contestazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., accessoria al reato di usura di cui al capo 18) commesso in danno di NOME COGNOME titolare di un’agenzia di viaggi.
Occorre GLYPH ricordare GLYPH che GLYPH l’aggravante GLYPH del GLYPH “metodo” GLYPH o GLYPH della “agevolazione” mafiosi ricorre anche se la condotta in cui essa si concreta sia stata esercitata da un solo soggetto, non essendo necessario che essa sia tenuta da una pluralità di persone, ma bastando che il soggetto passivo percepisca che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio (Sez. 1, n. 3861 del 13/01/2009, Sannino, Rv. 242442 – 01).
In conformità a tale principio, la Corte distrettuale ha evidenziato, per come emerso dagli atti (dichiarazioni rese dallo SCALESE e intercettazioni), che la parte lesa era consapevole – per averlo esplicitamente riferito – del fatto che l’imputato operasse “come intermediario di una organizzazione malavitosa” (pag. 42 della sentenza impugnata) e che quest’ultimo aveva fatto riferimento a “terzi” interessati alla situazione che si stava svolgendo tra i due (“Io non ti chiedo nulla per me, salvo un viaggio”).
Orbene, secondo l’orientamento ermeneutico che si condivide, l’evocazione di “terzi” dietro all’operazione, da parte di soggetto che la parte lesa sapeva appartenere a famiglia di ‘ndrangheta ovvero fungere da intermediario di essa, come nella vicenda in esame, deve reputarsi del tutto idonea a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune (in senso analogo, Sez. 2, n. 39424 del 09/09/2019, COGNOME, Rv. 277222).
Va, inoltre, richiamata Sez. 2, n. 10976/18 del 29/11/2017, non mass., secondo cui ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa
storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contrat implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività.
Corretto, pertanto, sul piano logico-giuridico è l’approdo cui è pervenuta la Corte di appello nell’affermare che l’evocazione di “terzi” dietro all’operazione, da parte di soggetto che la parte lesa riteneva essere collegato ad organizzazione malavitosa, in un territorio in cui l’usura costituiva campo di elezione delle cosche mafiose, assume “le vesti di una metodica idonea a creare nella vittima una condizione di ulteriore assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune (Cfr. Sez. 2, n. 39424 del 09/09/2019, Rv. 272222)”, e ciò anche se manchi il diretto ed esplicito riferimento ad una specifica famiglia mafiosa.
Non manifestamente illogica, d’altro canto, è la considerazione, svolta dai giudici territoriali, sulla ininfluenza, rispetto all’integrazione dell’aggravante, rapporto di amicizia esistente tra vittima e imputato, posto che quest’ultimo non si faceva scrupolo di ricordare larvatamente all’amico che, “se fosse dipeso da lui” e se avesse avuto disponibilità, lo avrebbe aiutato (salvo poi richiedere anche per lui una ricompensa, cioè un viaggio), così, palesemente, evocando in modo ulteriore, nella mente dell’usurato, al momento della scadenza della rata, la presenza di altri soggetti (certamente meno indulgenti di lui se avesse agito da solo: pag. 45 della sentenza impugnata).
Le censure difensive non scalfiscono il ragionamento, immune da vizi logici, seguito dalla Corte di appello.
Non quelle attinenti alla dedotta carenza di prova sulla qualità mafiosa di NOME COGNOME soggetto indicato come “vicino” all’imputato dalla persona offesa, posto che, per la giurisprudenza più sopra richiamata, è sufficiente a creare nella vittima una condizione di assoggettamento la consapevolezza in capo ad essa dell’appartenenza o la vicinanza dell’imputato ad una organizzazione criminale, a prescindere dalla specificazione della famiglia mafiosa o degli affiliati.
Né quelle, semplicemente rivalutative, inerenti alla “interpretazione” di certi atteggiamenti dello COGNOME (non voler sapere i nomi dei “terzi” finanziatori; non essere intimorito da COGNOME) o delle dichiarazioni rese dall’imputato in sede di interrogatorio del 25 giugno 2021, in cui affermò di essersi inventato la circostanza che i soldi dati in prestito non fossero suoi solo per paura di non recuperarli.
Il ricorso va, in conclusione, rigettato per complessiva infondatezza.
Va rigettato anche il ricorso di NOME COGNOME costituito da due atti
distinti, sottoscritti, l’uno, dall’avv. NOME COGNOME l’altro, dall’avv. NOME COGNOME
La Corte di appello ha confermato la sua condanna solo in relazione al delitto di usura aggravata dal metodo mafioso di cui al capo 16) della rubrica, commesso in danno di NOME COGNOME e consistito nell’aver erogato un prestito dell’importo di 35.000,00, con interessi mensili di 4.000,00 euro.
6.1. L’imputato, reo confesso sul fatto, contesta, a mezzo della difesa tecnica, esclusivamente la circostanza aggravante del metodo mafioso.
Ciò premesso, procedendo dall’analisi del ricorso sottoscritto dall’avv. COGNOME deve ritenersi, anzitutto, infondata la censura di vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, formulata con il primo motivo di ricorso.
Giova rammentare che, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (tra le più recenti, Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 – 01).
Va, inoltre, ricordato che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione all massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
Tenendo presente gli enunciati principi, va osservato, in primo luogo, che il dato probatorio asseritamente travisato non è stato affatto per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione della sentenza di secondo grado, essendo stato già valutato dal primo giudice, sicché, a fronte di una “doppia conforme” di condanna limitatamente al capo 16), l’eccezione di travisamento non può cogliere nel segno neppure in astratto.
In concreto, si rileva che il dato probatorio in tesi travisato è costituito dall captazione telefonica del 14 settembre 2019, nel corso della quale l’imputato, di fronte alle scuse addotte dallo COGNOME per giustificare il mancato/ritardato pagamento, aveva evocato soggetti terzi per i quali egli agiva e che reclamavano gli interessi sul prestito dicendo all’interlocutore: “Come facciamo a sto giro? Tengo ‘i cristiani’ addosso…”.
La Corte di appello dà atto alle pagg. 19 e 21 che era stata la stessa persona offesa a riferire di essere a conoscenza che COGNOME era genero di NOME
COGNOME, appartenente a una famiglia di nota caratura mafiosa.
A prescindere da ogni valutazione circa l’effettiva appartenenza del CURCIO stesso a circuiti criminali mafiosi, secondo il ragionamento non manifestamente illogico seguito dai giudici del gravame, l’imputato, proprio nel fare riferimento ad altri soggetti finanziatori (‘i cristiani’), ha evocato la cointeressenza nella vicend di appartenenti alla ‘ndrangheta, così richiamando alla mente della vittima la forza di intimidazione del vincolo associativo e la conseguente condizione di assoggettamento che ne deriva.
Si tratta di una vicenda, nella sostanza, sovrapponibile a quella già esaminata a proposito del ricorso COGNOME, fra l’altro coinvolgente come persona offesa lo stesso COGNOME per la quale valgono i riferimenti giurisprudenziali al riguardo operati e che la Corte di merito ha rispettato anche in relazione alla vicenda usuraria di cui al capo 16), reputando correttamente sufficiente, a integrare la contestata aggravante, che il soggetto passivo abbia percepito «che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio» (Sez. 1, n. 3861 del 13/01/2009, COGNOME, Rv. 242442 – 01).
Circostanza aggravante, quella in parola, che la Corte di appello ha ragionevolmente giustificato anche attraverso la valorizzazione dell’uso del plurale “noi” (“Sai noi come stiamo combinati…”), in altra conversazione con lo COGNOME per ricordare all’interlocutore la contingente situazione di difficoltà in cui versava la famiglia COGNOME.
Le censure mosse avverso l’interpretazione, non manifestamente illogica, dei due brani di conversazione valorizzati dalla Corte di merito a sostegno della ritenuta aggravante tendono a una palese rilettura dei dialoghi e, perciò, non possono trovare ingresso in sede di legittimità.
Né coglie nel segno l’obiezione, posta nel secondo atto di ricorso, circa l’omessa considerazione, da parte dei giudici dell’appello, del giudicato cautelare, favorevole al CURCIO, formatosi a seguito della sentenza Sez. 5, n. 142/2022, con la quale la Corte di cassazione aveva annullato senza rinvio l’ordinanza del giudice del riesame sul punto dell’aggravante mafiosa, posto che il compendio indiziario valutato in sede di legittimità comprendeva solo le dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai collaboratori di giustizia, ma non le captazioni, viceversa apprezzate dal giudice della cognizione nei due gradi di merito.
6.2. Infondate, infine, sono le deduzioni, formulate nel secondo atto di ricorso, a proposito del diniego delle attenuanti generiche e dell’entità della pena.
Quanto al primo, priva di vizi logici è la motivazione resa dalla Corte di Catanzaro, che ha ridimensionato le ammissioni, rese dal CURCIO dopo la notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., a fronte di un quadro probatorio già
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autonomamente ricostruito e ha ritenuto recessivo il dato della incensuratezza rispetto alle modalità del fatto, commesso in danno di soggetto versante in gravissime condizioni economiche, ripetutamente costretto, fra l’altro, a emettere gratuitamente biglietti ferroviari e aerei in favore di appartenenti alla famigli mafiosa dei COGNOME a titolo di pagamento degli interessi usurari.
Quanto alla dosimetria della pena, va considerato sufficientemente adeguato il riferimento all’ammontare del prestito e alla gravità della condotta, tenuto conto che la pena base di tre anni e sei mesi di reclusione non supera neppure il medio edittale.
Anche il ricorso di COGNOME va, in definitiva, respinto.
7. Ad analoga sorte è destinato il ricorso di NOME COGNOME.
Il ricorrente è stato condannato per i reati di usura (capo 13) ed estorsione (capo 14) aggravati, commessi in danno di NOME COGNOME
Oggetto di ricorso sono il reato di estorsione e la circostanza aggravante del metodo mafioso.
7.1. Con il primo motivo, afferente al reato di estorsione, si contesta, nella sostanza, un travisamento della prova captativa, dalla quale, a detta della difesa del ricorrente, sarebbero emersi elementi riconducibili soltanto al reato di usura, mentre la prova dell’estorsione, nella sua declinazione “ambientale”, in assenza di minacce esplicite, anche per il rapporto cordiale con la vittima rivelato da alcuni dei dialoghi intercettati, sarebbe derivata dalla indimostrata appartenenza dell’imputato a un contesto di ‘ndrangheta.
La doglianza è infondata.
Va ribadito, ancora una volta, che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica i relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 – 01).
Quanto alla estorsione “ambientale”, va rammentato che per essa si intende quella particolare forma di estorsione, perpetrata da soggetti notoriamente inseriti in pericolosi gruppi criminali che spadroneggiano in un determinato territorio e che è immediatamente percepita dagli abitanti di quella zona come concreta e di certa attuazione, stante la forza criminale dell’associazione di appartenenza del soggetto agente, quand’anche attuata con linguaggio e gesti criptici, a condizione che questi siano idonei ad incutere timore e a coartare la volontà della vittima (Sez. 2, n. 53652 del 10/12/2014, COGNOME e altri, Rv. 261632 – 01).
È stato, inoltre, precisato che, in tema di estorsione cd. “ambientale”, non è necessario che la vittima conosca l’estorsore ed il clan di appartenenza del medesimo, rilevando soltanto le modalità in sé della richiesta estorsiva, che, pur formalmente priva di contenuto minatorio, ben può manifestare un’energica carica intimidatoria – come tale percepita dalla vittima stessa – alla luce della sottoposizione del territorio in cui detta richiesta è formulata all’influsso di notor consorterie mafiose (Sez. 2, n. 21707 del 17/04/2019, COGNOME, Rv. 276115 – 01; Sez. 2, n. 22976 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 270175 – 01).
Pertanto, può ritenersi configurabile la circostanza aggravante del metodo mafioso anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente”, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia (Sez. 2, n. 34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv. 284950 – 01: fattispecie relativa al delitto di usura, in cui la Corte ha affermato che la notoria appartenenza del correo a un clan camorristico storico, la spregiudicatezza delle richieste usurarie provenienti dagli indagati e l’utilizzo di espressioni tipiche dell’agire mafioso, consentissero di ritenere integrato “il metodo delinquenziale mafioso”; v. anche Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, COGNOME, Rv. 277182 – 01).
Va, infine, tenuto presente che è configurabile il reato di usura o di estorsione a seconda che l’iniziale pattuizione usuraria sia stata spontaneamente accettata dalla vittima, ovvero accettata per effetto della violenza o minaccia esercitata dal soggetto attivo, mentre i due reati possono concorrere quando la violenza o minaccia siano esercitate al fine di ottenere il pagamento degli interessi pattuiti o degli altri vantaggi usurari (Sez. 2, n. 38551 del 26/04/2019, COGNOME, Rv. 277090 – 02; Sez. 2, n. 6918 del 25/01/2011, Ravese, Rv. 249399 – 01).
Tanto premesso, ritiene il Collegio che, nell’esame della vicenda de qua, la Corte di merito abbia fatto puntuale applicazione dei principi appena richiamati.
Incontestata in ricorso la fattispecie di usura, va osservato che i giudici territoriali hanno ricostruito la condotta estorsiva principalmente in base alle dichiarazioni rese dall’imprenditore COGNOME il quale aveva riferito che, non avendo corrisposto entro la scadenza concordata al COGNOME – della cui appartenenza alla ‘ndrangheta era consapevole – gli interessi mensili per il prestito ricevuto (si trattava, per la precisione, della rata scadente il 1° settembre 2019: vedi pag. 58 della sentenza impugnata), era stato intimorito dall’imputato attraverso espressioni verbali consistite nell’avergli ricordato i suoi trascorsi i carcere e nell’affermazione perentoria di “non temere nulla”.
Correttamente i giudici di Catanzaro hanno ravvisato, nelle parole pronunciate da COGNOME sempre nei limiti della plausibile opinabilità di
apprezzamento, i caratteri della minaccia seria e idonea a incutere timore nella persona offesa, che si trovava nell’alternativa tra continuare a pagare gli interessi – per la quale in concreto optò – ovvero esporsi al rischio che l’imputato potesse dare seguito alle minacce.
Non è fondato il rilievo difensivo, peraltro imperniato su una rilettura non consentita delle intercettazioni, secondo cui le conversazioni captate, rivelatrici di un rapporto cordiale tra imputato e vittima, smentirebbero le parole di quest’ultima, che, perciò, resterebbero prive di riscontro e, di conseguenza, insufficienti a fondare un’affermazione di responsabilità.
Partendo da quest’ultima prospettazione, infondata in diritto, occorre richiamare l’insegnamento delle Sezioni Unite, costantemente seguito, per cui le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214 – 01: in motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi).
NOME COGNOME vittima di molteplici episodi usurari nel presente procedimento, è stato nei suoi racconti sempre verificato dai giudici di merito e sempre ritenuto attendibile, con valutazioni immuni da vizi logici e, quindi, insindacabili nella presente sede.
Come detto, inoltre, non risponde al vero che, nel caso in esame, le sue parole siano state contraddette dalla prova captativa.
La Corte di appello di Catanzaro, con iter argomentativo lineare e logicamente plausibile, ha illustrato le modalità asfissianti con le quali l’imputato, con un pressing crescente, incalzò la vittima, nel giorno del 1° settembre 2019 e in quelli successivi, per indurlo, con fare intimidatorio, a pagare gli interess usurari, facendo riferimento: a) ai ripetuti tentativi di chiamata (prog. 27896, 27901, 27908) esperiti da COGNOME che, quando veniva ricontattato da COGNOME, gli intimava perentoriamente, a scanso di ulteriori ritardi, di versare il dovuto “i mattinata” e integralmente (“tutto il tabulato”: prog. 27912); b) al tentativo di convincere la persona offesa, purché saldasse il suo debito, a coinvolgere i suoi parenti nei pagamenti, stipulando contratti di finanziamento con società del settore; c) all’utilizzo di espressioni, in tali circostanze, velatamente intimidatori come: “ti sto aiutando in tutti i modi, ti sto aiutando, però qua se non trovi una
soluzione…”; d) alla conseguente accettazione, da parte di COGNOME che centrava così il suo obiettivo in quel momento, quale dati° in solutum della rata di interessi scaduta, che COGNOME si accollasse la rata della crociera che il creditore avrebbe dovuto altrimenti pagare all’agenzia di viaggi; e) ai continui tentativi, operati tr il 20 e il 21 settembre da parte dell’imputato – recandosi personalmente all’agenzia, che trovava sempre chiusa – di contattare COGNOME il quale, per timore, si nascondeva all’interno dei suoi uffici; f) alla reazione palesata da COGNOME ai tentativi di giustificazione della sua assenza addotti da COGNOME, con espressioni lapidarie del tipo “Ti ho visto NOME” tese a smascherare le false giustificazioni della persona offesa, la quale veniva di nuovo incalzata con inequivoche parole di minaccia, recepite anche mediante il captatore informatico (“Non è che sto giocando, no”), perché “se ne stava andando settembre” e NOME doveva ottemperare (“Ohi NOME qua dobbiamo vedere che cazzo… tu mi fai innervosire, che cazzo vuoi?”); g) alla rappresentata esistenza, con toni larvatamente minacciosi, di “terzi” interessati a rientrare dal finanziamento erogato (“Io ne devo uscire fuori perché ho impegni con altri io te l’ho detto… se eri un altro qua a quest’ora lo avevamo risolto il problema…”; “Io ti ho fatto l cortesia prestarti i soldi e dei cazzi miei a loro non interessa niente ma siccome è venuto e mi ha detto compà come ti stai trovando tu?”); h) alla prepotente arroganza di nuovo palesata da COGNOME il quale ricordava a COGNOME di sentirsi libero di chiamarlo e passare all’agenzia quando desiderava, ammonendolo a tenere presente che “è buono uscirne fuori è buono, prima di tutto stai tranquillo mentalmente”.
Confutando motivatamente le obiezioni difensive, miranti a rappresentare, con una chiave di lettura alternativa, un rapporto imputato-vittima privo di tensioni, la Corte di appello ha ragionevolmente osservato, nel concludere sul punto, come siffatta diversa prospettazione, in realtà, risultasse smentita dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalle espressioni minatorie frequentemente usate da COGNOME, oltre che dai “pedinamenti-appostamenti” dal predetto effettuati per “stanare” COGNOME dall’agenzia; si trattava, ha proseguito la Corte di merito, di un compendio probatorio che, al contrario di quanto assunto dalla difesa, andava a suffragare appieno l’attendibilità del narrato della persona offesa, consentendo di ritenere dimostrata l’integrazione degli elementi oggettivo e soggettivo del delitto di estorsione.
Il primo motivo di ricorso, inammissibile nella sua parte rivalutativa delle prove intercettative, deve, alla fine, nel complesso, stimarsi infondato.
7.2. Alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riguardo al secondo motivo, afferente alla contestazione della circostanza aggravante del “metodo mafioso”. Quanto alla ininfluenza, al fine di escludere l’aggravante de qua in relazione
al delitto di usura, della sentenza di annullamento con rinvio emessa, in sede cautelare, dalla Quinta Sezione della Corte di cassazione n. 142/2022 nei confronti di NOME COGNOME è sufficiente richiamare le considerazioni, svolte al precedente par. 6. nell’esaminare la posizione di quest’ultimo ricorrente.
Va, in ogni caso, ribadito, anche per la posizione di COGNOME, che, a prescindere da ogni valutazione circa l’effettiva sua appartenenza a circuiti criminali mafiosi – appartenenza, peraltro, nota alla persona offesa, come da essa riferito e come dichiarato dal collaboratore di giustizia COGNOME (vedi a quest’ultimo proposito pag. 64) – secondo il ragionamento non manifestamente illogico seguito dai giudici del gravame, l’imputato, proprio nel fare riferimento ad altri soggetti finanziatori (“Io ne devo uscire fuori perché ho impegni con altri io te l’ho detto”), ha evocato la cointeressenza nella vicenda di appartenenti alla ‘ndrangheta, così richiamando alla mente della vittima la forza di intimidazione del vincolo associativo e la conseguente condizione di assoggettamento che ne deriva.
Si tratta di una vicenda, nella sostanza, analoga, nelle sue modalità, a quelle già esaminate a proposito dei ricorsi di COGNOME e COGNOME, fra l’altro coinvolgenti come persona offesa lo stesso COGNOME per la quale, pertanto, valgono i riferimenti giurisprudenziali al riguardo in precedenza operati e che la Corte di merito ha rispettato anche in relazione alla vicenda usuraria di cui al capo 13), reputando correttamente sufficiente, a integrare la contestata aggravante, che il soggetto passivo abbia percepito «che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio» (Sez. 1, n. 3861 del 13/01/2009, COGNOME, Rv. 242442 – 01).
Del tutto infondato è il rilievo difensivo per cui la mancata conoscenza dell’identità degli “altri” finanziatori avrebbe dovuto condurre ad escludere l’aggravante in parola, posto che, come già ricordato in precedenza, secondo la giurisprudenza di legittimità è sufficiente a creare nella vittima una condizione di assoggettamento la consapevolezza in capo ad essa dell’appartenenza o la vicinanza dell’imputato ad una organizzazione criminale, a prescindere dalla specificazione della famiglia mafiosa o degli affiliati.
Sufficientemente adeguata è la motivazione fornita dalla Corte territoriale a proposito della sussistenza dell’aggravante del “metodo mafioso” con riguardo al delitto di estorsione di cui al capo 14), a giustificazione della quale i giudici Catanzaro hanno ragionevolmente valorizzato le già riportate espressioni, velatamente intimidatorie e proprie del contesto ‘ndranghetistico, usate da COGNOME nel ricordare i suoi trascorsi carcerari e nell’affermare di non avere nulla da temere.
A ciò si aggiunga, come già detto, la consapevolezza, da parte della persona
offesa, dell’appartenenza dell’imputato a una cosca di ‘ndrangheta, rivelata anche dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME
A fronte di un lineare e coerente costrutto argomentativo, manifestamente infondate si rivelano le censure, peraltro articolate in modo generico e aspecifico, con cui si lamenta la mancata risposta ai motivi di appello ovvero l’ambiguità della motivazione con riferimento alla precisa declinazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen.
In coerenza con la rubrica incolpativa, infatti, la circostanza è stata ritenuta in entrambe le sue declinazioni.
Si è già illustrato quella inerente al metodo.
Quanto alla finalità agevolativa, essa è stata convenientemente trattata a pag. 65, laddove si è evidenziato che, oltre a NOME COGNOME, altri appartenenti alla cosca come NOME COGNOME e COGNOME, insieme ad altri soggetti contigui, ancorché non intranei, come COGNOME e NOME COGNOME (di cui si tratterà appresso), abbiano erogato prestiti a usura allo stesso operatore economico NOME COGNOME conducendolo alla chiusura dell’attività; si è, quindi, conclusivamente e correttamente osservato che le modalità dell’usura, la provenienza dei capitali dalla cosca e la risonanza delle vicende nel tessuto economico e nella popolazione hanno certamente consolidato il prestigio e il predominio territoriale dei COGNOME e, con loro, della locale di San Leonardo di Cutro.
8. Nel complesso infondato è il ricorso di NOME COGNOME.
L’imputato risulta condannato per il solo delitto di usura aggravato di cui al capo 15), commesso, come altri reati di usura, ai danni dell’imprenditore NOME COGNOME
Il ricorso contesta solo la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., il diniego delle attenuanti generiche e la determinazione della pena.
8.1. Analogamente alle vicende usurarie, coinvolgenti lo stesso COGNOME come vittima, esaminate a proposito dei ricorsi di COGNOME, COGNOME e NOME COGNOME i giudici di merito hanno ritenuto l’aggravante in parola evidenziando come, in una serie di conversazioni, NOME COGNOME avesse evocato la presenza di altri soggetti finanziatori del prestito, ai quali avrebbe dovuto dare conto nel caso di mancato pagamento degli interessi usurari da parte della vittima (“Io non so più come te lo devo dire, io non so più come devo fare NOME, questi sta aspettando un giorno, due giorni, tre giorni, una settimana e scusa NOME, non gli posso più tirare questa tirítera…cioè io a questi gli posso dire viene domani, viene dopodomani, viene domani, e che cazzo devo fare una tiritera NOME? Perché io non ce la faccio più NOME. Mi devi togliere questi qua dai coglioni NOME…”; “…altrimenti NOME a mali estremi vendi il furgone…”: pagg. 48-49 della sentenza
impugnata) e che, fra l’altro, si erano presentati a casa sua, creandogli difficoltà con la moglie (“io vado oggi altrimenti questi mi rovini con la famiglia anche a me, sinceramente sta diventando una schifezza qua, da casa, vanno e vengono da casa, mia moglie, che cazzo hai da fare tu adesso?”).
Anche per la posizione di NOME COGNOME quindi, a prescindere da ogni valutazione circa l’effettiva sua appartenenza a circuiti criminali mafiosi appartenenza, peraltro, nota alla persona offesa, come da essa riferito e come dichiarato dal collaboratore di giustizia COGNOME – va detto che, secondo il ragionamento non manifestamente illogico seguito dai giudici del gravame, l’imputato, proprio nel fare riferimento ad altri soggetti finanziatori, ha evocato la cointeressenza nella vicenda di appartenenti alla ‘ndrangheta, così richiamando alla mente della vittima la forza di intimidazione del vincolo associativo e la conseguente condizione di assoggettamento che ne deriva.
Trattandosi, come accennato, di una vicenda analoga, nelle sue modalità, a quelle già esaminate a proposito dei ricorsi di COGNOME, COGNOME e NOME COGNOME, valgono, anche per essa, i riferimenti giurisprudenziali in precedenza richiamati per i citati ricorsi e che la Corte di merito ha rispettato anche in relazione alla vicenda usuraria di cui al capo 15), reputando correttamente sufficiente, a integrare la contestata aggravante, che il soggetto passivo abbia percepito «che la minaccia e l’intimidazione provengano da più persone, in quanto tale circostanza esercita, di per se stessa, maggiore effetto intimidatorio» (Sez. 1, n. 3861 del 13/01/2009, COGNOME, Rv. 242442 – 01).
Del tutto infondato è il rilievo difensivo, formulato eccependo il travisamento della prova captativa, per cui il mancato esplicito riferimento, da parte dell’imputato, ad una specifica associazione mafiosa e l’assenza di parole evocatrici dell’intimidazione proveniente dal vincolo associativo avrebbero dovuto condurre ad escludere l’aggravante in parola, posto che, come già ricordato in precedenza, secondo la giurisprudenza di legittimità è sufficiente a creare nella vittima una condizione di assoggettamento la consapevolezza in capo ad essa dell’appartenenza o la vicinanza dell’imputato ad una organizzazione criminale, a prescindere dalla specificazione della famiglia mafiosa o degli affiliati.
Né assumono rilievo spendibile in sede di legittimità le diverse interpretazioni di altri passaggi delle conversazioni intercettate, posto che, fungendo COGNOME da sostanziale intermediario della cosca, è evidente – come giustamente rimarcato dalla Corte territoriale – che nei suoi confronti i terzi finanziatori avrebbero preteso la restituzione del debito.
Sempre in termini di “rilettura”, non consentita nella presente sede, va considerata la censura sulla interpretazione del termine “famiglia” veicolata in ricorso in chiave critica del riferimento alla “famiglia mafiosa” plausibilmente
operato in sentenza.
Del tutto assertiva, poi, è l’obiezione sulla pretesa “irrilevanza” della consapevolezza, in capo allo COGNOME, dell’appartenenza mafiosa del ricorrente.
Generiche, infine, sono le censure sulla pretesa inattendibilità delle dichiarazioni di COGNOME e sulla errata valorizzazione del “contesto” da parte dei giudici del gravame.
Il primo motivo di ricorso è, quindi, nel complesso, infondato.
8.2. Manifestamente infondato è il motivo sul diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si ribadisce sul tema la consolidata tradizione di legittimità, secondo la quale la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737 – 01), sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 2, n. 9299 del 07/11/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275640 – 01).
Altrettanto costante è l’insegnamento per cui, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed att a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02).
La Corte di merito ha speso (pagg. 53-54) adeguate argomentazioni in risposta alle deduzioni difensive, valutando in modo del tutto logico quali elementi ostativi al riconoscimento del beneficio richiesto: a) la strumentalità della confessione resa dall’imputato, in quanto successiva all’esecuzione della misura cautelare applicata nei suoi confronti, in un momento, cioè, in cui il quadro probatorio a suo carico era già solido; b) la gravità del reato, commesso ai danni di persona molto esposta anche con altri usurai e attraverso modalità rivelatrici di una radicata capacità a delinquere; c) la conseguente recessività del dato relativo alla formale incensuratezza.
Manifestamente infondati, oltre che reiterativi di censure già correttamente confutate in appello, sono i rilievi proposti in ricorso, con cui si stigmatizza mancata valutazione degli elementi positivi allegati dalla difesa, rifuggendo, tuttavia, dal confronto critico con il lineare ordito motivazionale appena sintetizzato.
8.3. Meramente assertivo è il motivo di ricorso che contesta l’entità della pena base, non comprendendosi perché il riferimento alla gravità della condotta e all’ammontare del prestito corrisponderebbe a un enunciato “meramente formale”.
Viceversa, i due parametri valorizzati non sono per nulla avulsi dal perimetro fissato dall’art. 133 cod. pen. e devono considerarsi sufficienti a giustificare una dosimetria (pena base detentiva di tre anni rispetto a una forbice edittale che va dai cinque ai dieci anni di reclusione) come quella applicata, tenuto conto che la pena base non supera neppure il medio edittale.
Anche il ricorso di NOME COGNOME va, in definitiva, respinto.
Al rigetto dei ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME consegue ex lege la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Il ricorso di NOME COGNOME va parzialmente accolto, come verrà meglio esposto nel prosieguo.
COGNOME risulta condannato per i delitti di cui ai capi 4) (estorsione, con l’aggravante mafiosa, ai danni di NOME COGNOME in concorso con NOME COGNOME), 5) (usura ai danni di NOME COGNOME, con esclusione dell’aggravante mafiosa), 8) (estorsione, con l’aggravante mafiosa, ai danni di NOME COGNOME), 9) (usura ai danni di NOME COGNOME, con esclusione dell’aggravante mafiosa), 10) (usura ai danni di NOME COGNOME in relazione ad una fornitura di mattonelle, con esclusione dell’aggravante mafiosa), 11) (in concorso con NOME COGNOME, usura ai danni di NOME COGNOME, con l’aggravante mafiosa) e 19) (partecipazione alla ‘ndrangheta, con ruolo di organizzatore, nelle locali di Cutro e San Leonardo di Cutro).
Il ricorso, come detto, si basa su sette motivi.
9.1. Il primo motivo, inerente alla partecipazione del ricorrente al sodalizio ‘ndranghetistico di cui al capo 19), sviluppa censure caratterizzate, per lo più, da aspetti reiterativi dei motivi di gravame e rivalutativi.
La Corte di Catanzaro ha tracciato un lungo e articolato percorso argomentativo (pagg. 82 e ss.) per dimostrare l’appartenenza del ricorrente alla locale di Cutro e San Leonardo di Cutro, con ruolo di organizzatore, confutando, in modo sempre logico e, comunque, contenuto nei limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento, le obiezioni difensive dedotte in appello.
Ha, in primo luogo, adeguatamente superato le censure difensive in merito alla mancanza di un accertamento giudiziario irrevocabile (vedi le sentenze emesse nei procedimenti “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“, prive di riferimenti a NOME COGNOME) in relazione all’esistenza della locale di cui al capo 19), valorizzando le
convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti NOME COGNOME e il materiale intercettativo acquisiti dal procedimento c.d. “Malapianta-Infectio”, atti legittimamente utilizzati per come già affermato nell’analisi del ricorso COGNOME (par. 2.2.), reputando correttamente accertato come nel 2009 la cosca avesse riacquistato sul territorio di pertinenza una rinnovata autonoma capacità criminale sotto la direzione di NOME COGNOME e NOME COGNOME i quali, unitamente agli COGNOME, agli COGNOME e ai COGNOME, avevano ricondotto la ‘ndrina a riacquistare il rango di “locale”, funzionalmente dipendente da NOME COGNOME esercitando il controllo del territorio attraverso il sistematico ricorso a usure ed estorsioni e la “gestione” dei villaggi turistici.
La Corte di merito ha, poi, fornito convincente risposta all’obiezione difensiva circa l’appartenenza mafiosa del ricorrente anche nel periodo antecedente a quello oggetto di contestazione (dal 2018 con carattere di permanenza), sia evidenziando la collocazione temporale di alcuni reati-fine, aggravati dall’art. 416-bis.l. cod. pen., commessi in data antecedente al 2018 o coincidente con l’inizio di quell’anno (vedi l’estorsione di cui al capo 4, commessa dagli anni ’90 fino al 2016; l’usura di cui al capo 11, commessa dal gennaio 2018), sia valorizzando un elemento di forte natura logica, in forza del quale egli, se non fosse stato già intraneo al sodalizio investigato, non avrebbe potuto assumere, in un periodo di fibrillazione del gruppo successivo alla decisione presa da NOME COGNOME nel 2019 di collaborare con la giustizia, le iniziative di convocare gli altri partecipi alla famiglia COGNOME/COGNOME e di minacciare il nipote NOME, figlio del collaboratore, affinché lo facesse desistere dalla sua intenzione.
La Corte territoriale, ancora, ha spiegato, senza fratture logiche nel suo ragionamento, perché l’assoluzione di NOME COGNOME dalla contestazione di partecipazione al sodalizio di ‘ndrangheta nel separato procedimento “RAGIONE_SOCIALE” non potesse reputarsi decisiva per escludere, in modo automatico, la condotta “mafiosa” tenuta nel presente procedimento, osservando: a) che in quest’ultimo risultavano contestate le condotte estorsive di cui ai capi 4) e 7) oggetto di condanna in primo grado (cui seguì la morte dell’imputato) – che il giudice di merito, nel diverso procedimento, non aveva valutato; b) che neppure erano stati valutati, nell’altro procedimento, i rapporti intrattenuti da NOME COGNOME nel corso del 2017 con esponenti di altre organizzazioni ‘ndranghetistiche; c) che, infine, non erano stati valutati gli stretti rapporti intrattenuti da NOME COGNOME con il sodale NOME COGNOME.
La Corte di appello ha, dunque, chiarito, senza incorrere in illogicità manifeste, come vorrebbe la difesa, che, anche per ragioni anagrafiche, l’anziano NOME COGNOME aveva assunto, nel tempo, nel sodalizio una posizione più defilata,
il che spiegava perché, in seguito alla scelta collaborativa assunta da NOME COGNOME fosse stato il più giovane NOME COGNOME a farsi carico dei problemi insorti per il gruppo di riferimento. Né, proseguono i giudici del gravame, poteva parlarsi di una sorta di “estraneità” fra NOME e NOME, e ciò sia per elementari ragioni di parentela, sia perché, stando agli esiti captativi, in almeno un’occasione, NOME COGNOME, con lo zio NOME, si sarebbe dovuto recare a un pranzo a casa di NOME COGNOME esponente della cosca di Guardavalle; inoltre, è stato convenientemente rimarcato, a testimonianza di una continuità familiare anche nella gestione delle estorsioni, che NOME COGNOME fu colui che subentrò al cugino NOME deceduto, figlio di NOME, nell’esazione del profitto del reato commesso da anni in danno di NOME COGNOME (capo 4).
Correttamente apprezzata in funzione di tutela del gruppo di appartenenza, e, dunque, sintomatica dell’affectio societatis, è stata la condotta posta in essere dall’imputato subito dopo la collaborazione con la giustizia intrapresa dal COGNOME, dipanatasi, dapprima, attraverso una pervicace e intimidatoria pressione operata sui nipoti, figli del collaborante, per indurre quest’ultimo a tornare sui suoi passi (si veda la lunga conversazione del 14 agosto 2019 tra il ricorrente e il nipote NOME, riportata alle pagg. 98-100 della sentenza impugnata) e, subito dopo, una volta acquisita la certezza della irrevocabilità della scelta collaborativa, sviluppatasi mediante la convocazione dei COGNOME ancora in libertà e promuovendo riunioni con altri congiunti degli COGNOME e degli COGNOME.
Parimenti sintomatica dell’appartenenza mafiosa, nella ragionevole valutazione della Corte distrettuale, è la conversazione prog. 1677 (pag. 106), nella quale viene confermata la “linea” assunta nei confronti dei nipoti dal ricorrente, il quale riferiva a NOME quanto detto ad NOME, e cioè, che per avere “l’aiuto nostro” avrebbero dovuto essere “uomini liberi” fuori dal programma di protezione.
Generico e assertivo è il rilievo difensivo sulla pretesa contraddittorietà e illogicità della risposta fornita in sentenza sui messaggi vocali intercorsi tra COGNOME e COGNOME definito dal primo come “guardiano del tesoro generale e grande capo o boss”.
La Corte di Catanzaro, al riguardo, ha non illogicamente escluso che si trattasse di un mero atteggiamento goliardico e provocatorio del COGNOME, valorizzando una conversazione del 28 giugno 2019, nel corso della quale COGNOME e COGNOME rivelavano il timore di essere arrestati, dicendo che ormai a San Leonardo di Cutro le persone comunicavano a gesti (prog. 499 RIT 739/2019, richiamato a pag. 101). Aggiunge la sentenza, completando, con coerenza, il ragionamento sviluppato sul tema, che, nonostante COGNOME negasse la
circostanza del passaggio del “testimone” in suo favore dopo gli arresti per l’operazione “RAGIONE_SOCIALE“, doveva considerarsi rilevante la circostanza per cui, dopo la collaborazione intrapresa da NOME COGNOME era stato proprio lui a spiegare a COGNOME che effettivamente il collaborante aveva nascosto il “tesoro” e nessuno ne conosceva il luogo; dunque, a prescindere dalla circostanza che COGNOME fosse o meno il custode del tesoro, doveva reputarsi significativo, in correlazione all’ipotesi accusatoria elevata al capo 19), che egli, dopo il “pentimento” del cognato, fosse il sodale libero chiamato ad azioni svolte a protezione degli interessi del sodalizio.
Quanto meno infondate sono le censure di omessa valutazione delle dichiarazioni “scagionanti” lo COGNOME, rese da NOME COGNOME e di aver assegnato, nella ponderazione comparativa tra prova diretta (informazioni del COGNOME) e prova indiretta (coinvolgimento nei reati-fine e prova intercettativa), prevalenza alla prova diretta.
Nella valutazione contestata, la Corte di appello non ha fatto altro che conformarsi alla consolidata tradizione di legittimità, per cui «In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l’accertata falsità di uno specifico fatto narrato dal dichiarante non impedisce la valorizzazione delle parti ulteriori di un suo racconto più complesso, a condizione che queste siano supportate da precisi riscontri, anche non specifici, ma comunque idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva (tra le più recenti Sez. 1, n. 26966 del 01/12/2022, dep. 2023, NOME, Rv. 284836 – 01)».
La Corte suddetta, a pag. 94, nel fornire risposta al motivo di gravame riproposto pedissequamente nella presente sede, è giunta a un giudizio di inattendibilità parziale del narrato del COGNOME, il quale si era limitato a riferire che il cognato (COGNOME “lavorava” ed era estraneo a logiche criminali tipiche del territorio, valorizzando, in modo del tutto logico, le dichiarazioni rese dalle plurime vittime delle usure e delle estorsioni, le quali non avevano denunciato il ricorrente prima che, attraverso la prova captativa, i fatti delittuosi che lo coinvolgevano venissero alla luce, ma che, successivamente, avevano descritto senza incertezze la caratura criminale mafiosa da esse attribuita a NOME COGNOME individuato da tutte le persone offese come un esponente dell’omonima cosca, a dimostrazione di una fama criminale che non poteva di certo essere ignota solo a NOME COGNOME
Le dichiarazioni di quest’ultimo sul cognato, in quanto contraddette dalle altre evidenze probatorie, non potevano, pertanto, che essere giudicate volutamente reticenti, secondo quello che deve apprezzarsi come il corretto e coerente approdo cui è pervenuta la Corte di appello.
Non appropriato, per quanto detto, è, poi, il rilievo con cui si rimprovera alla Corte suddetta di non aver dato prevalenza alla prova dichiarativa diretta (narrato del COGNOME) su quella “indiretta” (coinvolgimento nei reati-fine e prova intercettativa), sia perché, nella specie, la prova “diretta” è stata giudicat inattendibile, sia perché, in tema di valutazione delle prove, la prova logica, raggiunta all’esito di un corretto procedimento valutativo degli indizi connotato da una valutazione sia unitaria che globale dei dati raccolti, tale da superare l’ambiguità di ciascun elemento informativo considerato nella sua individualità, non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto a quella diretta o storica (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M. e altri, Rv. 271228 – 01), fermo restando il principio del libero convincimento del giudice.
Le censure formulate a proposito della ritenuta valenza dei reati-fine in ottica associativa, nonostante, per alcuni di essi, lo stesso giudice del gravame abbia escluso la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.l. cod. pen., peccano, infine, di aspecificità, poiché non si confrontano appieno con il corretto argomentare costruito in sentenza: a) per un verso, infatti, omettono di considerare che detta aggravante è stata confermata con riferimento agli episodi estorsivi di cui ai capi 4) e 8) e con riguardo all’usura di cui al capo 11); b) pe altro verso, ignorano le valutazioni operate, in modo logico, in sentenza a proposito della percezione della “mafiosità” di NOME COGNOME da parte di tutte le vittime dei reati-fine (pag. 103).
In conclusione, il primo motivo di ricorso va respinto per complessiva infondatezza.
9.2. Viceversa, fondato è il secondo motivo di ricorso, con il quale ci si duole dell’omessa risposta al motivo di gravame afferente alla contestazione dell’aggravante dell’associazione armata di cui al quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen. (capo 19).
Invero, a fronte di un articolato motivo di appello, manca in sentenza ogni riferimento alla menzionata aggravante, anche dal punto di vista grafico, sicché si impone, in parte qua, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro, che provvederà a colmare la lacuna rilevata.
9.3. Infondato è il terzo motivo di ricorso, veicolato nella promiscua deduzione della violazione di legge e del vizio di motivazione, concernente l’estorsione aggravata commessa, in concorso con NOME COGNOME ai danni di NOME COGNOME
Non è dato riscontrare alcun vizio di motivazione, né violazione di legge, nella risposta fornita dalla Corte di appello alla obiezione difensiva, secondo cui le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa sarebbero state smentite dal
fratello NOME
Sul punto, infatti, la Corte di Catanzaro ha evidenziato, in coerenza con le emergenze, che NOME COGNOME aveva confermato il narrato del fratello a proposito delle estorsioni subite da parte della famiglia COGNOME a partire dagli anni ’90 per l’importo di 500.000 lire mensili, sicuramente versato fino alla morte del padre, avvenuta nel 2007.
Quanto agli accadimenti successivi al 2007, la Corte di merito ha rimarcato che NOME “nutriva la convinzione” circa il fatto che il fratello NOME non avesse proseguito nel pagamento, precisando, al tempo stesso, che il predetto avesse, tuttavia, ammesso di non avere al riguardo nessuna certezza, sicché non poteva escludersi che, invece, il fratello avesse continuato a pagare.
I giudici del gravame hanno, quindi, adeguatamente spiegato perché, proprio per la palesata incertezza sulla circostanza, le dichiarazioni rese da NOME COGNOME non potessero suonare come “smentita” dell’attendibilità del racconto riferito dalla persona offesa, attendibilità che, del resto, risultava suffragata dall intercettazioni acquisite, afferenti alla ricostruzione del rapporto esistente con NOME COGNOME e dalle ammissioni rese dallo stesso COGNOME sul rapporto usurario oggetto del capo 5) della rubrica; né, ha sottolineato logicamente la Corte di appello, erano emersi precisi motivi di astio che avrebbero dovuto indurre NOME COGNOME ad accusare falsamente l’imputato attribuendogli un ruolo nell’estorsione a cui, peraltro, la persona offesa era stata assoggettata per anni dalla famiglia COGNOME
9.4. Assertivo e rivalutativo, nonché aspecifico, è il quarto motivo di ricorso, concernente il delitto di estorsione commesso in danno di NOME COGNOME, oggetto del capo 8).
Il ricorso insiste nel prospettare, attraverso una propria lettura degli atti la tesi secondo cui l’importo versato all’imputato accedesse al rapporto di prestito esistente e rappresentasse un vantaggio usurario e non un’imposizione.
L’assunto difensivo, tuttavia, non si confronta con la lineare spiegazione fornita sul punto dalla Corte di appello, la quale, recependo la versione della persona offesa, di cui neppure la difesa contesta l’attendibilità, ha chiarito che lo stesso COGNOME nessun collegamento aveva rappresentato tra le estorsioni subite e l’usura cui era sottoposto, riferendo che ogniqualvolta aveva rifornito COGNOME, gratuitamente o con uno sconto, di bibite o altri prodotti, lo aveva fatto “perché così bisognava comportarsi con uno ‘ndranghetista come NOME COGNOME; tanto, infatti, gli era dovuto anche senza la necessità che egli esternasse minacce o usasse violenza.
Corretto anche in diritto, pertanto, è il richiamo, operato dai giudici territoriali, alle caratteristiche dell’estorsione “ambientale”, di cui si è dett
proposito dei precedenti ricorsi, e di quella “contrattuale” che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti, sicché l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo da lui ritenuto più opportuno (per tutte, Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 278998 – 01).
9.5. Il quinto motivo è fondato, limitatamente all’aggravante del metodo mafioso, contestata al capo 8).
Secondo l’orientamento di legittimità condiviso dal Collegio, «In tema di estorsione, nel caso in cui il delitto sia commesso, con minaccia “silente”, da soggetto appartenente ad un’associazione di tipo mafioso, sussiste l’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3), cod. pen., richiamata dall’art. 629, comma secondo, cod. pen., la cui configurabilità è correlata alla sola provenienza qualificata della condotta intimidatoria, ma non quella di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., sotto il profilo dell’utilizzo del metodo mafioso, che postula un’ulterior esternazione, funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, COGNOME e altri, Rv. 285059 – 01)».
Essendo, nella specie, come sottolineato nell’esame del motivo che precede, il delitto di estorsione stato realizzato con minaccia “silente”, nutrita dal contesto ambientale, non è legittima la contestazione concorrente delle due aggravanti prima menzionate, dovendo escludersi quella attinente all’utilizzo del metodo mafioso in quanto, per come esposto in sentenza, è mancata, da parte dell’imputato, “un’ulteriore esternazione, funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato”.
La pronuncia impugnata va, quindi, in parte qua, annullata senza rinvio, con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen.
Ad opposte conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla medesima aggravante contestata al capo 4).
Riguardo a tale diversa estorsione, a pag. 76 della sentenza avversata, la Corte di merito ha dato atto, con lineare argomentazione, della “ulteriore esternazione” proveniente dal concorrente NOME COGNOME il quale aveva fatto riferimento alla protezione di cui la vittima avrebbe goduto se avesse pagato il “pizzo”, facendo, così, leva sulla tipica modalità di azione delle consorterie mafiose operanti in quel territorio.
9.6. Infondato è il sesto motivo di ricorso, inerente alla contestata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., nella sua declinazione agevolativa, con riguardo ai capi 4) e 11).
Premessa l’inconferenza della censura di contraddittorietà della motivazione per avere la Corte di appello ritenuto, per alcuni reati, solo il metodo mafioso e, per altri, solo la finalità agevolativa, dato che non può essere sindacato il libero convincimento del giudice di merito, se adeguatamente motivato, va detto che, sia per il capo 4) che per il capo 11), la giustificazione argomentativa addotta in sentenza non presta il fianco a critiche spendibili in sede di legittimità.
Quanto al capo 4), la Corte territoriale ha non illogicamente osservato (pag. 76) che l’esercizio del potere di intimidazione ai danni di un piccolo imprenditore (il vivaista COGNOME), vessato per decenni dalla famiglia COGNOME, nel territorio di operatività della locale di San Leonardo di Cutro, ha finito per agevolare il sodalizio mafioso, la sua operatività e il suo radicamento nel territorio anche favorendo il consolidarsi dell’atteggiamento omertoso della collettività.
Quanto al capo 11) (usura aggravata in danno di NOME COGNOME, titolare di un’agenzia di viaggi), la motivazione si trova a pag. 82 e fa leva, con argomentare immune da vizi logici, sulla capacità della cosca, attraverso i prestiti a usura erogati a piccoli imprenditori e commercianti, di infiltrarsi nel tessuto economico dei piccoli centri uscendone rafforzata.
9.7. Manifestamente infondato è anche il settimo ed ultimo motivo di ricorso, con cui si eccepisce l’erronea applicazione degli aumenti di pena a titolo di continuazione.
Il trattamento sanzionatorio è stato determinato, nei due gradi di merito, come segue.
Il giudice di primo grado ha individuato nel capo 19) (associazione mafiosa aggravata) il reato più grave, applicando la pena base di 15 anni; ad essa ha aggiunto, per ciascuno dei sei reati-satellite (capi 4-5-8-9-10-11), un anno di reclusione, per complessivi 21 anni, ridotti per il rito abbreviato a 14.
La Corte di appello, confermata la pena base in 15 anni di reclusione, ha ritenuto di dover rideterminare la pena, in considerazione dell’esclusione dell’aggravante mafiosa per i reati sub capi 5), 9) e 10).
Per questi ultimi tre capi (5-9-10), quindi, la frazione di pena risulta ridott da 1 anno a 10 mesi di reclusione ciascuno.
Per i capi 4) (confermata l’aggravante mafiosa nella duplice declinazione) e 11) (cade il metodo, residua la finalità agevolativa), invece, viene confermato l’aumento di 1 anno ciascuno: solo in relazione al capo 11) viene specificato che 2 dei 12 mesi sono dovuti alla circostanza aggravante mafiosa, precisazione che non si ripete per il capo 4).
Per il capo 8), infine, l’aumento viene ridotto da 1 anno a 9 mesi di reclusione “considerando la concreta portata lesiva”.
In sostanza, la misura finale della riduzione della pena inflitta in primo
grado è di 6 mesi di reclusione.
Il difensore del ricorrente ha dedotto la violazione, nella specie, del principio di legittimità per cui «In tema di reato continuato, il giudiz di comparazione fra circostanze trova applicazione con riguardo alle sole aggravanti ed attenuanti che si riferiscono al fatto considerato come violazione più grave, dovendo tenersi conto di quelle relative ai reati “satellite” esclusivamente ai fini dell’aumento di pena ex art. 81 cod. pen. (Sez. 1, n. 13369 del 13/02/2018, COGNOME, Rv. 272567 – 01)».
La doglianza, come detto, è manifestamente infondata.
Ed invero, in assenza di attenuanti, i giudici di merito hanno determinato la pena base per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, correttamente ritenuto il più grave, applicando l’aumento di pena per la circostanza aggravante a effetto speciale di cui al quarto comma (associazione armata) nel minimo edittale e omettendo di applicare l’ulteriore aumento fino a un terzo, facoltativo ai sensi dell’art. 63, quarto comma, cod. pen., per la concorrente aggravante del sesto comma.
Il “peso” della circostanza aggravante mafiosa è stato correttamente apprezzato nell’applicare le frazioni di pena per i reati-satellite in relazione ai qua l’aggravante è rimasta in piedi.
Dunque, in nessuna violazione di legge è incorsa la Corte di appello nella determinazione del trattamento sanzionatorio, diversamente da quanto prospettato in ricorso; ricorso, che, peraltro, non si perita neppure di precisare quale lesione in concreto avrebbe subito l’imputato da siffatta determinazione, posto che la riduzione complessiva finale della pena inflitta allo SCERBO consente di escludere qualsivoglia ipotesi di reformatio in peius.
9.8. In conclusione, ricapitolando, nei confronti di NOME COGNOME la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen., contestata al capo 8 dell’imputazione, aggravante che va esclusa.
La medesima sentenza va, inoltre, annullata limitatamente all’aggravante di cui all’art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., contestata al capo 19 dell’imputazione, con rinvio per nuovo giudizio sul punto e per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro.
Nel resto, il ricorso di NOME COGNOME va rigettato.
Va precisato, per completezza, che non dev’essere disposta la condanna dei ricorrenti, nei confronti dei quali l’impugnazione è stata rigettata e dichiarata inammissibile, al rimborso delle spese processuali in favore
delle parti civili, dal momento che nessuna di esse è intervenuta nella discussione in pubblica udienza (Sez. 4, n. 9179 del 31/01/2024, B., Rv. 285911 – 01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. c.p., contestata al capo 8
dell’imputazione, aggravante che esclude.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente all’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, c.p. contestata al
capo 19 dell’imputazione, con rinvio per nuovo giudizio sul punto e per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro.
Rigetta nel resto il ricorso di COGNOME NOME.
Dichiara inammissibili i ricorsi di NEMESH Volodymyr e COGNOME Martino
NOME e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Rigetta i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2025
Il Consigliere estensore
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Il Presidente