Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 11790 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 11790 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME COGNOME nato a LATINA il 24/01/1963 NOME nato a LATINA il 10/11/1992
avverso la sentenza del 10/06/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona della Sostituta Procuratrice NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; udito il difensore di COGNOME, Avv. NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso; uditi i difensori di COGNOME, Avv. NOME COGNOME e Avv.
COGNOME i quali hanno insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 10 giugno 2024, ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto NOME NOME responsabile del reato di cui ai capo 1 (estorsione aggravata ai danni di COGNOME NOME), 2 (estorsione aggravata ai danni di COGNOME NOME), 3 (rapina
aggravata ai danni di NOME NOME) e 4 (tentata estorsione aggravata ai danni di NOME NOME) e NOME Costantino responsabile dei reati di cui ai capi 2 e 3, dando atto che la sentenza di primo grado aveva riguardato anche ulteriori condotte, giudicate con sentenza della Corte di appello di Roma del 13 luglio 2023, che aveva comportato per COGNOME NOME la condanna per i capi 5), 11), 12), 13 e 14) e per NOME la condanna per i capi 6), 7) e 9).
1.1 Avverso la sentenza ricorre per Cassazione il difensore di COGNOME COGNOME premettendo che la Corte di appello aveva ritenuto i fatti di cui al presente procedimento in continuazione con i fatti giudicati con la sentenza della Corte di appello di Roma del 13.07.2023 e rilevando che vi era stato un errore nel calcolo degli aumenti per i reati posti in continuazione e la violazione dell’art. 597 comma 3 cod. proc. pen. in riferimento ai capi 11) e 14) dell’imputazione ed all’aumento per le aggravanti: con riferimento a tale ultimo aspetto, il giudice di primo grado aveva ritenuto di applicare la regola di cui all’art. 63 comma 4 cod. pen. operando un singolo aumento pari ad anni 2; l’aumento veniva calcolato quindi sull’aggravante di cui all’art. 416 -bis .1 cod. pen., ritenendo le altre aggravanti assorbite per il principio ivi enunciato; la Corte di appello si era invece affidata ad una diversa operazione sommando le due aggravanti, seppur pervenendo ad una pena complessivamente minore, ma la suddetta operazione non era consentita non essendovi impugnazione della parte pubblica, con conseguente necessaria elisione della sezione di aumento di pena irrogato.
Il difensore rileva inoltre che il giudice di primo grado, nel quantificare gli aumenti per i reati posti in continuazione, aveva assegnato per ogni reato mesi 4, giorni 20 di reclusione ed € 333,33 di multa; la Corte di appello aveva invece ritenuto, in v iolazione del principio enunciato dall’art. 596 comma 3 cod. proc. pen., di irrogare per il reato sub 11) (mutando Corte di appello del 13.07.2023) la pena di mesi sei di reclusione ed € 400,00 di multa, in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero; il principio si applicava anche per il reato sub 14), rispetto al quale la Corte di appello aveva irrogato una sanzione pari a mesi cinque di reclusione.
Il difensore rileva che il giudice dell’appello aveva operato un indistinto aumento per la continuazione senza alcuna motivazione.
1.2 Si eccepisce che la Corte di appello, nello scrutinare la condotta contestata al capo 3), è incorsa in un evidente errore di qualificazione giuridica, oltre a porsi in netto contrasto con quanto ritenuto proprio in relazione alla descrizione delle varie fasi del fatto imputato, visto che le modalità dell’episodio del casolare e quelle della ritenuta rapina erano le medesime; in punto di condotta concorsuale del ricorrente, la Corte di appello non ha analizzato compiutamente l’apporto partecipativo dell’imputato, deducendolo semplicemente dalla
circostanza che era stato l’autore delle altre condotte; la stessa Corte di appello ha chiarito che era stato Costantino ad iniziare l’azione delittuosa, che la motivazione si poneva in insanabile contrasto in relazione alla posizione di COGNOME NOME, ritenuta non partecipativa, e che il luogo di commissione del fatto era stato definito neutrale e la condotta di accerchiamento era stata definita generica, elementi valorizzati per escludere la partecipazione di COGNOME e per colorare invece l’ipotesi di rapina in riferimento alla posizione di COGNOME Antonio, il cui apporto partecipativo è stato dedotto semplicemente dalla circostanza che era l’autore delle altre condotte; ciò inficia anche il punto della sentenza impugnata in cui la Corte di appello ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante della minorata difesa.
1.3 Il difensore lamenta il mancato riconoscimento delle condotte in un unico reato.
1.4. Si impugna la sentenza in relazione a tutti i capi di imputazione in punto di riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 416 -bis .1 cod. pen., osservando che non vi era stato alcun accertamento giudiziale successivo a quanto descritto nella sentenza ‘Caronte’, relativa a fatti commessi nel 2010, in merito all’esistenza di una consorteria criminale raffigurabile sotto l’egida dell’ar t. 416bis cod. pen., fatta eccezione per la sentenza ‘Alba Pontina’, che però non riguardava nessuno dei soggetti interessati al presente procedimento; non risultava accertato se il ricorrente fosse intraneo ad una non accertata associazione di stampo mafioso; lo stesso giudice di primo grado aveva fondato il convincimento circa la sussistenza della contestata circostanza sulla reazione delle vittime e sull’ appartenenza alla etnia Sinti, e non sull’ effettiva metodologia posta in essere dall’imputato; tutte le vicende inerenti le condanne di altri soggetti con i quali COGNOME NOME non rispondeva neanche a titolo di concorso non interessavano, come quella richiamata per NOME COGNOME non poteva coinvolgere il ricorrente che, al netto di una lontana parentela, non aveva alcuna cointeressenza con tale soggetto; in tutti gli episodi le condotte prevaricatrici rientravano pienamente nello schema dell’art. 629 cod. pen., senza avere connotati di gra vità maggiore rispetto all’originario atteggiamento estorsivo.
Propongono ricorso i difensori di COGNOME COGNOME.
2.1. Si eccepisce la violazione dell’art. 110 cod. pen., per avere la sentenza impugnata ritenuto sussistente il concorso del ricorrente nel delitto di estorsione di cui al capo 2), ed il travisamento della denuncia sporta da NOME COGNOME e/o la manifesta illogicità della sentenza in tema di concorso del ricorrente: nella vicenda in esame risultano del tutto mancanti gli elementi del contributo causale e dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente; il comportamento da questi tenuto, come descritto nelle dichiarazioni delle persone offese, non poteva configurare in
alcun modo un concorso né materiale né morale nell’azione delittuosa asseritamente commessa da COGNOME NOME; l’unico elemento oggettivo è costituito dalla mera presenza del ricorrente sul posto, luogo ove pacificamente abitava, nonché sulla base dei riferimenti di COGNOME NOME a propri familiari, rivolti a Ladisa, e sulla percezione da parte della persona offesa della presenza del ricorrente sul posto; il giudice di appello aveva sostenuto che il ricorrente avrebbe avuto un ruolo di supervisione della vicenda estorsiva che lasciava materialmente gestire ad altri, affermazione certamente errata in quanto il ricorrente non rispondeva del capo di imputazione numero 1), per cui non poteva sostenersi che fosse stato non solo consapevole, ma addirittura ideatore, promotore e supervisore della condotta tenuta da COGNOME Antonio proprio perché estraneo alla richiesta originaria, che era stata ascritta in maniera esclusiva ad un’iniziativa di quest’ultimo; lo stesso sviluppo dell’azione escludeva che NOME NOME COGNOME avesse avuto un ruolo nella vicenda di cui al capo di imputazione n.2).
2.2. Si osserva che nel capo di imputazione n.2) si sarebbe dovuto ritenere sussistente il reato di truffa, non essendosi la Corte di appello confrontata con la denuncia sporta da NOME COGNOME; l’insinuazione del pericolo di vita per la famiglia COGNOME derivante dalla famiglia COGNOME e concretizzatasi nella supposta spedizione punitiva descritta da di NOME ad NOME COGNOME, della quale non appare alcuna evidenza storica e probatoria, aveva rappresentato una motivazione per NOME COGNOME a consegnare il denaro a COGNOME NOME NOME; si erano pertanto realizzati tutti i requisiti per il riconoscimento del reato di truffa c.d. vessatoria in luogo del diverso reato di estorsione.
2.3. Si eccepisce che la sentenza impugnata aveva omesso di motivare e aveva motivato illogicamente in riferimento alle doglianze espresse dalla difesa in ordine alla credibilità delle dichiarazioni della persona offesa sulla vicenda di cui al capo 3) di imputazione, nonché aveva omesso di valutare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ovvero aveva motivato in oggettivo contrasto letterale con le dichiarazioni rese dal collaboratore COGNOME NOME in data 26/01/2017 in tema di ruolo svolto da NOME COGNOME, con conseguente mancanza di credibilità delle dichiarazioni della persona offesa: in particolare, il fatto che, come dichiarato da NOME COGNOME, NOME COGNOME avrebbe avocato a sé ogni decisione e redarguito NOME Antonio per aver chiuso la vicenda senza il suo permesso era in contrasto con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che indicavano NOME come soggetto situato al di sotto della gerarchia familiare rispetto agli altri individui indicati come presenti nella vicenda in esame da COGNOME non si comprendeva, inoltre, per quale ragione COGNOME non fosse stato in grado di condurre le forze dell’ordine in un luogo (il casolare dove sarebbero avvenuti i fatti) distante poche centinaia di metri dalla sua abitazione solo pochi giorni dopo
l’evento e che in sede di individuazione fotografica non fosse riuscito a fornire una descrizione neppure sommaria dei partecipanti all’incontro; inoltre, non si comprendeva come NOME COGNOME potesse avere a disposizione e consegnare la somma complessiva in contanti di ben 1.600 euro, senza alcun preavviso e, quanto al capo 3) l’illogicità dell’assunto relativo alla possibilità che la persona offesa avesse potuto ipotizzare una nuova richiesta con un ammontare del tutto differente rispetto alle richieste ricevute in precedenza: occorreva ribadire anche la doglianza relativa all’assunto della persona offesa relativo al ruolo di preminenza che avrebbe avuto il ricorrente, in manifesto contrasto con le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia; la motivazione della Corte di appello sul punto era in contrasto anche con le dichiarazioni rese dal collaboratore COGNOME che aveva espressamente affermato che in occasione della carcerazione di COGNOME Silvio NOME, le decisioni spettavano al primo figlio, cioè a COGNOME NOME NOME.
2.4. Si eccepisce l’erroneità della decisione della Corte di appello che aveva riconosciuto sussistente l’aggravante di cui all’art. 416 -bis . 1 cod. pen.; nessun riferimento alla famiglia di appartenenza era stato fatto dal ricorrente in ordine alla condotta descritta nel capo di imputazione n.2), né a quella asseritamente tenuta in occasione dei fatti di cui al capo di imputazione n.3) e la Corte di appello aveva ricavato la sussistenza del metodo mafioso attraverso l’apprezzamento isolato della asserita pregressa condanna di altri soggetti (non il ricorrente) per il procedimento denominato ‘Caronte’, valorizzando unicamente le frasi asseritamente profferite da un altro imputato circa l’offerta di protezione, ma senza alcuna indicazione di una condotta concreta tenuta dal ricorrente ed evocativa dell’agire mafioso.
2.5. Si rileva che la Corte di appello ha ritenuto corretta la configurazione giuridica del reato di cui al capo di imputazione n.3), che avrebbe dovuto essere sussunta nella fattispecie di cui all’art. 629 cod. pen. come facente parte della condotta contestata al capo di imputazione n.2); innanzitutto valeva la pena di precisare che, proprio per aver subìto una precedente estorsione, NOME era ben conscio di trovarsi di fronte ad una richiesta di tale natura, e in secondo luogo l’annullamento della volontà della vittima era stato motivato in maniera del tutto congetturale, cioè desunto dall’accerchiamento all’interno di un appartamento e dall ‘ acquisita consapevolezza della superiorità gerarchica del ricorrente rispetto a COGNOME Antonio, mentre non emergevano elementi a cui ancorare una tale asserzione.
2.6. Si eccepisce l’assenza di motivazione in ordine alla richiesta di riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. e delle attenuanti generiche, non essendo stati considerati l’esiguità delle somme estorte e la
sostanziale incensuratezza del ricorrente, al quale infatti non era stata contestata la recidiva, e la cui condotta non era mai stata connotata da violenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME è infondato.
1.1 Relativamente al primo motivo di ricorso, si deve ribadire che ‘non viola il divieto di ” reformatio in peius ” previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore’ (Sez. U., n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653 -01); nel caso in esame, poiché il giudice di primo grado aveva ritenuto quale reato più grave quello di cui al capo 2), la Corte di appello, avendo ritenuto invece più grave il reato di cui al capo 5) (giudicato nel procedimento di cui alla sentenza della Corte di appello di Roma del 13 luglio 2023), aveva il solo limite di non infliggere una pena complessivamente maggiore, come in effetti avvenuto, in quanto, come efficacemente evidenziato nella motivazione della sentenza sopra citata ‘Se muta uno dei termini (vale a dire, una o più delle regiudicande cumulate o il relativo “bagaglio” circostanziale) oppure l’ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la più grave o muta la qualificazione giuridica di quella più grave), sarà lo stesso meccanismo di unificazione a subire una “novazione” di carattere strutturale, non permettendo più di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio; ove così fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione. In tali casi, pertanto, l’unico elemento di confronto non può che essere rappresentato dalla pena finale, dal momento che è solo questa che “non deve essere superata” dal giudice del gravame….è evidente che non si può stabilire alcun termine di comparazione rispetto agli aumenti determinati dal primo giudice se è la stessa base di commisurazione che cambia’; in altri termini, il divieto sancito dalla sentenza delle Sezioni Unite NOME COGNOME relativo anche ai calcoli intermedi può trovare applicazione soltanto nelle ipotesi in cui il reato continuato conservi anche nel giudizio di impugnazione la sua entità ontologica.
L’irrogazione di una pena complessivamente inferiore comporta quindi l’inammissibilità del motivo di ricorso; quanto alla omessa specificazione degli aumenti per la continuazione, si deve rilevare che la Corte di appello ha
evidenziato ‘la gravità del contesto criminale nel quale i fatti sono maturati, la capacità a delinquere dimostrata….da NOME Antonio’; si deve poi rilevare che gli aumenti sono stati apportati per la stessa tipologia di reato (estorsione consumata e tentata e rapina), per cui correttamente è stato applicato lo stesso aumento per ogni reato.
Si deve infine rilevare come non sia stata prodotta la sentenza della Corte di appello del 13 luglio 2023, posta a base delle eccezioni del ricorrente, per cui il motivo è comunque generico.
1.2 Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Preliminarmente, si deve rilevare come la tesi del ricorrente secondo la quale il reato di cui al capo 3) debba essere qualificato come estorsione e non come rapina è corretta: la Corte di appello ha affermato che ‘la volontà del soggetto passivo era stata annullata per effetto della intimidazione subita. Non solo, il Ladisa nello stesso giorno era già stato vittima di estorsione posta in essere con modalità mafiose, era stato condotto in un casolare, ma era stato convocato in casa di Costanzo, accerchiato da più persone che agivano riunite nel medesimo contesto di spazio e di tempo spalleggiando il dominus, in condizioni di minorata difesa per trovarsi all’interno di un appartamento dove era stato fatto appositamente salire da NOME COGNOME; … non ebbe altra scelta in quel contesto concreto se non pagare quanto gli venne richiesto espressamente dal ca po’.
Non si comprende però quale sia la differenza tra la condotta contestata al capo 2) come estorsione e la rapina di cui al capo 3), visto che unico elemento distintivo era che il secondo fatto si era verificato in una abitazione; le minacce nei confronti della persona offesa erano sempre le medesime (il pagamento di un prezzo in cambio della ‘protezione’ ) , per cui non si ravvisa quale sia l’elemento della assoluta costrizione della persona offesa al pagamento; non è stata fatta, pertanto, corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte in base alla quale ‘La rapina si differenzia dall’estorsione in virtù del fatto che in essa il reo sottrae la cosa esercitando sulla vittima una violenza o una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo di determinarsi diversamente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto correttamente qualificata alla stregua di tentata estorsione la condotta dell’imputato, il quale aveva minacciato il proprio inquilino, sparando un colpo di pistola contro il muro, affinché gli corrispondesse anticipatamente il canone di locazione dell’immobile, mediante consegna di una somma di denaro che in quel momento non aveva con sé)’ (Sez.2, n. 15564 del 08/04/2021, COGNOME, Rv. 281102).
Ciò premesso, si deve rilevare che il ricorrente non ha alcun interesse ad una diversa qualificazione del reato contestato, interesse che potrebbe sussistere soltanto qualora si giungesse a ritenere tutti gli episodi contestati frutto di un’unica condotta estorsiva, come chiesto nel terzo motivo di ricorso, che è però da ritenersi manifestamente infondato per le argomentazioni che seguono.
Quanto alla partecipazione di NOME COGNOME nel reato di cui al capo 3), premesso che anche il soggetto che rimanga silente durante la richiesta risponde del reato di estorsione in quanto tale condotta svolge un contributo materiale e morale in relazione al rafforzamento dell’effetto intimidatorio della pretesa estorsiva, si deve rilevare che l’eccezione non era stata proposta nell’atto di appello, così come non era stata proposta alcuna ce nsura sull’aggravante della minorata difesa; pertanto, il motivo è inammissibile, essendo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perchè non devolute alla sua cognizione (vedi Sez. 5, Sentenza n. 28514 del 23/04/2013, Rv. 255577; Sez. 2, Sentenza n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316 -01).
Ad analoga conclusione deve pervenirsi per la sollecitata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen. , censura non formulata in appello.
1.3 Relativamente alla richiesta di considerare tutti gli episodi quali un’unica estorsione, si deve ribadire che ‘in tema di estorsione, le diverse condotte di violenza o minaccia poste in essere per procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonome ipotesi di reato, consumate o tentate, unificabili con il vincolo della continuazione quando, singolarmente considerate, in relazione alle circostanze del caso concreto, alle modalità di realizzazione e all’elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità, dovendosi invece ravvisare un unico reato allorchè i molteplici atti di minaccia costituiscano singoli momenti di un’unica azione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabili due estorsioni nell’invio ad un imprenditore agricolo di due differenti missive, sia pure inviate a distanza di breve tempo, entrambe dal contenuto minaccioso, ma riferite, la prima, ad una generica proposta di protezione in cambio di denaro, la seconda, alla pretesa di denaro per la restituzione d i mezzi agricoli rubati)’ (Sez.2, n. 37297 del 28/06/2019, C., Rv. 277513); nel caso in esame, la Corte di appello ha evidenziato (pag.20) che ‘le diverse azioni criminose pur se sorrette da una stessa causa restano distinte e non possono essere intese come unitarie. Ciò sia per la diversità dei soggetti che, dal lato degli autori, ha preso parte alle condotte, agendo nel primo caso COGNOME (nomignolo attribuito ad NOME COGNOME ndr) da solo e dopo con gli altri imputati a cui le azioni sono riconducibili, sia per la diversità delle persone offese (COGNOME NOME prima, COGNOME NOME dopo) sia infine quando
agisce invece da solo COGNOME per il lasso temporale e logico che separa gli episodi. Certamente le azioni presentano connotati di forte collegamento secondo i caratteri del reato continuato essendo sorrette dal medesimo disegno criminoso’; la motivazione appare congrua e coerente con le risultanze processuali.
1.4 Il motivo di ricorso relativo all’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416bis cod. pen. è manifestamente infondato: sul punto non può che ribadirsi quanto affermato da questa stessa sezione nella sentenza n. 47094/2023 emessa a seguito del ricorso proposto dall’originario coimputato COGNOME COGNOME: ‘ In particolare è stato evidenziato come la imposizione della ‘protezione’ costituisca di per sé una condotta tipicamente mafiosa perché evocativa di un potere di controllo del territorio riconducibile solo a gruppi criminali organizzati capaci di contrastare la potenza criminale antagonista (nel caso di specie quella dei COGNOME). In effetti, solo una organizzazione criminale potentemente radicata nel territorio e per questo capace di controllarne le vicende criminali, può offrire siffatto “servizio” alle vittime, sostitutivo di quello fornito dallo Stato e che un soggetto, da solo, non potrebbe mai garantire. Per di più, nel caso in esame, come sottolineato dal giudice di appello, le modalità sia della richiesta estorsiva, avanzata materialmente da COGNOME Antonio alla presenza costante di COGNOME Ferdinando, sia della rapina cui l’imputato ha contribuito materialmente accerchiando la vittima, rivelano la pregnante valenza intimidatoria delle condotte criminose, amplificata dai riferimenti espressi al gruppo familiare di appartenenza, effettuati in più occasioni da COGNOME Antonio’.
Si deve inoltre rilevare che ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso” non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo; la “ratio” sottostante all’art. 416 -bis .1 cod. pen. non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata; la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi sopra indicati, evidenziando a pag.18 gli elementi in base ai quali è stata ritenuta sussistente la contestata aggravante.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è infondato.
2.1 Relativamente al concorso del ricorrente nel capo 2) vi è motivazione alle pagine 21 e 22, nelle quali la Corte di appello evidenzia la presenza di COGNOME NOME COGNOME durante tutte le fasi della estorsione, dalla minaccia fino alla consegna del denar o, che si allontanava soltanto quando l’estorsione era giunta a compimento: la presenza del ricorrente non era quindi casuale, ma aveva il chiaro intento di rafforzare la pretesa estorsiva, rendendo palese alla vittima che la stessa non proveniva da una sola persona, ma dal clan dei Di Silvio.
2.2 Anche per quanto riguarda il reato di truffa, deve essere richiamato quanto affermato da questa sezione nella sentenza n. 47094/2023, a proposito dell’analogo motivo di ricorso ivi proposto: ‘ Va ribadito infatti che si ha truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, comma secondo, n.2, c.p., quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all’azione od omissione versando in stato di errore, mentre ricorre il delitto di estorsione quando viene prospettata l’esistenza di un pericolo reale di un accadimento, nel caso di specie dato dal protrarsi dell’attegg iamento minaccioso dei Di Silvio se COGNOME non avesse accondisceso a consegnare i soldi, il cui verificarsi è attribuibile, direttamente all’agente ed è tale non da indurre la persona offesa in errore, ma, piuttosto, nel porla nell’alternativa ineluttabile di soggiacere alle richieste dell’agente o di incorrere nel danno minacciato (Sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015, Rv. 265362; Sez. 2, n. 24624 del 17/07/2020, Rv. 279492).’; la motivazione della Corte di appello, contenuta a pag.24 della sentenza impugnata, ha correttamente applicato la giurisprudenza sopra richiamata, ponendo l’accento sulla intimidazione posta in essere ai danni dei Ladisa da parte dei Di Silvio.
2.3 Il terzo motivo di ricorso propone una rilettura degli elementi fattuali non consentita in questa sede: sono infatti precluse alla Corte di legittimità sia la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento delle decisione impugnata che l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una maggiore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare al controllo se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecament e razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (Sez. Un., sent. n. 12 del 31/5/2000, Jakani, Rv. 216260).
Nel caso in esame non si rinvengono manifeste illogicità nel ragionamento esposto dai giudici della Corte d’appello, in quanto esso risponde ai parametri sopra indicati e risulta, pertanto, tale da sottrarsi al sindacato di questa Corte (cfr. Sez. 1, sent. n. 23568 del 4/5/2016, n.m. ): in particolare, la Corte di appello ha enunciato le ragioni per le quali ha ritenuto pienamente attendibile il racconto della persona offesa, precisando anche perché non è stato ritenuto sussistente alcun
contrasto tra quanto dichiarato da NOME e quanto detto dai collaboratori di giustizia (si vedano le considerazioni contenute a pag. 23 della sentenza impugnata).
2.4 Relativamente alle eccezioni sulla applicabilità dell’art. 416 -bis .1 cod. pen., si richiamano le considerazioni espresse al punto 1.4, con l’aggiunta che la motivazione contenuta a pag.21 della sentenza impugnata ha evidenziato che la richiesta estorsiva poggiava sulla opera di mediazione che gli imputati avrebbero potut o attuare per evitare una ‘guerra tra bande’ possibile soltanto a condizione che gli stessi facessero parte a loro volta di un gruppo organizzato.
2.5 Sulla qualificazione giuridica del reato di cui al capo 3) si richiamano le considerazioni espresse al punto 1.2.
2.6 Quanto all’ultimo motivo di ricorso, si deve rilevare che la concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità presuppone necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, e tale non è il caso in esame; le attenuanti generiche sono state negate dalla Corte di appello in considerazione della gravità delle condotte e del ruolo apicale assunto da NOME COGNOME (si veda ultima pagina della sentenza impugnata) con motivazione che, essendo esente da censure, è insindacabile in cassazione.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, le parti private che li hanno proposti devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 12/03/2025