Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 15767 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 15767 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 15/04/2025
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 28 febbraio 2024 la Corte di Appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa in data 7 maggio 2019 dal Tribunale di Napoli Nord con la quale era stata affermata la penale responsabilità degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione ai seguenti reati:
per tutti (capo A): delitto di usura continuata e aggravata (artt. 81, comma 2, 110, 644, comma 1 e comma 5, nn. 3 e 4, cod. pen. e 7 l. 103/1991 – ora art. 416bis .1 cod. pen.) con i ruoli per il COGNOME di finanziatore della somma di denaro da concedere in prestito, per il COGNOME quale intermediario tra le vittime (NOME COGNOME e NOME COGNOME) ed il COGNOME per la concessione del prestito e, altresì, quale esattore degli interessi usurari unitamente al COGNOME, per NOME COGNOME quale intermediaria per la restituzione del prestito per conto della sorella NOME COGNOME, quest’ultima quale esattrice della somma capitale; reato aggravato dallo stato di bisogno delle vittime esercenti attività imprenditoriale (commercio di fiori) e dal fatto di essersi avvalsi delle condizioni dei cui all’art. 416bis cod. pen. per essere il COGNOME al vertice dell’organizzazione camorristica denominata clan COGNOME–COGNOME operante nel territorio di Qualiano e per agevolare l’organizzazione medesima – fatti risalenti tra la fine del 2011 e il settembre 2012;
per NOME COGNOME (capo B): delitto di tentata estorsione (artt. 56, 629 cod. pen.) ai danni di NOME COGNOME – fatto risalente ad epoca successiva e prossima al settembre 2012;
per NOMECOGNOME (capo C): delitto di tentata estorsione (artt. 56, 629 cod. pen.) sempre ai danni di NOME COGNOME – fatti risalenti agli anni 2014-2015.
Per dovere di completezza occorre evidenziare:
che la circostanza aggravante dello stato di bisogno in relazione al reato di usura Ł stata esclusa dal Tribunale;
che al COGNOME Ł stata contestata e ritenuta sussistente la circostanza aggravante della recidiva reiterata infraquinquennale, peraltro valutata con equivalenza rispetto alle riconosciute circostanze attenuanti generiche;
che a NOME COGNOME e ad NOME COGNOME era stata contestata la circostanza aggravante della recidiva semplice, esclusa però dal Tribunale.
Ricorrono per cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati, deducendo:
2.1. per NOME COGNOME e NOME COGNOME (ricorso unitario):
2.1.1. Violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 187 e 192 cod. proc. pen., 644 e 110 cod. pen.
Deduce la difesa delle ricorrenti che difetterebbe nel caso in esame la prova del ruolo svolto nelle vicende dalle due imputate e che, in particolare, dal confronto delle dichiarazioni delle persone offese COGNOME e COGNOME, non emergerebbe alcun ruolo di NOME COGNOME nell’intermediazione per il perfezionamento del reato di usura.
Aggiunge la difesa delle ricorrenti che, in relazione alla marginale posizione di NOME COGNOME, lo stesso Procuratore generale aveva richiesto per la stessa il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. non essendo stata accertata a carico della stessa la consapevolezza dell’esistenza del prestito e della natura usuraria dello stesso ed essendosi la
predetta, peraltro mai indagata per il reato di cui all’art. 416bis cod. pen., limitata a riportare un messaggio alla sorella NOME
Quanto, poi, alla posizione dell’imputata NOME COGNOME le prove a carico della stessa sarebbero esclusivamente di natura indiziaria e la Corte di appello avrebbe ignorato gli elementi sul punto addotti dalla difesa, essendo l’imputata venuta a conoscenza dell’esistenza del prestito usurario solo anni dopo i fatti ascoltando una telefonata fatta dal marito (il COGNOME).
Ancora, mentre sarebbe provata l’esistenza del prestito effettuato dal COGNOME, non vi sarebbe prova della restituzione della somma finanziata nelle mani di NOME COGNOME
2.1.2. Violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 416bis .1, 378, 62bis , 69, 114, 81, 132 e 133 cod. pen.
Evidenzia innanzitutto la difesa delle ricorrenti che nel momento in cui la Corte di appello ha fatto esplicito riferimento all’aggravante di cui all’art. 416bis .1 cod. pen. sotto il profilo della finalità di agevolazione del clan camorristico, la stessa ha implicitamente escluso la ricorrenza della circostanza aggravante dell’uso del ‘metodo mafioso’.
A ciò si aggiunge che l’aggravante in parola, secondo la giurisprudenza di legittimità, può ricorrere soltanto se il concorrente conosce o comunque Ł in grado di cogliere la finalità dell’azione avuta di mira dall’autore principale dell’azione.
Prosegue poi la difesa delle ricorrenti evidenziando che, in ogni caso, non sarebbe provato che le Coppola, una volta ricevuto l’incarico di recuperare il credito, siano riuscite ad ottenerne il pagamento.
Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche si duole la difesa delle ricorrenti che non si Ł tenuto conto della incensuratezza di NOME COGNOME e che per entrambe le sorelle COGNOME non vi Ł prova del coinvolgimento delle stesse in fatti di penale rilevanza fin dal 2012, quindi fin dal momento della loro sottoposizione al programma di protezione, il che avrebbe dovuto portare ad una rivalutazione anche del trattamento sanzionatorio riservato alle stesse in applicazione del disposto degli artt. 132 e 133 cod. pen.
La difesa delle ricorrenti si duole, infine, anche del mancato riconoscimento alle stesse della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. affermando che la Corte di appello risulta avere proceduto per deduzioni del tutto svincolate dal dato probatorio reale.
2.1.3. Vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Rileva la difesa delle ricorrenti che alla luce di quanto evidenziato nei motivi di ricorso sopra riportati si evincerebbe una carenza di motivazione da parte della Corte di appello in ordine alle risposte alle questioni di fatto e di diritto dedotte in sede in di gravame.
2.2. per NOME COGNOME:
2.2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione alla circostanza attenuante di cui all’art. 8 l. 203/1991 e successive modifiche.
Si duole la difesa del ricorrente del mancato riconoscimento all’imputato della predetta circostanza attenuante in quanto non si sarebbe stata tenuta in debito conto l’utilità obiettiva delle dichiarazioni rese dal COGNOME. Avrebbe quindi errato la Corte di appello limitandosi ad affermare che l’imputato, in relazione alle dichiarazioni rese, aveva già ottenuto il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
2.3. per NOME COGNOME e NOME COGNOME (ricorso unitario):
2.3.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 192, 197, 197bis , 63 e 64 cod. proc. pen. 648, 648bis , 648ter cod. pen. (per entrambi gli imputati in relazione al capo A della rubrica delle imputazioni).
Si duole la difesa dei ricorrenti del fatto che la Corte di appello non ha ritenuto configurabile a carico dei coniugi COGNOME/COGNOME i reati di ricettazione, di riciclaggio o di impiego di denaro di provenienza illecita avendo gli stessi, come riconosciuto dallo stesso Tribunale, ricevuto per effetto del finanziamento usurario somme di denaro che sapevano provenire da un clan camorristico. Detta situazione avrebbe prodotto i propri effetti anche sulle modalità di audizione processuale delle predette persone offese e, di conseguenza, a causa del mancato rispetto delle modalità di audizione di cui agli artt. 63 e 64 cod. proc. pen., ne deriverebbe l’inutilizzabilità erga omnes a fini probatori dele dichiarazioni stesse.
A ciò si aggiunge, prosegue la difesa dei ricorrenti, da un lato che i Giudici di merito hanno escluso la ricorrenza dello ‘stato di bisogno’ in capo alle persone offese che invece la Corte di appello ha considerato come rilevante per escludere la configurabilità a carico degli stessi del reato di ricettazione e, dall’altro, che la Corte di appello non si sarebbe confrontata con l’ulteriore profilo di penale rilevanza emergente dagli atti derivante dal fatto che i coniugi COGNOME/COGNOME, avendo reimpiegato le somme oggetto di finanziamento, si sarebbero quantomeno resi responsabili del reato di cui all’art. 648ter cod. pen. che non richiede per la sua configurabilità neppure il dolo specifico.
2.3.2. Vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 546, lett. e), 125 e 530, comma 2, cod. proc. pen. (per entrambi gli imputati).
Evidenzia la difesa dei ricorrenti di avere indicato in sede di gravame una serie di elementi che incidevano sulla valutazione di affidabilità delle dichiarazioni delle parti civili che i Giudici del merito non hanno preso in considerazione oltretutto non tenendo conto – al contrario di quanto affermato dalla Corte di appello – che le affermazioni accusatorie non sono state confermate dagli ulteriori elementi di prova documentale, tra cui i tabulati telefonici acquisiti che consentono di escludere qualsivoglia contiguità temporale tra l’utenza in uso al COGNOME e quella in uso al COGNOME o con quella in uso al Dello Russo.
Gli stessi Giudici di merito non si sarebbero altresì confrontati con le allegazioni difensive nella quali non si contestava l’esistenza del reato di usura di cui al capo A della rubrica delle imputazioni ma solo il concorso del COGNOME e del COGNOME nel reato stesso atteso che sarebbe stato documentato che il COGNOME ha esercitato dal dicembre 2011 – fatta eccezione per il solo periodo dal 26 giugno 2012 al 21 luglio 2012 – attività lavorativa in luoghi dislocati nel Nord Italia e che il COGNOME nello stesso arco temporale ha svolto attività lavorativa con il COGNOME.
2.3.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 644 e 378 cod. pen. (per il solo COGNOME).
Si duole la difesa del ricorrente del mancato accoglimento della richiesta di riqualificazione della condotta del COGNOME nella violazione dell’art. 378 cod. pen., non avendo l’imputato ottenuto la consegna di alcuno dei ratei usurari (come confermato dalla persona offesa COGNOME) e quindi potendo al piø, come evidenziato nella giurisprudenza della Corte di legittimità (richiamata nel ricorso), rispondere del reato di favoreggiamento personale.
2.3.4. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 416bis .1 cod. pen. (per entrambi gli imputati).
Evidenzia la difesa dei ricorrenti che avrebbero errato i Giudici di merito nel ritenere configurabile a carico degli imputati la menzionata circostanza aggravante in entrambe le sue connotazioni non bastando di certo il mero rapporto di parentela che lega gli imputati (il COGNOME Ł il nipote del COGNOME e il COGNOME Ł il suocero del COGNOME) a ritenere configurabile la predetta circostanza aggravante.
A ciò si aggiunge che i Giudici di merito non avrebbero motivato circa la condotta di ‘intermediazione’ addebitata al COGNOME COGNOME così da manifestare in concreto l’impiego del ‘metodo
mafioso’ non essendo tale circostanza aggravante integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dal contesto di provenienza dell’azione stessa.
2.3.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62bis e 69 cod. pen. (per entrambi i ricorrenti).
Si duole la difesa dei ricorrenti del fatto che la Corte di appello avrebbe ritenuto di non riconoscere agli imputati le circostanze attenuanti generiche solo perchØ hanno continuato a protestare la loro innocenza omettendo di prendere in considerazione il fatto che gli imputati erano incensurati, che gli stessi risultano avere svolto onesta attività lavorativa, che i fatti loro addebitati sono assai risalenti nel tempo, nonchØ altri elementi quali la giovane età del COGNOME ed il rapporto di soggezione dello stesso rispetto allo zio NOME COGNOME.
Infine, contesta la difesa dei ricorrenti l’assenza di motivazione da parte della Corte di appello in relazione all’aumento di pena di natura discrezionale operato ai sensi dell’art. 63, comma 4, cod. pen.
2.3.6. Con memoria datata 24 marzo 2025 la difesa degli imputati COGNOME e COGNOME ha ulteriormente illustrato le ragioni – già dedotte dal codifensore con il motivo riassunto al superiore par. 2.3.4. – per le quali dovrebbe procedersi all’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416bis .1 cod. pen., evidenziando l’assenza di prova del dolo specifico necessario per la configurabilità di detta circostanza aggravante e la impossibilità di poter configurare l’aggravante stessa sulla base del solo contesto ambientale.
2.3.7. Le parti civili NOME COGNOME e NOME COGNOME in data 14 aprile 2025 hanno fatto pervenire alla Cancelleria di questa Corte conclusioni scritte a firma dei rispettivi difensori con le quali hanno chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi, conclusioni poi confermate, come detto, in sede di udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Occorre, innanzitutto, doverosamente premettere che nel caso in esame ci si trova in presenza di una c.d. ‘doppia conforme’ di condanna in relazione alle posizioni di tutti i ricorrenti con la conseguenza che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (cfr., ex multis , Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
Per contro, tutti i motivi di ricorso proposti in questa sede di legittimità si presentano meramente reiterativi di questioni di questioni già proposte ed esaminate sia dal Tribunale che dalla Corte di appello che vi hanno dato risposte congrue e logiche, oltre che conformi ai principi di diritto che regolano la materia.
Quanto appena osservato deve intendersi come risposta non solo al motivo di ricorso sopra riassunto al superiore punto 2.1.3. – peraltro caratterizzato da assoluta genericità tale da poterlo considerare inammissibile tout court – ma anche a tutte le argomentazioni contenute nei vari ricorsi nei quali si contestano, anche indirettamente, carenze motivazionali della sentenza impugnata.
Deve solo essere ricordato che Ł giurisprudenza consolidata di questa Corte che, nella motivazione della sentenza, il giudice di merito non Ł tenuto a compiere un’analisi approfondita di
tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (in questo senso, v. Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, COGNOME, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv 233187).
Del resto, questa Corte ha chiarito che in sede di legittimità non Ł censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa Ł disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non Ł necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. SicchØ, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quai circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi Ł luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione. (Sez. 2, n. 29434 del 19/05/2004, COGNOME, Rv. 229220; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, dep. 2014, Cento, Rv. 259643).
Infine, e sempre a livello di premessa che deve intendersi anche come preliminare risposta ai motivi di ricorso sopra riassunti ai punti 2.1.1., 2.3.2. e 2.3.3. deve essere ricordato che al giudice di legittimità Ł preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchØ ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965).
Altro elemento che questa Corte ritiene di evidenziare fin da subito riguarda le questioni legate alla valutazione di attendibilità del narrato delle persone offese NOME COGNOME e NOME COGNOME così come proposte nel motivo di ricorso di cui al superiore punto 2.3.2.
Fermo restando il principio secondo il quale «In tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, COGNOME, Rv. 257241), situazione di certo non sussistente nel caso in esame, deve essere evidenziato come già il Tribunale (pag. 20 e 21 della relativa sentenza) aveva, tra l’altro, evidenziato che:
le dichiarazioni accusatorie delle due vittime sono intrinsecamente attendibili in quanto storicizzate;
le dichiarazioni della COGNOME e del COGNOME sono specifiche, precise, puntuali e circostanziate nei loro contenuti accusatori rimasti costanti ed inalterati nel tempo, coerenti sia nel tessuto narrativo interno che sul piano logico con le ulteriori risultanze processuali e si riscontrano reciprocamente;
le dichiarazioni delle predette persone offese si sono rivelate, oltre che pienamente attendibili sul piano intrinseco, supportate da elementi probatori estrinseci avendo trovato una ulteriore ed inequivoca decisiva conferma nella confessione dell’imputato COGNOME nonchØ nelle emergenze dei tabulati telefonici, degli SMS e della conversazione intercettata messa a disposizione dalle vittime.
La Corte di appello (v. pag. 6 della relativa sentenza), a sua volta, con motivazione congrua e logica, ha sostanzialmente ribadito tali valutazioni.
Deve solo ricordarsi che «In tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, piø penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, nØ assistere ogni segmento della narrazione» (v., ex multis , Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, Seccia, Rv. 275312) e che, nel caso in esame, anche tali principi risultano essere stati rispettati avendo i Giudici di entrambi i gradi di merito compiuto tale rigorosa valutazione con motivazioni che si sottraggono a censure di illogicità manifesta.
Da ciò ne consegue che le doglianze proposte sul punto sono tutte da ritenersi manifestamente infondate.
La positiva, quanto insindacabile in questa sede di legittimità, valutazione di attendibilità del narrato delle persone offese di cui si Ł detto al punto che precede consente di ritenere manifestamente infondati tutti i motivi di ricorso (v. in particolare superiori paragrafi 2.1.1., 2.3.2. e 2.3.3.) nei quali si contesta la ricostruzione dei ruoli rivestiti dagli imputati nella vicenda usuraria e nei tentativi di estorsione di cui ai capi B e C della rubrica delle imputazioni.
Sulla premessa che non v’Ł di certo dubbio alcuno (e non v’Ł neppure contestazione difensiva) in relazione alla configurabilità ed alla qualificazione giuridica della condotta descritta al capo A come usura atteso che in presenza di un finanziamento di 10.000 euro (in realtà 9.500) era prevista la corresponsione a tempo indeterminato di un interesse sulla somma capitale del 5% al mese, pari al 60% su base annua, v’Ł da dire che l’imputato COGNOME che ha rivestito il ruolo di finanziatore dell’operazione, Ł pienamente confesso in relazione al predetto reato oltre che in relazione ai reati di tentata estorsione di cui ai capi B (per il quale non gli Ł stata elevata imputazione e per l’effetto Ł stata ordinata la trasmissione degli atti alla competente Procura della Repubblica) e C.
Con riferimento agli altri imputati i Giudici di entrambi i gradi di merito risultano poi avere nel dettaglio ricostruito i rispettivi ruoli nelle vicende.
Quanto ad NOME COGNOME alla quale Ł contestato il ruolo di intermediaria per la restituzione del prestito per conto della sorella NOME, cui Ł, invece, contestato il ruolo di esattrice della somma capitale, i Giudici del merito hanno concordemente evidenziato come NOME COGNOME, dopo che il COGNOME si era recato invano da NOME COGNOME (in quel frangente unica esponente libera del clan) per restituire il capitale e questa non gli aveva aperto la porta, la predetta si recò a sua volta dal COGNOME, ammonendolo a non recarsi piø dalla sorella, in quanto questa era agli arresti domiciliari, mentre la COGNOME, in quanto donna, poteva recarsi a portare i soldi e, allorquando quest’ultima rappresentò ad NOME COGNOME che volevano chiudere i conti, questa la invitò ad andare a casa della sorella.
Quanto a NOME COGNOME invece, i coniugi COGNOME, dapprima le consegnarono la somma riguardante gli interessi usurari relativi al rateo dell’agosto 2012, indi le restituirono il saldo del prestito ricevuto, il tutto dopo che la donna era stata edotta che si trattava di un prestito usurario.
Quanto, infine, al COGNOME ed al COGNOME i Giudici del merito hanno evidenziato come il primo ha messo in contatto le vittime con ‘lo zio NOME‘ (il COGNOME – ndr.) ben consapevole della caratura criminale del congiunto che ricopriva il ruolo di vertice di un’organizzazione di tipo camorristico e che svolgeva la propria attività proprio in detto specifico settore economico (situazione ammessa dallo stesso COGNOME) ed ha anche proceduto alla riscossione dei ratei mensili sino al momento dei suo arresto, nel quale veniva sostituito dal COGNOME. Lo stesso COGNOME, dopo la scarcerazione, aveva poi tentato di recuperare, ricorrendo a modalità minacciose (reato di cui al capo B), la somma ritenuta dovuta dalle persone offese nonostante costoro l’avessero già restituita.
Così ricostruiti i ruoli di tutti i ricorrenti, la Corte territoriale ha ben argomentato in diritto ricordando che il reato di usura Ł un reato a condotta frazionata, ovvero a consumazione prolungata, in cui concorrono tutti coloro che partecipano, non solo alla fase genetica della formazione dell’accordo, ma anche a quella successiva della riscossione degli interessi usurari, ovvero anche tutti coloro che ricevano incarico per il recupero del capitale ed ottengono il relativo pagamento, come colui che ponga in essere a tale ultimo fine, anche solo condotte di minaccia o di violenza (Sez. 2, n. 40380 del 11/06/2015, COGNOME, Rv 264887).
Inconferente, alla luce di quanto accertato in fatto dai Giudici di merito, Ł poi il rilievo contenuto nel motivo di ricorso sopra riassunto al punto 3.3.3. nel quale si sostiene che al piø il COGNOME potrebbe rispondere del reato di cui all’art. 378 cod. pen. in ossequio al principio giurisprudenziale secondo il quale «Risponde del delitto di concorso in usura – reato a condotta frazionata o a consumazione prolungata -, il soggetto che, in un momento successivo alla formazione del patto usurario, ricevuto l’incarico di recuperare il credito, riesce ad ottenerne il pagamento, laddove invece, se il recupero non avviene, l’incaricato risponde del reato di favoreggiamento personale o, nell’ipotesi di violenza o minaccia nei confronti del debitore, di estorsione, atteso che in tali casi il momento consumativo dell’usura rimane quello originario della pattuizione» (Sez. 5, n. 42849 del 24/06/2014, COGNOME, Rv. 262308) atteso che il Tribunale ha evidenziato (v. pag. 24 della relativa sentenza) che il COGNOME «risulta aver riscosso in almeno due occasioni, ratei di interessi usurari dopo l’arresto di COGNOME nei mesi di giugno e luglio 2012» circostanza questa confermata dalla Corte d’appello (v. pag. 6 della relativa sentenza) ed in relazione alla quale non risulta provato che i Giudici di merito siano incorsi in un travisamento delle emergenze probatorie.
Anche, infine, con riguardo, alla circostanza dedotta dalla difesa dei ricorrenti che gli imputati COGNOME e COGNOME non avrebbero potuto porre in essere le condotte agli stessi attribuite in quanto all’epoca dei fatti si trovavano impegnati in attività lavorative nel Nord Italia, la Corte di appello vi ha dato adeguata risposta (v. pag. 11 della relativa sentenza), evidenziando come l’esistenza di attività lavorativa fuori regione non prova comunque l’assenza di spostamenti verso i luoghi di origine che ben possono essersi verificati nell’arco temporale di interesse.
Manifestamente infondato Ł poi anche il motivo di ricorso riassunto al superiore paragrafo 2.3.1 nel quale la difesa degli imputati COGNOME e COGNOME contesta il fatto che la Corte di appello non ha ritenuto configurabile a carico dei coniugi COGNOMECOGNOME i reati di ricettazione, di riciclaggio o di impiego di denaro di provenienza illecita avendo gli stessi, come riconosciuto dallo stesso Tribunale, ricevuto per effetto del finanziamento usurario somme di denaro che sapevano provenire da un clan camorristico, situazione questa che avrebbe prodotto i propri effetti anche sulle modalità di audizione processuale degli stessi e che, di conseguenza, a causa del mancato rispetto delle modalità di audizione di cui agli gli artt. 63 e 64 cod. proc. pen., ne determinerebbe l’inutilizzabilità erga omnes a fini probatori delle relative dichiarazioni.
Sia il Tribunale (pagg. da 25 a 27 della relativa sentenza) che la Corte di appello (pagg. da 9 a
hanno dato una corretta risposta in punto di diritto alla predetta questione ricordando il principio, condiviso anche dall’odierno Collegio, secondo il quale «La persona offesa del delitto di usura non può rispondere, in concorso con l’erogatore del prestito usurario, di ricettazione del denaro ricevuto, per l’impossibilità di individuare nella sua condotta il perseguimento di un ingiusto profitto, elemento finalistico del dolo di ricettazione» (Sez. 2, n. 25828 del 13/03/2007, COGNOME, Rv. 237296).
Detta valutazione si inserisce nel piø ampio orientamento di questa Corte di legittimità secondo il quale, in una situazione certamente assimilabile in punto di diritto a quella in esame, la sanzione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona che sin dall’inizio doveva essere sentita in qualità di imputato o di indagato non riguarda le dichiarazioni rese dalla persona offesa di un fatto di usura che riferisca di aver ricevuto assegni provento di altri reati di usura in danno di terzi, in quanto l’indicata persona offesa non Ł indagabile per quei delitti di ricettazione o di riciclaggio, che non hanno alcun legame di connessione con quello di cui Ł persona offesa (Sez. 2, n. 45566 del 21/10/2009, COGNOME, Rv. 245630; principio poi confermato in punto di diritto anche da Sez. 2, n. 12625 del 18/02/2015, Moi, Rv. 262928) e ciò perchØ, come avevano in precedenza avuto modo di precisare le Sezioni Unite di questa Corte, restano al di fuori della sanzione di inutilizzabilità comminata dal secondo comma dell’art. 63 cod. proc. pen. le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall’inizio indizi a suo carico, poichØ rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità ed assume la veste di testimone (Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996, dep. 1997, COGNOME, Rv. 206846).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dei ricorrenti e come correttamente evidenziato dalla Corte di appello a nulla rileva, poi, il fatto che il Tribunale abbia escluso la circostanza aggravante dello ‘stato di bisogno’ delle persone offese in quanto Ł comunque emerso dagli atti che le stesse sono state costrette a ricorre al prestito usurario per fronteggiare difficoltà economiche derivanti dall’aumentare dei costi rispetto ai ricavi nella gestione del loro esercizio commerciale (oltretutto derivanti, come evidenziato dagli stessi Giudici di merito, dal fatto che gli imputati si servivano di servizi e dazioni floreali da parte delle persone offese senza provvedere ad alcun pagamento) e che si tratta anche in questo caso di una situazione che, se non elimina del tutto, comunque limita concretamente la possibilità di scelta e di autodeterminazione della vittima comunque inducendolo o costringendolo a ricorrere al credito e ad accettare le condizioni usurarie in una condizione di inferiorità psichica che ne vizia il consenso.
Al riguardo deve solo aggiungersi che neppure risulta i coniugi COGNOME/COGNOME, quando ebbero a rendere dichiarazioni sui fatti di cui Ł processo, fossero stati sottoposti ad indagini in relazione al reato di cui all’art. 648ter cod. pen. o che i nomi degli stessi fossero stati quantomeno iscritti nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., nØ che siano stati in concreto accertati elementi dai quali desumere la configurabilità della predetta ipotesi delittuosa, situazione che, peraltro, comporterebbe accertamenti di fatto che non possono essere compiuti in sede di legittimità.
Ne consegue che le dichiarazioni delle predette persone offese sono state correttamente ritenute pienamente utilizzabili nel procedimento de quo.
Manifestamente infondato Ł poi anche l’unico motivo di ricorso formulato nell’interesse dell’imputato COGNOME nel quale si lamenta il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 8 l. n. 203/1991.
Come ha correttamente ricordato il Procuratore generale nella propria requisitoria scritta, questa Corte di legittimità, ha avuto modo di chiarire che l’esame del giudice sulla ricorrenza dei presupposti della speciale attenuante della dissociazione, prevista per i delitti di criminalità organizzata dall’art. 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203 (ed oggi dall’art. 416bis .1, comma terzo, cod. pen.), non può che essere limitato a quanto riferito dall’imputato nel singolo procedimento in ordine ai reati oggetto dello stesso, solo in relazione ai quali vengono in rilievo decisività e concretezza dell’apporto fornito, restando estraneo a tale esame il contributo offerto in altri procedimenti per vicende delittuose diverse (Sez. 2, n. 46385 del 15/10/2021, COGNOME, Rv. 282439 – 02).
Da ciò ne consegue che il beneficio di cui all’attenuante in esame non discende dal mero status di collaboratore, ma premia un contributo effettivo all’accertamento dei fatti che non sia limitato ad un mero riscontro ad acquisizioni probatorie già compiute (Sez. 1, n. 7160 del 29/01/2008, Russo, Rv. 239306).
Nel caso in esame, non sfugge che la prova dell’affermazione della penale responsabilità degli imputati Ł stata fondata sulle dichiarazioni delle persone offese alle quali il COGNOME con la sua confessione, si Ł limitato a dare riscontro senza peraltro fornire alcun ulteriore decisivo apporto.
A ciò si aggiunge, come osservato dalla Corte di appello, che non solo le dichiarazioni del COGNOME sono intervenute solo in un secondo momento dopo che il predetto si era visto revocato lo status di collaboratore di giustizia, ma anche che lo stesso si Ł limitato a circoscrivere le rivelazioni alle proprie responsabilità tentando invece di escludere quelle degli altri concorrenti nel reato.
Correttamente, quindi, i Giudici del merito, in applicazione dei principi di diritto sopra ricordati, si sono limitati a riconoscere al D’Alterio le circostanze attenuanti generiche valutate con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti contestate.
Manifestamente infondati sono altresì i motivi di ricorso (v. sup. paragrafi 2.1.2. e 2.3.4.) nei quali si contesta la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7 l. n. 203/1991 (oggi, art. 416bis .1 cod. pen.).
Detta circostanza aggravante risulta essere stata contestata sotto il duplice profilo dell’essersi avvalsi delle condizioni di cui all’art. 416bis cod. pen. e dell’agevolazione del sodalizio camorristico COGNOME/Pianese.
Ritiene l’odierno Collegio che Ł da ritenersi giuridicamente corretta la configurabilità della predetta circostanza aggravante in relazione ad entrambi i profili contestati.
Non Ł, innanzitutto, contestato che il COGNOME ricoprisse un ruolo di vertice nell’omonimo clan camorristico.
A ciò si aggiunge che lo stesso COGNOME ha ammesso (v. pag. 28 della sentenza del Tribunale) che il gruppo camorristico svolgeva la propria attività operando anche nello specifico illecito settore economico dell’usura e le cui entrate erano anche finalizzate al sostentamento degli affiliati ivi compresi quelli detenuti in carcere, situazione questa che – come osservato dai Giudici di merito era certamente nota agli altri concorrenti nel reato di cui al capo A della rubrica delle imputazioni alla luce degli evidenziati stretti legami familiari esistenti tra gli stessi.
Quanto, poi, al profilo dell’uso del metodo mafioso la questione Ł stata debitamente affrontata sia dal Tribunale (pag. 29 della relativa sentenza) che dalla Corte di appello (pagg. 11 e 12) che hanno evidenziato come le persone offese erano state poste in una situazione di soggezione derivante dall’ostentazione dell’attività intimidatoria del gruppo dato che erano costretti ad effettuare consegne di fiori in forma gratuita ai familiari degli appartenenti al clan.
In particolare, la Corte di appello con motivazione logica Ł quindi giunta ad affermare che «… si può fondatamente sostenere che la continuativa attività di prestito ad usura e la collegata attività estorsiva, posta in essere direttamente dal COGNOME, si atteggiavano, nel metodo come provenissero da soggetti facenti tutti parte di organizzazioni mafiose operanti sul territorio di Qualiano inducendo nei soggetti passivi una condizione di assoggettamento e omertà».
A ciò si aggiunge, in punto di diritto che «La circostanza aggravante del metodo mafioso di cui
all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203 (ora, art. 416bis .1, comma primo, cod. pen.), in quanto riferita alle modalità di realizzazione dell’azione criminosa, ha natura oggettiva ed Ł valutabile a carico dei concorrenti, sempre che siano stati a conoscenza dell’impiego del metodo mafioso ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa» (Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, COGNOME, Rv. 282602 – 02).
Nel caso in esame Ł già stato evidenziato che proprio gli stretti legami familiari intercorrenti tra gli odierni imputati e le condotte dagli stessi tenute consentono per logica di ritenere che tutti fossero a conoscenza delle modalità di azione.
In ogni caso, come evidenziato dal Procuratore generale, se anche uno dei due profili dell’aggravante non fosse configurabile, i ricorsi sarebbero comunque inammissibili per carenza di interesse avendo questa Corte di legittimità chiarito che ove sia contestata l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. n. 152 del 13 maggio 1991, nella duplice accezione del metodo e dell’agevolazione mafiosa, non sussiste l’interesse dell’indagato a ricorrere in cassazione ove contesti una sola delle declinazioni della circostanza, non derivando dall’eventuale accoglimento del ricorso alcuna concreta utilità (Sez. 6, n. 550 del 31/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274936; Sez. 6 n. 20564 del 09/04/2024, Parigi, non massimata).
Manifestamente infondato Ł anche il motivo di ricorso formulato nell’interesse di NOME COGNOME sopra riassunto al superiore par. 2.2.1. nel quale si contesta il mancato riconoscimento all’imputata della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen.
La Corte di appello (pag. 9), nel respingere la relativa richiesta formulata in sede di gravame, vi ha dato risposta congrua e rispondente ai principi di diritto che regolano la materia osservando che la nozione di ‘minima partecipazione’ deve interpretarsi in chiave strettamente oggettiva, cioŁ la portata della nozione deve cogliersi in senso ‘causale’, intesa come minima efficienza causale del contributo rispetto al fatto concorsuale e che l’apprezzamento dell’efficienza causale si deve fondare su parametri valutativi assoluti e non relativi: non Ł sufficiente che l’apporto del concorrente nel reato abbia avuto una minore rilevanza causale rispetto al contributo degli altri concorrenti, ma occorre che tale apporto abbia avuto un’importanza obiettivamente minima, situazione certamente non riscontrabile in capo alla ricorrente alla luce della condotta della stessa come emergente dagli atti.
Manifestamente infondati sono, infine, i motivi di ricorso (v. sup. paragrafi 2.1.2. e 2.3.5.) relativi al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio riservato agli imputati diversi dal COGNOME la posizione del quale Ł già stata in precedenza trattata.
Sia il Tribunale che la Corte di appello hanno correttamente motivato sul punto evidenziando che le circostanze di cui all’art. 62bis cod. pen. non possono essere riconosciute al COGNOME ed al COGNOME solo per la loro incensuratezza mentre le sorelle COGNOME sono gravate da precedenti penali.
La Corte di appello (v. pag. 12 della relativa sentenza) ha anche evidenziato l’assenza di positivi elementi di valutazione nei confronti degli imputati.
Quando evidenziato risponde ai principi indicati in materia da questa Corte di legittimità secondo i quali:
«Il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 62bis , disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della
diminuente non Ł piø sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato» (così, Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986; v. anche, Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 260610);
b) «Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non Ł necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma Ł sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione» (così, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
Inoltre, anche la determinazione del trattamento sanzionatorio riservato agli imputati risulta congruamente e logicamente motivata nei confronti di tutti gli imputati e, a tal fine, Ł solo il caso di ricordare che questa Corte di legittimità ha chiarito che «La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che Ł inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione» (così, Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259142).
Manifestamente infondata Ł, infine, anche la censura di omessa motivazione sull’aumento discrezionale dei cui all’art. 63, comma 4, cod. pen., avendo la Corte di appello motivato il trattamento sanzionatorio applicato definendolo adeguato ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., essendo ancorato ai minimi edittali, tenendo conto della circostanza che il giudice appellato Ł partito da una pena base per il reato di usura di cui all’art. 644 cod. pen. di anni due di reclusione, apportando il minimo aumento per ciascuna delle due aggravanti contestate, motivazione anche in questo caso congrua ed immune da profili di manifesta illogicità.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonchØ, quanto a ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Ne discendono, altresì, le correlative statuizioni di seguito espresse in ordine alla condanna degli imputati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti civili NOME COGNOME e NOME COGNOME la cui liquidazione, tenuto conto delle richieste avanzate, nonchØ del grado di complessità della vicenda processuale, viene operata nei confronti di ciascuna di esse, secondo l’importo in dispositivo meglio enunciato.
P.Q.M
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, gli imputati, in via solidale tra loro, al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili COGNOME NOME e COGNOME NOME che liquida in euro 1.500,00 oltre accessori di legge per ciascuna parte.
Così deciso il 15/04/2025.