Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 2831 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 2831 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da Casamonica NOMECOGNOME nato a Roma il 11/05/1984 COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 04/02/1961 COGNOME NOMECOGNOME nata a Roma il 30/12/1961 COGNOME NOME, nata a Roma il 19/12/1983 COGNOME NOMECOGNOME nata a Roma il 07/04/1985 NOMECOGNOME nata a Roma il 17/02/1985 COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 12/07/1979 COGNOME NOME, nato a Roma il 09/11/1985
avverso la sentenza del 30/11/2023 emessa dalla Corte di Appello di Roma visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME e l’inammissibilità dei restanti ricorsi;
udita l’Avvocatessa COGNOME NOME, difensore della parte civile Associazione nazionale la lotta contro le illegalità e le mafie “NOME COGNOME“, che deposita nota spese e che il rigetto dei ricorsi e la conferma delle statuizioni civili; udita l’Avvocatessa COGNOME, difensore della parte civile “RAGIONE_SOCIALE“, che deposita nota spese e chiede il rigetto dei ricorsi e la conferma delle statuizioni civili; udito l’Avvocato COGNOME COGNOME COGNOME, difensore della parte civile “RAGIONE_SOCIALE impresa Lazio”, che deposita nota spese e chiede il rigetto dei ricorsi e la conferma delle statuizioni civili; udito l’Avvocato COGNOME COGNOME difensore di fiducia di COGNOME NOME, che chiede l’accoglimento del ricorso; udita l’Avvocatessa COGNOME COGNOME anche in sostituzione dell’Avvocato COGNOME difensori di fiducia di COGNOME, nonché dell’Avvocato: COGNOME in difesa di COGNOME NOME e COGNOME NOME; Tenga NOMECOGNOME in difesa di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOME COGNOME che chiede l’accoglimento dei ricorsi proposti nell’interesse dei predetti imputati; udito l’Avvocato NOMECOGNOME anche in sostituzione dell’Avvocato COGNOME Pietro COGNOME, difensori di fiducia di COGNOME Vincenzo, il quale chiede l’accoglimento del ricorso; udito l’Avvocato COGNOME COGNOME, difensore di fiducia di COGNOME Rocco, che chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 1118 del 15/3/2023, la Seconda Sezione di questa Corte annullava con rinvio la sentenza di condanna emessa nei confronti dei ricorrenti in sede di appello, limitatamente all’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen. in relazione a COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, nonché – relativamente al capo N) – anche in relazione all’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3, cod. pen.
Inoltre, la Corte annullava con rinvio la sentenza di condanna emessa nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e NOME COGNOME.
1.1. In sede di rinvio, la Corte di appello riconosceva la sussistenza delle aggravanti in precedenza escluse, provvedendo alla conseguente determinazione delle pene.
Veniva confermata, inoltre, la condanna di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME e COGNOME NOME, per i reati loro rispettivamente ascritti, escludendo nei confronti di NOME COGNOME la contestata recidiva.
Nell’interesse di NOME COGNOME sono stati formulati tre motivi di ricorso, nonché motivi aggiunti.
2.1. Con il primo motivo, deduce la nullità del decreto di citazione in appello, non essendo stato rispettato il termine a comparire di 40 giorni previsto dal novellato art.601 cod. proc. pen.
2.2.Con il secondo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito al riconoscimento delle aggravanti di cui agli artt. 416-bis.1 e 628 comma terzo, n. 3, cod. pen.
Per quanto concerne l’aggravante dell’uso del metodo mafioso, si eccepisce che la Corte di appello aveva essenzialmente valorizzato il contesto onnertoso riferito dai collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME le cui dichiarazioni, tuttavia non concernono NOME COGNOME il quale, tra l’altro, non è mai stato imputato per il reato associativo.
Anche le osservazioni, svolte in relazione al reato di usura e estorsione commesso ai danni di NOME COGNOME non fornirebbero elementi dirimenti, essendo emersa una generica condotta violenta e intimidatoria che, tuttavia, non presuppone necessariamente la configurabilità dell’aggravante, tanto meno sotto il profilo della finalità agevolatrice. Analoghe considerazioni sono state formulate anche in relazione alle ulteriori condotte di usura ed estorsione commesse ai danni di COGNOME e COGNOME.
2.3. Con il terzo motivo, censura il criterio di determinazione della pena, sottolineando l’omessa motivazione in ordine ai singoli aumenti disposti per la continuazione, nonché per le aggravanti.
2.4. Con i motivi nuovi, la difesa evidenzia che questa Corte, con sentenza n. 16472 del 2024 resa nel procedimento ordinario nei confronti di NOME COGNOME, moglie di NOME NOME, ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. proprio con riferimento ai reati commessi dai coniugi COGNOME–COGNOME ai danni di NOME COGNOME.
Nell’interesse di NOME COGNOME sono stati formulati tre motivi di ricorso.
3.1. Con il primo motivo, deduce la nullità del decreto di citazione in appello, non essendo stato rispettato il termine a comparire di 40 giorni previsto dal novellato art.601 cod. proc. pen.
3.2. Con il secondo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’aumento di pena apportato a seguito del riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. In particolare, si evidenzia come la Corte di appello abbia applicato il massimo dell’aumento senza fornire alcuna
motivazione ed in violazione della previsione di cui all’art.63, comma quarto, cod. pen.
3.3. Con il terzo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’uso del metodo mafioso, relativamente al reato di estorsione aggravata contestata al capo III) in concorso con COGNOME Rocco. Sottolinea il ricorrente come la condotta illecita non sia affatto connotata dall’uso del metodo mafioso, tanto più che – all’epoca dei fatti non era stata neppure ipotizzata l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso. La stessa persona offesa – NOME COGNOME aveva sostanzialmente escluso di aver accondisceso alle richieste usurarie ed estorsive in quanto intimorito dalla presunta appartenenza dei coimputati ad una associazione mafiosa.
Nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME condannati per i reati di intestazione fittizia di cui ai capi LL) e MM), sono stati formulati tre motivi di ricorso.
4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione di legge e vizio di motivazione eccependo che, all’epoca di cessione dei beni, non vi era alcun elemento che lasciasse temere l’adozione di misure ablative reali nei confronti di COGNOME NOME. Per sopperire a tale carenza, la Corte di appello ha valorizzato un elemento, non valutato in primo grado, consistente nella condanna non definitiva riportata da NOME COGNOME per estorsione risalente al 2002, non considerando che tale fatto precedeva di quasi dieci anni il trasferimento dei beni, nonché l’intervenuto proscioglimento per prescrizione fin dal 2014.
Parimenti non dirimente sarebbe la condanna emessa dal Tribunale di Roma nel 2016, posto che in quel procedimento – sostanzialmente concomitante con il trasferimento dei beni – non era stata adottata alcuna misura cautelare reale.
Si assume, inoltre, che i beni trasferiti da NOME COGNOME ai suoi congiunti erano frutto di attività lecita, essendo il provento delle vincite conseguite nel corso dell’attività pugilistica svolta a livello professionistico.
Ad ulteriore riprova dell’assenza di qualsivoglia volontà elusiva, si sottolinea come NOME COGNOME a differenza del figlio, era a sua volta gravato da plurimi precedenti e già sottoposto a misura di prevenzione personale, sicchè l’intestazione dei beni in suo favore non poteva in alcun modo garantire la sottrazione ad eventuali misure ablative disposte nei confronti del figlio.
4.2. Con il secondo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestata nella forma della finalità agevolativa rispetto all’associazione di stampo mafioso costituita dalla famiglia Casamonica.
Sottolinea il ricorrente come la finalità agevolativa non sia stata in alcun modo oggetto di specifica motivazione, essendosi genericamente fatto riferimento all’appartenenza di NOME COGNOME al citato gruppo, senza che, tuttavia, sia emerso che l’intestazione fittizia garantiva un vantaggio all’associazione in quanto tale, piuttosto che al solo titolare dei beni.
Invero, non risulta provato né che gli imputati fossero consapevoli dell’esistenza di un’associazione di stampo mafioso e dell’appartenenza alla stessa di NOME COGNOME né che l’intestazione fittizia dei beni fosse finalizzata ad agevolare l’associazione anziché il solo prossimo congiunto.
4.3. Con il terzo motivo, si contesta la quantificazione della pena e l’omesso riconoscimento delle attenuanti generiche.
Nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati proposti tre motivi di ricorso, in relazione alle condotte di intestazione fittizia di beni appartenenti a NOME COGNOME di cui ai capi LL), MM) e NN) che propongono le medesime doglianze proposte dal ricorso di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il difensore di NOME ha formulato un unico motivo di ricorso con il quale censura, essenzialmente sotto il profilo motivazionale, la sentenza di appello che ha condannato la ricorrente per il reato di intestazione fittizia di un’autovettura (capo RR), in realtà appartenente ad un suo prossimo congiunto. La ricorrente lamenta anche la sussistenza dell’elemento soggettivo, sostenendo di essere stata sostanzialmente all’oscuro delle vicende relative all’autovettura appartenente al convivente, COGNOME NOMECOGNOME
Nell’interesse di NOME COGNOME condannato per il reato di cui all’art. 512bis cod. pen. (capo RR), aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen., sono stati formulati tre motivi di ricorso.
6.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità dell’aggravante ex art. 416-bis.1 cod. pen., contestata sotto il profilo dell’agevolazione in favore dell’associazione mafiosa. Sottolinea il ricorrente come l’aggravante in questione presupponga il dolo specifico, quanto meno in capo a uno dei compartecipi, circa la finalità di agevolare l’associazione in quanto tale, non essendo sufficiente l’agevolazione rivolta nei confronti di uno dei partecipi.
L’accertamento dell’elemento soggettivo, invero, non emergeva dalla sentenza impugnata, potendosi al più ipotizzare che il reato era stato commesso al fine di agevolare il reale proprietario dell’autovettura fittiziamente intestata a
COGNOME senza che i partecipi del reato avessero la consapevolezza di agevolare, in tal modo, l’intera associazione.
6.2. Con il secondo motivo, censura l’aumento di pena applicato per effetto dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, (motivo in relazione al quale ha, nelle more del giudizio, rinunciato) sottolineando come la Corte di appello abbia quantificato l’aumento nella metà della pena base e, quindi, nel massimo previsto per l’aggravante, senza dar ragioni del criterio di commisurazione adottato. Parimenti immotivato risulterebbe anche l’aumento disposto per la recidiva e, inoltre, sarebbe stato anche violato il disposto dell’art. 63, comma quarto, cod. pen., disciplinante l’ipotesi di concorso tra più circostanze ad effetto speciale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono tutti infondati, con la sola esclusione di quelio proposto nell’interesse di NOME.
Deve preliminarmente rigettarsi l’eccezione di nullità del decreto di citazione in appello, non essendo stato rispettato il termine a comparire di 40 giorni previsto dal novellato art.601 cod. proc. pen.2, sollevata da NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Trattatasi di questione recentemente risolta (in epoca successiva alla proposizione dei ricorsi) dalle Sezioni unite con sentenza n.42124 del 27 giugno 2024, Nafi, Rv.287095, secondo cui la disciplina dell’art. 601, comma 3, cod. proc. pen., introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. g), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che individua in quaranta giorni il termine a comparire nel giudizio di appello, è applicabile agli atti d’impugnazione proposti a far data dal 1 luglio 2024.
Applicando tale principio al caso di specie, tenendo conto che il giudizio di appello si è svolto in epoca precedente al 10 luglio 2024, ne consegue che legittimamente è stato assegnato un termine di comparizione inferiore a quaranta giorni.
L’oggetto di gran parte dei ricorsi attiene alla configurabilità o meno dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nelle forme dell’uso del metodo mafioso e della finalità agevolativa dell’associazione.
La sentenza rescindente, ribadendo consolidati principi giurisprudenziali, ha fornito al giudice del rinvio precise coordinate sulla cui base valutare la sussistenza o meno dell’aggravante, affermando, in particolare, che:
l’esistenza di un’associazione di stampo mafioso costituisce il presupposto
dell’aggravante nella forma dell’agevolazione e non di quella dell’uso del metodo mafioso;
l’esistenza dell’associazione deve essere accertata incidentalmente dal giudice chiamato a pronunciarsi sull’aggravante, non occorrendo un precedente accertamento con sentenza passata in giudicato;
il riferimento alla connotazione di “omertà” imposta dall’associazione mafiosa è compatibile con la percezione di tale elemento in un ambito diffuso, pur se non generalizzato sul territorio di riferimento;
il carattere mafioso dell’associazione è compatibile con un’organizzazione non necessariamente verticistica;
l’accertamento del “metodo mafioso” può essere desunto dalle modalità complessive di azione del gruppo criminale e, quindi, assumono rilievo anche fatti ulteriori e diversi da quelli oggetto di imputazione;
il metodo mafioso può essere attuato anche da chi non appartiene all’associazione, purchè se ne replichino le modalità di azione.
3.1. Nel giudizio di rinvio la Corte di appello ha compiuto una nuova valutazione del materiale probatorio, sulla base dei principi evidenziati nella sentenza rescindente, giungendo incidentalmente all’accertamento dell’esistenza dell’associazione di tipo mafioso sulla base di elementi sostanzialmente sovrapponibili a quelli successivamente impiegati nel parallelo procedimento definito da Sez.2, n. 16472 del 16/1/2024, Casamonica, che ha qualificato il cosiddetto “clan Casamonica”, avente base operativa nel INDIRIZZO INDIRIZZO, quale un’associazione di stampo mafioso.
L’accertamento dell’esistenza e della natura del sodalizio, pertanto, deve ritenersi definitivamente effettuato e non più suscettibile di contestazione.
Quanto detto consente di affermare che la questione relativa alla natura mafiosa dell’associazione a delinquere può dirsi definitivamente risolta, dovendosi unicamente verificare la configurabilità dell’aggravante ex art. 416-bis.1 cod. pen. in relazione ai singoli reati contestati ai ricorrenti.
Procedendo all’esame delle singole posizioni, deve prendersi le mosse dal secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME, il quale contesta la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nella duplice forma dell’uso del metodo mafioso e dell’agevolazione all’associazione, in relazione ai reati di usura, estorsione ed esercizio abusivo dell’attività creditizia, di cui ai capi M), N), GGG), III) e P), rispettivament commessi ai danni di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La Corte di appello, applicando i principi contenuti nella sentenza rescindente,
ha ritenuto sussistente l’aggravante dell’uso del metodo mafioso, sottolineando sia il contesto complessivo nel cui ambito i predetti reati sono maturati, sia gli aspetti specificamente correlati alle singole condotte.
Per quanto attiene al primo elemento, è stata ricostruita l’attività usuraria svolta nell’ambito del clan Casamonica, avvalendosi anche delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia ritenuti pienamente attendibili.
Sul punto deve evidenziarsi come la sentenza rescindente aveva stigmatizzato le plurime contraddittorietà contenute nella prima sentenza di appello, lì dove i dichiaranti COGNOME e COGNOME non erano stati ritenuti pienamente attendibili. Nella sentenza rescissoria, la Corte di appello ha ripercorso la genesi della collaborazione, nonché il contenuto delle dichiarazioni rese, ritenendo la piena attendibilità dei suddetti collaboratori di giustizia.
A fronte di tale rinnovato giudizio, il ricorrente sottolinea come le dichiarazioni rese da COGNOME e COGNOME non riguardano le condotte specificamente ascritte a COGNOME Rocco, sicchè tali prove non sarebbero utili ai fini dell’accertamento dell’uso del metodo mafioso.
Si tratta di una tesi non condivisibile, posto che la Corte di appello ha precisato che le predette fonti dichiarative valgono nella misura in cui consentono di descrivere il clima omertoso e di diffusa intimidazione che gravava intorno agli appartenenti alla famiglia COGNOME. Le considerazioni svolte nella sentenza impugnata (si vedano pg 4 e 5), sono tali da descrivere una forza di intimidazione, talmente riconosciuta nel contesto territoriale di riferimento, da rendere sostanzialmente superfluo il ricorso a condotte violente al fine di costringere le vittime di usura a rispettare i pagamenti imposti, proprio perché la minaccia, insita nella provenienza delle richieste da parte di un noto e consolidato gruppo criminale, costituiva di per sé strumento idoneo a coartare le vittime dei reati di usura.
Tali caratteri insiti nelle modalità di azione del “clan COGNOME” sono stati riscontrati nelle specifiche vicende oggetto di contestazione nei confronti di NOME COGNOME.
Sottolinea la Corte come le persone offese avevano dimostrato di percepire chiaramente l’impossibilità di sottrarsi alle condotte illecite, ben sapendo che le stesse erano sostanzialmente riferibili ad un gruppo criminale consolidato e il cui agire prescindeva dalle condotte dei singoli.
Nel caso dei reati di usura ed estorsione commessi ai danni di COGNOME e COGNOME, la forza intimidatrice riconosciuta per il sol fatto dell’appartenenza di Casamonica Rocco alla omonima famiglia è desunta dal fatto che le vittime, allorquando vennero sentite dai Carabinieri, resero versioni edulcorate dei fatti e
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non esitarono a informare delle indagini gli autori del reato, all’evidente fine di evitare possibili ritorsioni.
Si tratta di aspetti centrali nel ragionamento probatorio recepito dalla Corte di appello che, invero, non vengono direttamente attinte dalle critiche sollevate con il ricorso.
Né può dubitarsi della piena riconducibilità delle condotte intimidatorie al ricorrente, avendo la Corte di appello spiegato le ragioni del diretto coinvolgimento di NOME COGNOME, anche sulla base delle intercettazioni acquisite, ribadendo come questi, unitamente a NOME COGNOME, si rivolgeva a COGNOME e COGNOME palesando l’esistenza di soggetti – indicati come particolarmente pericolosi – cui dovevano render conto dei mancati pagamenti, in tal modo rafforzando ulteriormente la convinzione nelle persone offese di essere vittima di condotte usurarie commesse in un contesto di criminalità organizzata (si veda pg.20).
4.1. Considerazioni del tutto analoghe valgono in relazione alla posizione di NOME COGNOME nei cui confronti l’incidenza del ricorso all’uso del metodo mafioso, in particolare nella forma evocativa dell’esistenza di un gruppo associato rispetto al quale la vittima non aveva alcuna possibilità di reazione, è stata desunta in primo luogo dal fatto che COGNOME è stato costretto a sottostare a richieste usurarie per un debito che non era stato da lui contratto e, in relazione, al quale, gli imputati non potevano vantare alcun titolo giuridico, sottolineando altresì l’evidente capacità intimidatoria derivante dal semplice fatto che gli autori del reato appartenevano alla famiglia COGNOME, circostanza di per sé evocativa di un contesto criminale di notevole spessore.
Con i motivi aggiunti, il ricorrente ha evidenziato come nei confronti della moglie- NOME COGNOME concorrente nel reato di usura ai danni di Fusco (capo GGG), la sentenza resa da Sez.2, n. 16472 del 16/1/2024 ha escluso la sussistenza dell’aggravante dell’uso del metodo mafioso.
Il ricorrente richiama il passaggio (pg. 181 e 182) lì dove, in maniera alquanto sintetica, la Seconda sezione esclude nei confronti della COGNOME l’aggravante dell’uso del metodo mafioso, affermando che «in nessuna parte della sentenza impugnata emerge che il rapporto usurario di cui al capo GGG fosse sorto o proseguito attraverso l’estrinsecazione del metodo mafioso da parte degli autori o con l’uso di minacce, anche larvate, ma comunque in qualche maniera evocative della forza della compagine criminale; il COGNOME, infatti, si era rivolto a NOME COGNOME in modo spontaneo e senza indicare alcuna costrizione ricevuta o altre allusioni sospette da parte del coimputato, così come aveva rilevato il Tribunale al fg.1250 della sentenza impugnata».
Sulla base di tale statuizione e facendo valere la natura oggettiva della circostanza aggravante del ricorso al metodo mafioso, se ne vuol far discendere l’esclusione dell’aggravante anche nei confronti del ricorrente.
5.1. L’incidenza della sentenza che ha escluso, in via definitiva, la sussistenza dell’aggravante nei confronti della concorrente nel reato, deve essere valutata considerando che la circostanza aggravante del metodo mafioso, in quanto riferita alle modalità di realizzazione dell’azione criminosa, ha natura oggettiva ed è valutabile a carico dei concorrenti, sempre che siano stati a conoscenza dell’impiego del metodo mafioso ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa (Sez.4, n. 5136 del 2/2/2022, COGNOME, Rv. 282602-02).
Tale principio consente di affermare che, in astratto, la natura oggettiva dell’aggravante del metodo mafioso ben può configurarsi solo nei confronti di alcuni dei concorrenti, con la conseguenza che l’eventuale esclusione nei confronti di altri non determina un insanabile contrasto.
Del resto, anche in tema di revisione, si afferma che non sussiste contrasto fra giudicati agli effetti dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. se i fatti posti a base delle due decisioni, attribuiti a più concorrenti nel medesimo reato, siano stati identicamente ricostruiti dal punto di vista del loro accadimento oggettivo ed il diverso epilogo giudiziale sia il prodotto di difformi valutazioni di quei fatti – specie se dipese dalla diversità del rito prescelto nei separati giudizi e dal correlato diverso regime di utilizzabilità delle prove – dovendosi intendere il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili non in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui esse si fondano (Sez.6, n. 16477 del 15/2/2022, COGNOME, Rv. 283317).
5.2. La prospettata esigenza di una paritaria valutazione delle circostanze aggravanti rispetto al medesimo capo di imputazione risulta, tuttavia, priva di interesse.
Deve sottolinearsi, infatti, come nei confronti del ricorrente l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. è stata ritenuta sussistente, anche nella forma dell’agevolazione dell’associazione mafiosa, in relazione al capo N), giudicato quale ipotesi più grave, sicchè, ove pure si escludesse l’aggravante del ricorso al metodo mafioso in ordine al capo GGG), non ne conseguirebbe alcuna riduzione in punto di trattamento sanzionatorio
Né risulta che nella determinazione dell’aumento a titolo di continuazione si è tenuto conto della predetta aggravante, sicchè su tale aspetto non sussiste l’interesse a ricorrere, posto che l’imputato non ha subito, per effetto del riconoscimento dell’aggravante, alcun trattamento sanzionatorio deteriore.
Il terzo motivo proposto da NOME COGNOME è volto a censurare il trattamento sanzionatorio, lamentando insussistenti vizi di motivazione.
Invero, la Corte di appello ha aumentato la pena base di 1 anno e 2000 euro di multa, applicando il criterio mitigatore dettato dall’art. 63, comma 3, cod. pen., per poi procedere agli ulteriori aumenti a titolo di continuazione.
La motivazione, sia pur sintetica, dà atto dei criteri di valutazione utilizzati, dovendosi altresì considerare che gli aumenti a titolo di continuazione sono stati parimenti quantificati tenendo conto della obiettiva gravità delle singole condotte.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è infondato, dovendosi richiamare in relazione al primo motivo quanto già osservato in precedenza esaminando l’analogo motivo formulato per NOME COGNOME.
7.1. Il secondo motivo è manifestamente infondato, nella misura in cui lamenta l’eccessiva quantificazione dell’aumento di pena disposto per l’aggravante del metodo mafioso e la mancata motivazione in ordine alla decisione di applicare l’aumento facoltativo, così come previsto dall’art. 63, comma 4, cod. proc. pen.
Invero, la Corte di appello si è limitata a disporre l’aumento minimo (pari a 1/3) per effetto dell’aggravante ex art. 416-bis.1 cod. pen., partendo dalla pena base di anni 6 reclusione e aumentandola di 2 anni, non applicando alcun ulteriore aumento di pena per le altre aggravanti ritenute sussistenti.
Ne consegue che non solo l’aumento per l’aggravante è stato contenuto nel minimo edittale, ma non vi è stata neppure la dedotta violazione dell’art. 63, comma 4, cod. pen.
A ben vedere, il motivo di ricorso si risolve in una errata lettura della citata norma, lì dove si sostiene che l’aumento per l’aggravante ex art. 416-bis.1 cod. pen. sarebbe facoltativo. Invero, l’art. 63, comma 4, cod. pen. precisa che, nel caso di concorso di più circostanze ad effetto speciale, si applica solo quella ritenuta più grave, salvo restando che il giudice può aumentarla. Ne consegue che l’aumento per l’aggravante del metodo mafioso, evidentemente ritenuta quale circostanza più grave, era sottratto a qualsivoglia valutazione discrezionale e, quindi, non occorreva alcuna specifica motivazione.
Poiché, in concreto, per le restanti aggravanti non è stato disposto alcun ulteriore aumento, viene meno anche la dedotta violazione del criterio stabilito dall’art. 63, comma 4, cod. pen.
7.2. Il terzo motivo di ricorso è volto a censurare la sussistenza dell’aggravante del ricorso al metodo mafioso, ritenuta in relazione all’estorsione commessa da COGNOME, in concorso con Casamonica Rocco, ai danni di NOME COGNOME (capo III), al fine di costringerlo a versare gli interessi usurari reclamati per effetto
del reato di cui al capo GGG).
La Corte di appello ha indicato una pluralità di specifici indici rilevatori del ricorso al metodo mafioso, sottolineando come il contesto generale era tale da aver indotto i due soci di COGNOME (originari creditori di NOME COGNOME) ad allontanarsi repentinamente da Roma. Nonostante COGNOME fosse ben consapevole della sua assoluta estraneità al debito reclamato da NOME COGNOME, aveva accettato di farsene carico, sostenendo interessi particolarmente gravosi, nella dichiarata consapevolezza di non potersi altrimenti sottrarre al rischio di violenze, anche ai danni della sua famiglia, da parte di appartenenti al clan Casamonica.
Anche le modalità della riscossione delle rate erano improntata alla finalità di acuire l’effetto intimidatorio del contesto criminale, tant’è che COGNOME in più occasioni si recava presso l’abitazione di NOME COGNOME, ubicata nella zona in cui maggiormente era percepibile la presenza e la coartazione derivante dall’appartenenza alla famiglia COGNOME.
In definitiva, la Corte di appello fornisce una pluralità di elementi altamente sintomatici e dimostrativi della portata intimidatoria derivante dal semplice fatto che, ad agire nei confronti di Fusco, erano soggetti notoriamente appartenenti alla famiglia Casamonica, la cui complessiva caratura criminale era ampiamente nota nel territorio di riferimento.
A fronte di tali dati, la difesa si è sostanzialmente limitata a richiamare le dichiarazioni rese da COGNOME nel parallelo procedimento svoltosi con rito ordinario e contenenti una versione dei fatti meno gravosa rispetto alla posizione del ricorrente. La Corte di appello, tuttavia, ha espressamente posto a confronto le dichiarazioni rese in sede di indagini e la versione offerta in dibattimento da COGNOME, ritenendo che questi – proprio in considerazione della perdurante capacità intimidatoria del clan Casamonica – abbia vanamente tentato di edulcorare la vicenda e sminuire la gravità dei fatti.
Sottolinea la Corte come la deposizione resa da COGNOME ha ugualmente confermato gli aspetti centrali della vicenda quali la decisione, necessitata, di addossarsi un debito altrui e la consapevolezza di non potersi opporre alle richiesta dei Casamonica, in considerazione della loro indiscussa caratura criminale.
La difesa contesta anche l’interpretazione dell’intercettazione della conversazione tra COGNOME e COGNOME, nel corso della quale i predetti prendono atto che, ove pure gli autori dell’estorsione fossero stati arrestati, vi sarebbero stati altri familiari che avrebbero continuato a pretendere il pagamento.
Assume la difesa che la conversazione sarebbe riferita a soggetti diversi da COGNOME Vincenzo e riguarderebbe esclusivamente le condotte di usura contestate al capo GGG).
Si tratta di doglianze non consentite, sia perché tendono a fornire una lettura alternativa e che presuppone apprezzamenti di mero fatto, sia perché il reato di usura contestato al capo GGG) è strettamente correlato all’estorsione di cui è chiamato a rispondere COGNOME, posto che quest’ultima condotta era finalizzata a garantire il pagamento degli interessi oggetto della pattuizione usuraria.
Ne consegue che le affermazioni in ordine alla sostanziale ineludibilità dei pagamenti e dell’esistenza di una compagine più ampia rispetto al solo Casamonica Rocco è pienamente compatibile con la tesi secondo cui il reato di estorsione è stato commesso mediante il ricorso alla forza intinnidatrice dell’associazione.
8. I ricorsi proposti nell’interesse di NOME COGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOME e NOME COGNOME possono essere esaminati congiuntamente, proponendo le medesime questioni in relazione a plurimi fatti di intestazione fittizia di beni da parte di COGNOME NOME, il quale, al fine di eludere il rischio di sottoposizione a misure di prevenzione patrimoniali, trasferiva ai suoi prossimi congiunti le quote della RAGIONE_SOCIALE (società che gestiva una palestra), nonché alcuni beni immobili.
Occorre premettere che la sentenza rescindente, nell’annullare con rinvio la precedente assoluzione degli imputati con la formula perché il fatto non costituisce reato, dava atto che le intestazioni dei predetti beni erano “pacificamente fittizie” (si veda pg.40), essendo stato già accertato il loro acquisto da parte di NOME COGNOME il quale si occupava, di fatto, della gestione della palestra.
Successivamente alla pronuncia della sentenza di appello in sede rescindente, peraltro, NOME COGNOME è stato condannato in via definitiva – ne! procedimento parallelo svoltosi con rito ordinario – per i reati commessi in concorso con i ricorrenti (così Sez.2, n. 16472 del 16/1/2024, Casamonica, in particolare si veda pg. 145) .
A fronte dei vincolanti e limitati margini di valutazioni rimessi all’esame della Corte di appello, la sentenza resa in sede rescindente ha compiutamente ricostruito le vicende relative all’intestazione dei beni ai familiari da parte di NOME COGNOME indicando le ragioni dalle quali desumere non solo la fittizietà dei trasferimenti, ma anche la condivisa finalità elusiva.
Le difese dei ricorrenti, con argomentazioni sostanzialmente comuni, hanno evidenziato come all’epoca dei trasferimenti (tra il 2008 e il 2015) NOME COGNOME non era gravato da precedenti taii da far presagire la sottoposizione a misure di prevenzione, il che escluderebbe la ricorrenza del dolo specifico richiesto dall’art. 512-bis cod. pen.
La sentenza impugnata ha ricostruito il percorso criminale di NOME COGNOME
sottolineando come questi, fin dal 2002, risultava dedito ad attività di prestito usurario ed estorsioni, avendo subito sia condanne definitive, che assoluzioni per prescrizioni (utilizzabili nell’ambito di un eventuale procedimento di prevenzione); a ciò si aggiunga che, in epoca contestuale alla cessione dei beni, NOME COGNOME è stato ritenuto partecipe all’associazione denominata “clan Casamonica”.
Sulla base di tali elementi, si ritiene che la motivazione della Corte di appello risulti immune da censure, non incorrendo in vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà, lì dove ha ritenuto che i beni, sicuramente di proprietà di NOME COGNOME vennero da questi intestati ai prossimi familiari al fine di eludere possibili misure di prevenzione patrimoniali.
Né rileva l’eventualità, pur dedotta dalla difesa, secondo cui le intestazioni fittizie erano dettate da esigenze “civilistiche”, posto che il concorrente timore di una possibile aggressione dei beni da parte di creditori non è elemento idoneo ad escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., come, peraltro, già precisato nella sentenza rescindente (si veda anche Sez.2, n. 46704 del 9/10/2019, Fotia, Rv.277598).
Parimenti non dirimente è l’osservazione secondo cui, se NOME COGNOME avesse inteso escludere il rischio di misure ablative reali, non avrebbe intestato parte dei suoi beni al padre NOME, essendo quest’ultimo a sua volta pregiudicato. L’idoneità in concreto della scelta compiuta dagli imputati a frapporre uno schermo rispetto a misure ablative rappresenta una questione di merito, che introduce una spiegazione alternativa rispetto a quella recepita dalla Corte di appello che, peraltro, si è espressamente fatta carico dell’eccezione fornendo adeguata risposta.
8.1. Il secondo motivo, comune ai ricorrenti, attiene alla configurabilità dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, essendosi evidenziato come – all’epoca delle fittizie intestazioni – non era neppure ipotizzabile la sussistenza di un’associazione di stampo mafioso, posto che tale reato sarebbe stato contestato per la prima volta solo a distanza di anni (2018).
In ogni caso, difettava la prova della finalità agevolativa in capo ai fittizi intestatari i quali, al più, potevano aver agito al fine di tutelare i beni di NOME COGNOME e non certo per arrecare una qualche forma di vantaggio ad un’associazione criminale, dai predetti neppure conosciuta.
Le doglianze difensive sono state compiutamente esaminate in appello, avendo il giudice del rinvio precisato che i ricorrenti, proprio in virtù degli strettissimi legami familiari con NOME COGNOME partecipavano attivamente alle sue attività illecite, peraltro, i predetti vivevano nel medesimo contesto territoriale e familiare in cui era radicata l’associazione di stampo mafioso denominata “clan
Casamonica”. COGNOME Viene descritto un contesto di totale connivenza e condivisione delle attività illecite, rispetto al quale l’intestazione fittizia dei beni illecitame accumulati costituiva una necessaria conseguenza.
Sul punto, peraltro, risulta dirimente quanto osservato nella sentenza rescindente, lì dove – condividendosi la logica ricostruttiva recepita nella sentenza di primo grado (che aveva condannato i ricorrenti riconoscendo anche l’aggravante dell’agevolazione) – ha testualmente precisato che gli «investimenti del clan finissero per implementare la forza criminale del gruppo e la sua presenza ed influenza sul territorio e sulle attività commerciali», sicchè il mantenimento dei beni accumulati costituiva una esigenza diretta non solo alla salvaguardia del patrimonio del singolo associato, ma anche a garantire all’associazione quel predominio “economico” che costituiva uno degli aspetti mediante il quale la natura mafiosa si manifestava.
Rispetto a tale precisa indicazione contenuta nella sentenza rescindente, la Corte di appello ha riconosciuto la necessità per gli associati di palesare la ricchezza accumulata, essendo questo uno dei modi mediante i quali veniva implementata la fama criminale della compagine (così pg.31).
Per concludere sul tema, infine, deve evidenziarsi che la sussistenza dell’aggravante è stata confermata anche nei confronti del concorrente, separatamente giudicato, NOME COGNOME (Sez.2, n. 16472 del 16/1/2024, COGNOME, in particolare si veda pg. 145).
8.2. Il terzo motivo, volto a censurare il trattamento sanzionatorio e l’omesso riconoscimento delle attenuanti generiche, è generico non confrontandosi con le puntuali argomentazioni utilizzate dalla Corte di appello per motivare la quantificazione della pena e l’esclusione dell’attenuante, basate sulla apprezzabile gravità dei fatti (così pg. 32).
Il ricorso presentato da NOME COGNOME è infondato.
Il ricorrente contesta la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, contestatagli in relazione al reato di intestazione fittizia di un’autovettura acquistata, quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, da COGNOME NOME, ma in realtà appartenente a COGNOME Salvatore.
La sentenza rescissoria ha sottolineato come la Corte di appello, nell’escludere l’aggravante, aveva omesso di considerare le risultanze probatorie dalle quali risultava la piena consapevolezza da parte di NOME COGNOME in ordine al fatto che l’intestazione fittizia dell’autovettura era stata realizzata nell’interesse del clan Casamonica, al punto da indurlo a temere di essere indagato a titolo di partecipazione al reato associativo.
Il giudice del rinvio, nel riesaminare la posizione di COGNOME, ha valorizzato le intercettazioni telefoniche e, in particolare, la conversazione intercorsa con NOME COGNOME, nel corso della quale COGNOME – dopo essere stato convocato dai Carabinieri per redigere il verbale di identificazione relativamente al reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. – palesava i timori per il proprio coinvolgimento nel procedimento penale con i Casamonica, a riprova della consapevolezza del fatto che l’intestazione fittizia si collocava tra i reati finalizzati ad agevolare tal associazione.
La difesa, anche in sede di ricorso per Cassazione, ha ribadito la lettura alternativa delle intercettazioni telefoniche che, tuttavia, non dimostra una alterazione del dato oggettivo, né la manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione, con la conseguente inammissibilità del vizio.
Essendo la motivazione della sentenza impugnata in gran parte fondata sulle risultanze delle intercettazioni telefoniche, è anche necessario ribadire che l’attività di interpretazione delle captazioni è questione di fatto, non sindacabile in sede di legittimità. Per consolidata giurisprudenza, infatti, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez.U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715). Ne consegue che è rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 50701 del 4/10/2016, COGNOME, Rv. 268389).
Corollario di tale affermazione è l’ulteriore principio secondo cui in sede di legittimità è possibile prospettare un’interpretazione del significato di un’intercettazione, diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez.3, n. 6722 del 21/11/2017, dep.2018, COGNOME, Rv. 272558).
Con riguardo all’individuazione del vantaggio per l’associazione che sarebbe derivato dall’intestazione fittizia, la Corte di appello ha ribadito l’interesse del sodalizio a che i propri appartenenti mostrassero un elevato tenore di vita e la disponibilità di beni di valore, essendo questa una delle manifestazioni della loro caratura criminale. Rispetto a tale esigenza, pertanto, l’intestazione fittizia dei beni e la conseguente esclusione di possibili misure ablatorie aveva una funzione
strumentale non limitata all’interesse del singolo associato, bensì riferibile all’intero sodalizio.
9.1. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, lì dove censura la valutazione di merito compiuta dalla Corte di appello nella quantificazione dell’aumento per l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, stabilita nella misura di 1 /2 rispetto alla pena base. Sia pur in maniera sintetica, la Corte di appello ha dato atto di aver compiuto una valutazione di complessiva gravità del fatto, il che rappresenta un criterio di per sé assorbente.
9.2. Il terzo motivo, relativo alla violazione dell’art. 63, comma 4, cod. pen., è stato oggetto di espressa rinuncia
10. Il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE è fondato.
Nella sentenza rescindente si dava atto che, nell’affermare la responsabilità della predetta in ordine all’interposizione fittizia, commessa in concorso con il convivente NOME COGNOME, relativamente all’autovettura intestata a NOME COGNOME (capo RR), non era stato specificato il contributo causale offerto dalla ricorrente, tanto meno risultava dimostrata la sussistenza dell’elemento soggettivo.
Si tratta di carenze che, pur all’esito del giudizio di rinvio, non risultano colmate a riprova della sostanziale carenza di elementi idonei a dimostrare la colpevolezza della ricorrente.
La responsabilità della ricorrente è stata desunta dal fatto che quest’ultima è la nipote di COGNOME NOME, soggetto che figurava quale titolare dell’autovettura successivamente trasferita, fittiziamente, a NOME COGNOME. La ricorrente, pertanto, viene descritta quale l’anello di congiunzione tra il convivente NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché quale persona pienamente a conoscenza delle attività illecite poste in essere dal convivente, si sottolinea, inoltre, come la ricorrente si fosse attivata per ottenere il dissequestro dell’autovettura.
La Corte di appello, sulla base di tali elementi, ha ritenuto sussistente il concorso, quanto meno a livello morale, nel reato di cui all’art. 512-bis cod. pen.
Le considerazioni valorizzate dalla Corte di appello descrivono, invero, una situazione di connivenza della ricorrente rispetto ai traffici illeciti del convivente, senza che, tuttavia, sia stato dimostrato un reale apporto causale, sia pur a livello di mero concorso morale, rispetto allo specifico reato contestato.
L’esistenza di stretti rapporti parentali tra i protagonisti della vicenda e la ricorrente, in assenza di un concreto elemento dal quale desumere un apporto causale al fatto o, quanto meno, una condotta rafforzativa o agevolatrice
dell’intento criminoso dei concorrenti, non consente di attribuire alla ricorrente alcun ruolo penalmente rilevante nella vicenda in esame.
Ne consegue che la condanna inflitta alla ricorrente, relativamente al capo RR), deve essere annullata perché la predetta non ha commesso il fatto.
Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi degli imputati devono essere rigettati con esclusione del solo annullamento senza rinvio in favore di NOME. Al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Devono, invece, essere compensate le spese di giudizio nei confronti delle parti civili, posto che i ricorsi avevano prevalentemente ad oggetto aspetti di mero rilievo penale e non incidenti sulle statuizioni civili, peraltro, le parti civili si so limitate ad un sostanziale richiamo delle argomentazioni contenute nelle sentenze di merito, senza alcun effettivo apporto ulteriore rispetto ai motivi di ricorso proposti dai ricorrenti.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di NOME per non avere commesso il fatto.
Rigetta i ricorsi degli altri imputati che condanna al pagamento delle spese processuali.
Compensa integralmente tra le parti le spese di costituzione di parte civile.
Così deciso il 28 novembre 2024
Il Consigliere estensore
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