Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 45884 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 45884 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOMECOGNOME nato a Reggio Calabria 1’8.1.1990
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria del 28.11.2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME sentita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procura generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il difensore, avvocato NOME COGNOME che si è riportato ai motivi del ri chiedendone raccoglimento;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 28.11.2023, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del g.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria di condann di COGNOME NOME alla pena di dieci anni di reclusione per i reati di tentato omici aggravato dalla premeditazione e dalla minorata difesa, di ricettazione e
danneggiamento seguito da incendio, tutti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.
1.1 La Corte d’Appello richiama largamente in apertura la sentenza di primo grado, premettendo che, secondo la ricostruzione operata dal g.u.p., NOME, in concorso con COGNOME NOME, aveva investito volontariamente COGNOME NOME su una strada senza uscita priva di marciapiede, percorrendola ad alta velocità a bordo di un furgone Fiat Doblò, poi risultato provento di furto, che aveva volontariamente indirizzato contro la vittima a piedi e che successivamente al fatto era stato dato alle fiamme nel greto di un torrente. La vittima era da considerarsi un personaggio inserito nei contesti di ‘ndrangheta reggina di maggiore prestigio criminale, già condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. quale esponente di spicco della cosca COGNOME–COGNOME.
La sentenza di secondo grado dà conto delle emergenze probatorie, a partire dai primi accertamenti della polizia giudiziaria, la quale ricostruiva innanzitutto la dinamica del fatto attraverso le immagini registrate da una telecamera di videosorveglianza installata sulla facciata di un edificio della strada dell’investimento. La visione delle immagini, in particolare, consentiva di desumere la natura intenzionale dell’investimento, di individuare NOME e COGNOME come i soggetti a bordo del furgone investitore (circostanza, questa, che peraltro non veniva negata dal ricorrente) e di ricostruire il tragitto successivamente percorso dal furgone senza soluzione di continuità fino al torrente nel greto del quale veniva poi rinvenuto incendiato.
La sentenza di appello, quindi, richiama ampiamente le ragioni per le quali il giudice di primo grado aveva ritenuto inattendibile la versione di NOME, tendente ad accreditare la natura colposa dell’investimento, e gli elementi dai quali il g.u.p. aveva tratto ragioni per ritenere smentita in fatto la versione dell’imputato. Il g.u.p., inoltre, negava che vi fossero margini per la ravvisabilità della scriminante dello stato di necessità, invocato da NOME, e riteneva la sussistenza delle aggravanti della premeditazione nonché della c.d. minorata difesa. Affermava, altresì, la sussistenza dell’aggravante della agevolazione dell’attività di associazione mafiosa, richiamando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME e il contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate in altro procedimento (denominato “RAGIONE_SOCIALE“).
1.2 Ciò detto, i giudici di secondo grado, in relazione ai motivi di appello, hanno ribadito innanzitutto l’inattendibilità della ricostruzione alternativa dell vicenda offerta dall’imputato, sia in ordine ai motivi del furto del furgone, sia in ordine alle ragioni per le quali il furgone avrebbe imboccato la via percorsa dalla vittima, sia in ordine alla natura asseritamente non intenzionale dell’investimento.
Quanto, poi, all’aggravante dell’art. 416-bis.1 cod. pen., la Corte d’Appello ha richiamato le risultanze del procedimento denominato “RAGIONE_SOCIALE“, con particolare riferimento al contenuto di numerose conversazioni intercettate, dalle quali era emersa la ricorrenza di frizioni tra il padre del coimputato di NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine alla gestione della cosca COGNOME: contenuto, che consentiva complessivamente – secondo i giudici di secondo grado – di comprendere la funzionalizzazione del tentato omicidio di COGNOME ad un riassetto degli equilibri della ‘ndrangheta di Archi. In questo contesto, la caratura criminale di COGNOME era attestata sia dalle dichiarazioni del collaboratore COGNOME, sia da alcune conversazioni in cui si faceva il suo nome e lo si collocava chiaramente in contesti mafiosi. Dunque, l’eliminazione di COGNOME sarebbe stata idonea a determinare un mutamento degli equilibri criminali nella ‘ndrangheta di Archi con un ridimensionamento del potere della cosca COGNOME NOME–COGNOME E NOME condivideva la finalità perseguita, in considerazione dei suoi rapporti con COGNOME NOME e del pregresso furto con l’occultamento del furgone poi utilizzato per l’agguato.
Quanto alla premeditazione, la Corte d’Appello ne ha ritenuto la sussistenza sulla base delle seguenti circostanze: che il furgone fosse stato procurato da uno dei partecipanti all’agguato; che fosse stato tenuto fermo due mesi onde evitare che potesse essere monitorato dai sistemi di controllo delle ff.00.; che successivamente al fatto fosse stato incendiato, a riprova della pianificazione della sua immediata distruzione, indicativa della premeditazione; che nel luogo dell’incendio fosse stata asportata una foto-trappola installata dal proprietario dell’area un mese prima; che gli imputati avessero pedinato la vittima per quindici minuti; che il fatto fosse assistito da un’adeguata causale; che l’obiettivo dell’agguato era persona di spicco, la quale non avrebbe potuto essere colpita in modo istantaneo ed estemporaneo, richiedendo l’attentato alla sua incolumità fisica, invece, una ponderazione dei mezzi.
Quanto alla c.d. minorata difesa, la Corte d’Appello ha valorizzato la circostanza che l’investimento sia avvenuto in una strada stretta e senza uscita, ove la vittima non avrebbe avuto vie di fuga.
Quanto all’invocato stato di necessità, la sentenza di secondo grado ha evidenziato che la difesa abbia richiamato vicende successive al fatto, peraltro non conciliabili con la linea difensiva del fatto colposo.
Quanto al capo b) (non fatto oggetto di ricorso), la Corte territoriale ha riqualificato il fatto come furto aggravato. Quanto al capo c), ha fatto riferimento alle videoriprese dalle quali emerge che i due imputati avevano condotto il furgone al torrente Scaccioti, dove era poi sopraggiunto un terzo soggetto, a bordo di uno scooter con targa occultata, che lo aveva incendiato, così ponendo in essere
quest’ultimo una condotta impossibile da spiegare se non con un accordo con gli imputati, a maggior ragione se si considera che un mese prima del fatto era stata asportata da qual luogo una foto-trappola.
La Corte d’Appello, infine, ha confermato il trattamento sanzionatorio del primo grado. Dalla lettura della sentenza del g.u.p., risulta che questi avesse tenuto conto, nella commisurazione della pena, dei danni cagionati, della forte intenzionalità criminosa, dell’agire delinquenziale e scaltro, della gravità della condotta finalizzata ad agevolare la criminalità organizzata; aveva altresì riconosciuto la continuazione per un medesimo disegno criminoso diretto a pianificare l’agguato.
Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso il difensore di NOME COGNOME articolando nove motivi, tutti formulati ai sensi delle lett. b) ed e) dell’ar 606 cod. proc. pen. (secondo uno schema generale per cui, dalla censura di violazione di un determinata disposizione di legge, si fa discendere la censura di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione)
2.1 Con il primo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 533 cod. proc. pen., in quanto – si sostiene – la motivazione si fonda su presunzioni e sillogismi, slegati dall’accertamento dei fatti e non idonei a raggiungere il giudizio di colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. La sentenza ruota intorno alla circostanza aggravante dell’art. 416-bis.1 cod. pen. e ricostruisce la condotta sulla base della circostanza stessa: non a caso, undici pagine della sentenza sono dedicate alla aggravante e solo tre alla valutazione della condotta.
2.2 Con il secondo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 416-bis cod. pen., in quanto la sentenza non dà conto delle ragioni per cui sussiste la finalità di agevolare una cosca mafiosa.
Nelle conversazioni intercettate non v’è riferimento a NOME e al coimputato, né all’agguato di cui sarebbero autori. La sussistenza dell’aggravante è affermata sulla scorta della caratura criminale della vittima e del malcontento che emerge in alcune conversazioni, tra cui quelle in cui parla il padre del coimputato, nei confronti del clan COGNOME; ma non è stato accertato a beneficio di chi sarebbe stato compiuto il fatto, a quale clan avrebbe giovato, chi siano i mandanti.
In ogni caso, è necessario, ai fini della configurabilità dell’aggravante, che l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio all compagine associativa, secondo una sua valutazione personale non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione; deve essere esclusa, pertanto, una lettura in termini puramente oggettivi dell’aggravante, mentre invece nel caso di specie non è ravvisabile alcun elemento dimostrativo
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della previa rappresentazione da parte di NOME circa la utilità dell’azione illecita rispetto agli scopi dell’associazione.
2.3 Con il terzo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 192 e 546 cod. proc. pen., in quanto la responsabilità di NOME viene fondata sul difetto di attendibilità delle sue dichiarazioni in ordine alle ragioni del furto del furgone, all ragioni dell’ingresso nella strada ove camminava la vittima e alla spiegazione della causa dell’incidente, nonché sulla alta velocità del mezzo e sul fatto che abbia ripercorso in senso inverso la medesima via. Ma – secondo il ricorso – la motivazione è contraddittoria quando afferma che l’utilizzo di un mezzo rubato era finalizzato ad ostacolare l’identificazione degli imputati e poi sostiene che le modalità del fatto sono tali da consentire l’individuazione di NOME; è illogica quando sostiene che il furgone è stato rubato per l’agguato e non tiene conto che il furto è avvenuto due mesi prima e che il mezzo è stato parcheggiato proprio nel territorio di riferimento della cosca cui appartiene la vittima; è illogica, altres quando non tiene conto che NOME e il suo coimputato avrebbero girato il giorno del fatto nello stesso quartiere e con lo stesso furgone a viso scoperto. E’ inverosimile la ricostruzione operata in sentenza, quando non tiene conto che l’alta velocità e la luce abbagliante del sole hanno determinato l’evento in modo colposo e quando, al contrario, ipotizza che l’abbassamento della alette parasole del veicolo servisse a impedire l’identificazione degli agenti. E’ illogica quando non tiene conto che la strada era chiusa e che, dunque, il mezzo non avrebbe potuto far altro che ripercorrerla. La sentenza – ancora – viola l’art. 192 cod. proc. pen. quando ritiene l’azione idonea a cagionare la morte senza considerare che la vittima non è mai stata in pericolo di vita e quando ritiene sussistente Vanimus necandi senza considerare che l’azione non è stata reiterata. Non prende in considerazione l’ipotesi che sussistano solo le lesioni, tenuto conto che il dolo del tentato omicidio è esclusivamente il dolo diretto, e che peraltro le lesioni siano colpose, in quanto dalla dinamica del fatto e dalle dichiarazioni della vittima non può escludersi la plausibilità dell’ipotesi di un mero incidente dovuto alla perdita del controllo del mezzo da parte del guidatore. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.4 Con il quarto motivo, si deduce la violazione degli artt. 192 e 546 cod. proc. pen., 577 cod. pen.
Il ragionamento della Corte d’Appello sulla premeditazione – afferma il ricorso – è contraddittorio, in quanto: 1) sostiene che il furto del furgone fosse stato eseguito per il suo utilizzo nel successivo agguato, onde evitare la riconducibilità agli imputati del mezzo impiegato, ma trascura di considerare che al momento del furto l’imputato ha lasciato in loco la sua autovettura con i propri documenti e che comunque il giorno dell’agguato, avvenuto in pieno giorno, i due esecutori hanno girato disinvoltamente a volto scoperto sugli stessi luoghi; 2) la vittima ha
dichiarato che nessuno sapeva che quel giorno avrebbe percorso quel tragitto. Inoltre, la sentenza impugnata ricollega la premeditazione al successivo incendio del furgone, così motivandola sulla base di un evento successivo a quello premeditato.
2.5 Con il quinto motivo, si deduce la violazione degli artt. 192 e 546 cod. proc. pen., 61 n. 2 cod. pen., in quanto la sentenza fonda la sussistenza dell’aggravante della c.d. minorata difesa sul solo fatto che la vittima è stata investita su una strada a senso unico, trascurando che i fatti si sono svolti in pieno giorno, in un quartiere abitato e in una strada abitualmente percorsa da pedoni e a utovettu re.
2.6 Con il sesto motivo, si deduce la violazione degli artt. 192, 530, comma 3, e 546 cod. proc. pen., 54 cod. pen., in quanto l’ipotesi accusatoria postula che il tentato omicidio sia stato commesso per agevolare una consorteria mafiosa. Ma anche se così fosse, la sentenza non considera che nel suo interrogatorio NOME ha dichiarato di avere paura per l’incolumità dei suoi familiari, ciò che legittima l’ipotesi che abbia agito in stato di necessità e sotto costrizione. La sentenza, sul punto, ha ritenuto illogico che il clan abbia potuto incaricare un estraneo dell’attentato ai danni di un appartenente ad una cosca rivale. Ma questo sostiene il ricorso – può essere al tempo stesso il motivo per cui è stato incaricato lui. Inoltre, la sentenza non avrebbe considerato il contenuto di una informativa della Polizia di Stato del 3.6.2021, da cui risulterebbero elementi in base ai quali ipotizzarsi che NOME fosse stato vittima di gravissime minacce.
2.7 Con il settimo motivo, si deduce la violazione dell’art. 81 cod. pen.: i giudici hanno ritenuto la continuazione tra i reati contestati, quando invece dalla lettura degli atti risulta un succedersi di eventi del tutto casuale, piuttosto che un preordinato progetto criminoso.
2.8 Con l’ottavo motivo, si deduce la violazione degli artt. 192 e 530 cod. proc. pen., 424 cod. pen. Si sostiene che la motivazione sul reato di incendio è inesistente: in sostanza, la sentenza afferma che, essendo rimasto ignoto l’autore, questi non poteva che essere identificato in Geria o in qualcuno che era d’accordo con lui. Peraltro, mentre il giudice di primo grado aveva individuato l’autore dell’incendio nello stesso Geria, i giudici di secondo grado lo individuano in un terzo in accordo con lui, così confermando che è impossibile identificare l’autore. In ogni caso, manca nel fatto il pericolo di incendio richiesto dall’art. 424 cod. pen.
2.9 Con il nono motivo, si deduce la violazione dell’art. 133 cod. pen., in quanto la motivazione sulla pena utilizza formule di stile e non prende in considerazione i parametri di cui all’art. 133 cod. pen.: non vi è alcun cenno al diniego delle attenuanti generiche, nè alcuna valutazione della personalità di
NOME della sua condotta concreta e del contributo apportato alla commissione del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso sono da rigettarsi o da dichiararsi inammissibili, ad eccezione del secondo motivo, da accogliersi nei termini che di seguito si esporranno.
Non sembra inutile far precedere la disamina dei motivi, dalla premessa che, nel caso di specie, si è di fronte ad una c.d. doppia conforme, giacché la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria, nella sua struttura argomentativa, si salda con la sentenza di primo grado del g.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria, sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima, sia adottando gli stessi criteri utilizza nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr., in proposito, Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, Rv. 277218 – 01).
Deve anche premettersi che la trattazione dei motivi non seguirà strettamente l’ordine con cui gli stessi sono stati proposti nel ricorso, ma si svilupperà prendendo in considerazione dapprima i motivi riguardanti la struttura del reato, nelle sue componenti oggettiva e soggettiva, e solo dopo quelli riguardanti le circostanze aggravanti che accedono al reato ove perfezionatosi.
1. Il primo motivo è inammissibile.
Tutto incentrato sulla doglianza della violazione del canone dell – oltre ogni ragionevole dubbio”, il motivo è tuttavia generico e si può ritenere che sia stato congegnato come una sorta di premessa agli argomenti sviluppati nei successivi motivi di ricorso.
Tanto è vero che non sono state formulate doglianze attinenti ad aspetti specifici della motivazione della Corte d’Appello di Reggio Calabria: non si rinviene la precisa prospettazione delle ragioni di diritto o degli elementi di fatto da sottoporre a verifica e si attacca a grandi linee la persuasività e l’inadeguatezza della pronuncia, senza che sia possibile enucleare i capi o i punti che si impugnano e quali ben determinati argomenti della sentenza si criticano.
In questo modo, però, il motivo si consegna alla censura di inammissibilità per difetto di specificità.
Ciò che non si rintraccia nel primo motivo, rifluisce interamente nel terzo motivo di ricorso, il quale attiene complessivamente alla ricostruzione del fatto, sia nel suo elemento materiale che in quello soggettivo.
2.1 Va rilevato, innanzitutto, che le censure di contraddittorietà o manifesta illogicità sviluppate in questo motivo si fondano sul presupposto della credibilità delle dichiarazioni di NOME, laddove invece la sentenza approda alla motivazione censurata dal ricorrente esattamente a partire dalla confutazione della attendibilità della versione dell’imputato.
I giudici di merito operano tale valutazione senza incorrere in alcuna contraddizione o illogicità, ma anzi attingendo proprio a criteri di ragionevolezza e di conformità a logica per giungere coerentemente a escludere la possibilità di porre a base del proprio ragionamento probatorio la del tutto indimostrata e incongrua ricostruzione dell’imputato circa tempi e modi del furto del furgone utilizzato per l’investimento.
Anche la censura di illogicità relativa al fatto che NOME, incurante del rischio di essere ricollegato al successivo investimento, avrebbe prima dell’agguato irragionevolmente percorso l’intero quartiere a bordo del furgone, sostando anche in alcuni esercizi commerciali, è basata sulla versione dell’imputato, ma non si confronta affatto con le oggettive emergenze probatorie: in realtà, la visione da parte della polizia giudiziaria delle immagini dei sistemi di videosorveglianza funzionanti sui luoghi del fatto ha consentito di accertare – e le sentenze ne danno diffusamente atto – che invece NOME e il suo coimputato percorsero quella mattina le strade del quartiere a bordo di un ciclomotore e che solo dopo aver avvistato la vittima si trasferirono poi sul furgone, evidentemente lasciato in sosta nei paraggi, per passare dal pedinamento alla fase più propriamente operativa del piano criminoso, esauritasi nel giro di pochissimi minuti.
Nient’affatto illogica, poi, è la motivazione della sentenza nella parte in cui esclude la plausibilità della prospettazione difensiva, evidentemente mutuata dalle dichiarazioni dello stesso COGNOME, secondo la quale l’investimento sarebbe stato di natura accidentale e dovuto essenzialmente alla luce del sole che avrebbe abbagliato il conducente del mezzo investitore.
I giudici di merito, di contro, hanno dato adeguatamente atto che tale spiegazione alternativa del fatto era smentita, nuovamente, dalle riprese estrapolate dalle telecamere presenti sulla via ove era avvenuto il fatto, dalle quali risultava che il furgone avesse percorso la strada, in salita e stretta di carreggiata, a forte velocità, con una andatura rasente al muro a fianco del quale stava camminando la vittima e senza rivelare perdite di controllo, frenate o sbandate; non solo, ma anche ripercorrendo a ritroso la strada senza uscita per allontanarsi, il furgone si era spostato tutto sul lato sinistro della carreggiata nel tratto in c ancora giaceva a terra l’investito, sebbene sbalzato nel ballatoio di una abitazione prospiciente la strada e, dunque, ormai al riparo da eventuali tentativi di nuovo investimento.
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Si tratta di elementi a fronte dei quali sarebbe stato manifestamente illogico, piuttosto, ricavare – come invoca il ricorso – la natura colposa del fatto, a maggior ragione se letti alla luce del contesto immediatamente pregresso, da cui emergevano dati altamente indicativi di una deliberata pianificazione e organizzazione dell’azione investitrice.
2.2 Quanto, poi, alle censure relative al difetto dell’elemento psicologico del tentato omicidio, il motivo di ricorso in esame muove dal dato oggettivo secondo cui la vittima non era mai stata in pericolo di vita, per inferirne un vulnus del ragionamento probatorio, non solo in termini di qualificazione giuridica di un fatto che fosse ritenuto doloso, ma anche per trarne ulteriore argomento di dimostrazione della mancanza in capo agli agenti del dolo omicidiario.
In ordine alla circostanza che la vittima non abbia versato in pericolo di vita, qui basti ricordare il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di delitto tentato, il giudizio di idoneità degli atti consiste una prognosi compiuta “ex post” con riferimento alla situazione presentatasi all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni meramente prevedibili nel caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (Sez. 1, n. 32851 del 10/6/2013, Rv. 256991 – 01). Diversamente, l’azione che non abbia conseguito l’evento sarebbe sempre inidonea e, quindi, la stessa figura del tentativo non sarebbe giuridicamente concepibile (Sez. 1, n. 597 del 9/11/1984, dep. 1985, Rv. 167463 – 01).
E, nel caso di specie, i’giudici di merito hanno esaustivamente motivato, come già osservato, circa il fatto che le circostanze del caso concreto – alta velocità del furgone, direzione del mezzo contro la vittima, situazione dei luoghi propizia facciano propendere senza dubbio alcuno per la volontarietà dell’investimento e per la oggettiva idoneità dell’azione a cagionare la morte dell’investito.
Né rileva l’argomento, pure prospettato nel motivo di ricorso, secondo cui l’insussistenza del dolo omicidiario sarebbe avvalorata dal fatto che gli imputati si erano poi allontanati dal luogo dell’investimento senza reiterarlo.
Anche la circostanza della mancata ripetizione dell’azione, infatti, non vale ad escludere la sussistenza della volontà omicida, qualora sia accertato che, per le modalità operative, l’azione sia stata idonea a causare la morte della vittima e tale evento non si sia verificato per cause indipendenti dalla volontà dell’agente (Sez. 1, n. 45332 del 2/7/2019, Rv. 277151 – 01).
Già sopra richiamata la motivazione relativa alla idoneità dell’azione a causare la morte, qui deve aggiungersi che le sentenze di merito motivano più che adeguatamente sulla circostanza che non sia stato possibile reiterare l’investimento, a cagione del fatto che, per effetto dell’iniziale investimento, l vittima era stata sbalzata all’interno di un ballatoio prospiciente la strada ove il
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mezzo investitore non poteva più arrivare: tanto è vero che i giudici menzionano convenientemente le risultanze delle immagini acquisite, da cui è possibile distinguere che il furgone, sulla strada del ritorno, non tiene la mano destra e si riavvicina invece, sempre a velocità sostenuta, alla vittima che giace a terra sulla sinistra, con una condotta di guida che non trova altra spiegazione che non sia quella di una nuova manovra di investimento, non più possibile tuttavia per ragioni oggettive.
Quanto, infine, al dolo d’omicidio, la cui insussistenza è sostenuta dal ricorrente per invocare in subordine la configurabilità delle sole lesioni personali volontarie, non vale l’argomento, utilizzato dalla difesa, della incompatibilità del dolo eventuale con il tentativo, in quanto nel caso di specie non è dubitabile, ove si muova dalla ricostruzione del fatto operata dalle sentenze di merito, che l’azione fosse connotata dal dolo diretto di omicidio.
L’avvenuta attribuzione da parte dei giudici di merito di un plausibile significato organico alle singole prove acquisite reca con sé quale conseguenza non oppugnabile l’affermazione secondo cui la condotta concreta – per le caratteristiche del mezzo utilizzato, per la sede corporea attinta con l’investimento, per le modalità del caso concreto, etc. – fosse funzionale al perseguimento/conseguimento dell’evento morte come scopo finale dell’azione e non come mera accettazione del rischio che si verificasse quale conseguenza non voluta della condotta.
2.3 GLYPH Per quanto fin qui osservato, dunque, il terzo motivo deve considerarsi complessivamente infondato, in quanto, per un verso, attacca una motivazione nell’insieme adeguata e logica per il tramite della proposta di una mera rivalutazione delle prove sul piano del merito non consentita nel giudizio di legittimità, e, per l’altro, prospetta censure prive di pregio.
Venendo ora all’esame dei motivi di ricorso relativi alle circostanze aggravanti, il secondo motivo eccepisce, innanzitutto, l’insussistenza degli elementi integranti l’aggravante, ex art. 416-bís.1 cod. pen., di avere agito al fine di agevolare l’attività di un’associazione a delinquere di stampo mafioso e, in ogni caso, il mancato accertamento, alla luce dei principi recentemente espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla detta aggravante, del fatto che l’agente – ovvero NOME – abbia commesso l’azione illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa, rappresentandosi l’effettiva possibilità che l’azione stessa si inscrivesse nelle possibili utilità anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine.
3.1 La prima parte del motivo è destituita di fondamento, in quanto non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la
sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p. viene ricavata dall’esame del contenuto di numerose conversazioni intercettate in altro procedimento.
In particolare, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, richiamate le attendibili dichiarazioni di un collaboratore di giustizia circa l’intraneità della vittim dell’agguato alla cosca COGNOME/Tegano del quartiere Archi di Reggio Calabria (circostanza che, peraltro, emerge anche dalle intercettazioni agli atti), fa ampio riferimento al contenuto di tali conversazioni con dovizia di particolari, da cui emerge l’esistenza di profondi contrasti tra la famiglia di COGNOME NOME, (i cui componenti erano storicamente inseriti nella cosca di cui si parla), coimputato di COGNOME e i COGNOME: in questo contesto, il tentato omicidio di COGNOME, esponente della cosca di Archi, era da inquadrarsi in una dinamica di riassetto degli equilibri della ‘ndrangheta di Archi.
A fronte di tale ricostruzione, il ricorso non fa più che contestare genericamente il significato che i giudici di merito hanno attribuito alle intercettazioni, così introducendo una questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, che si sottrae al sindacato di legittimità se motivata – come nel caso di specie – in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza.
3.2 Viceversa, la seconda censura contenuta in questo motivo di ricorso è da ritenersi fondata.
La motivazione sulla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. è tutta incentrata sulla posizione della famiglia COGNOME nel contesto di ‘ndrangheta reggino e riconduce l’attentato a Benestare – come detto – ad un problema di profondi malumori manifestati in ordine alle modalità di gestione della cosca COGNOME e a frizioni insorte tra il padre di COGNOME NOME e COGNOME NOME: COGNOME NOME, in particolare, ambiva sostanzialmente a scalzare COGNOME da una posizione dominante e a guadagnare maggiore autonomia criminale, se non proprio a sostituire i vertici della cosca ovvero a marcare una scissione dal gruppo per il tramite di un’azione dimostrativa.
In questo contesto, la sentenza impugnata, non a caso, mette in evidenza che il padre e i due fratelli del coimputato di NOME, COGNOME NOME, peraltro lui pur additato nelle telefonate dai suoi stessi familiari come “mafioso”, fossero già coinvolti nello stesso procedimento, denominato “RAGIONE_SOCIALE“, a cui si riferivano le intercettazioni riportate nella motivazione.
Ciò posto, la Corte d’Appello, con riferimento a NOMECOGNOME aggiunge che i suoi rapporti di frequentazione con COGNOME NOME e il padre nonché la circostanza che si sia reso autore del furto e del successivo occultamento del furgone utilizzato esclusivamente per l’agguato sono “elementi che concorrono alla formazione di un
giudizio positivo in merito alla consapevole condivisione delle finalità perseguite con il tentativo di omicidio”.
Prima ancora, il g.u.p. aveva richiamato i precedenti di polizia di Geria, tutti per reati contro il patrimonio (l’ultimo dei quali, peraltro, risalente al 2012), circostanza che dopo i fatti egli, a seguito di una perquisizione domiciliare, avesse dismesso la propria utenza telefonica, e i suoi rapporti con tale NOME NOME, soggetto ritenuto vicino alla malavita locale, il quale si era adoperato dopo il suo arresto per assicurare assistenza legale e sostentamento per i familiari.
3.3 Come è noto, alle Sezioni Unite è stata in anni recenti rimessa la questione di diritto inerente alla natura – oggettiva o soggettiva – dell’aggravante speciale già prevista dall’art.7 d.l. n. 152 del 1991 ed oggi inserita nell’art. 416-bis 1 cod pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica sia consumata al fine di agevolare le associazioni mafiose (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734).
E’ stato ritenuto che il dato normativo testuale imponga la qualificazione della circostanza nell’ambito di quelle di natura soggettiva, inerenti al motivo a delinquere. La forma aggravata in esame esige, quindi, che l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa: è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possib utilità di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione.
Dunque, non vi è dubbio – secondo le Sezioni Unite – che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere. Quel che innegabilmente la disposizione richiede, per consentire l’applicazione dell’aggravante, è la presenza del dolo specifico o intenzionale in uno dei partecipi.
Quanto, poi, alla estensibilità della circostanza al concorrente nel reato, è stato affermato che la ricostruzione ermeneutica impone un approccio alla fattispecie, che vada al di là della classificazione formale.
Il dibattito sulla natura oggettiva o soggettiva dell’aggravante è sorto, soprattutto, per le diverse conseguenze in ordine all’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 59 o 118 cod. pen., come ridisegnate dalla legge n. 19 del 1990, con un intervento diretto alla eliminazione di ogni riflesso di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato, per l’esigenza di ricollegare qualsiasi componente dell’illecito, costitutivo o circostanziale, alla volontà del soggetto agente.
L’analisi storica della modifica – considera la sentenza COGNOME – porta a correggere l’assunto generalizzato secondo cui le circostanze soggettive devono essere escluse dall’estensione ai concorrenti, posto che, a ben vedere, tale esclusione, sancita solo dall’art. 118 cod. pen., è circoscritta a quelle aggravanti attinenti alle sole intenzioni dell’agente, pertanto potenzialmente non riconoscibili dai concorrenti. Se le circostanze soggettive richiamate dall’art. 70 cod. pen. (rimasto invece immutato) sono quelle che concernono «la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole», l’art. 118 cod. pen. non prevede l’impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un’indicazione autonoma, limitata alle «circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti all persona del colpevole» che richiede siano «valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono».
Il discrimine, ai fini della possibilità di estensione delle circostanze, non sembra riguardare la natura, oggettiva o soggettiva della circostanza, secondo la classificazione contenuta nel codice, ma piuttosto la possibilità di estrinsecazione della circostanza all’esterno, cosicché rimane esclusa dall’attribuzione al compartecipe qualsiasi elemento, di aggravamento o di attenuazione della fattispecie, confinato all’intento dell’agente che, proprio in quanto tale, non può essere esteso ai concorrenti, perché da questi non necessariamente conoscibile.
Di conseguenza, qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l’intento dell’agente sia stato riconosciuto dal concorrente e che tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l’estensione della sua applicazione, posto che il motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo, sulla base degli specifici elementi rivelatori che devono accompagnarne la configurazione, per assicurare il rispetto del principio di offensività.
In definitiva, là dove l’elemento interno proprio di uno degli autori sia stato conosciuto anche dal concorrente che non condivida tale fine, quest’ultimo viene a far parte della rappresentazione ed è quindi oggetto del suo dolo diretto ove il concorrente garantisce la sua collaborazione nella consapevolezza della condizione inerente il compartecipe.
Quanto significa che il concorrente nel reato, che non condivida con il coautore la finalità agevolativa, ben può rispondere del reato aggravato, quando sia consapevole della finalità del compartecipe, secondo la previsione generale dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., che attribuisce all’autore del reato gli effetti delle circostanze aggravanti da lui conosciute. Tale disposizione è applicabile
al concorrente ex art. 110 cod. pen., atteso che l’impostazione monistica del reato plurisoggettivo impone l’equivalenza degli apporti causali alla consumazione dell’azione concorsuale, cosi che la realizzazione della singola parte dell’azione, convergente verso il fine, consente di attribuire al partecipe l’intera condotta illecita, che rimane unitaria. In tal caso per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme di dolo eventuale.
In particolare, la funzionalizzazione della condotta all’agevolazione mafiosa da parte del compartecipe deve essere oggetto di rappresentazione, non di volizione, aspetto limitato agli elementi costitutivi del reato. A tal riguardo, occorre accertare se il compartecipe è stato in grado di cogliere la finalità avuta di mira dal partecipe, condizione che può verificarsi a seguito della estrinsecazione espressa da parte dell’agente delle proprie finalità ovvero per effetto della manifestazione dei suoi elementi concreti, quali particolari rapporti del partecipe con l’associazione illecita territoriale, o di altri elementi di fatto che emergano dalle prove assunte.
In presenza di tali dati dimostrativi, non potrebbe negarsi che l’agente cui si riferisce l’art. 59, secondo comma, cod. pen. – concetto che comprende chiunque dia il suo contributo alla realizzazione dell’illecito e quindi anche il compartecipe si sia rappresentato la finalità tipizzante la fattispecie aggravata, e, pur non agendo personalmente a tal fine, abbia assicurato il suo apporto al perfezionamento dell’azione illecita, nelle forme volute dai concorrenti.
3.4 Così delineati i presupposti necessari per l’applicabilità al concorrente nel reato della circostanza aggravante dell’aver agito al fine; perseguito dal compartecipe, di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso, si tratta ora di verificare se la sentenza impugnata abbia fatto buon uso dei principi individuati dalle Sezioni Unite che sono stati appena sopra richiamati.
In questa prospettiva, deve ritenersi, invero, che la motivazione relativa alla affermata comunicabilità della circostanza in esame a NOME NOME sia carente.
Quando, infatti, si occupano degli elementi di fatto che sarebbero rivelatori della consapevolezza anche in capo all’odierno ricorrente del motivo a delinquere, le sentenze di merito indicano, per un verso, circostanze successive al fatto (la dismissione dell’utenza cellulare, l’assistenza legale ricevuta dopo l’arresto), che di per sé sono poco significative rispetto alla prova che la rappresentazione della finalità agevolatrice fosse precedente e contestuale all’agguato.
Per altro verso, vengono richiamate circostanze addirittura irrilevanti, come la dedizione di NOME, peraltro risalente nel tempo, alla commissione di reati contro il patrimonio, ciò che semmai costituisce la dimostrazione della sua sostanziale estraneità al contesto associativo di stampo mafioso e, dunque, impone vieppiù che si rintraccino elementi concreti sulla base dei quali potersi affermare che il
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ricorrente conoscesse la finalità di agevolare l’associazione e che di conseguenza abbia consapevolmente assicurato il suo apporto all’azione illecita così connotata teleologicamente.
Resta il dato, indicato da entrambe le sentenze di merito, della frequentazione di NOME con COGNOME NOME, che tuttavia, alla luce della motivazione ad esso relativa, è un fattore di limitata consistenza dimostrativa, nel senso che viene tratto esclusivamente dal fatto che i due coimputati fossero stati controllati una volta insieme – come da consultazione della Banca Dati SDI – il 17/8/2018.
Si tratta obiettivamente di un elemento generico e debole, alla luce del quale – in difetto di altre specifiche informazioni – non è possibile ritenere che i due avessero realmente un rapporto di radicata consuetudine, né tantomeno che un solo comprovato contatto risalente a tre anni prima potesse avere un qualche rilievo sintomatico della condivisione con NOME, da parte di COGNOME, della finalità dell’agguato a Benestare del 26/5/2021.
Deve ritenersi, pertanto, che i giudici di merito, in definitiva, non abbiano adeguatamente individuato gli specifici elementi di fatto attraverso i quali hanno costruito l’inferenza che li ha condotti a considerare provato che la finalità di agevolazione dell’associazione di ‘ndrangheta si sia estrinsecata all’esterno, in modo da potere essere riconosciuta dal concorrente NOME: di conseguenza, la motivazione .e carente nella parte in cui giunge alla conclusione che il ricorrente abbia assicurato consapevolmente il suo apporto all’azione illecita, nella forma agevolativa dell’associazione mafiosa voluta dal coimputato.
Il secondo motivo di ricorso, pertanto, deve trovare accoglimento limitatamente alla estensione a NOME NOME della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Quanto alla censura relativa all’aggravante della premeditazione, articolata con il quarto motivo, deve ritenersi che la motivazione della Corte d’Appello in proposito non sia affatto contradditoria o manifestamente illogica, ma si fondi invece su un congruo apprezzamento degli elementi probatori.
In particolare, la sentenza impugnata ha fatto buon governo del principio secondo cui la circostanza aggravante della premeditazione, oggetto di prova ex · art. 187 cod. proc. pen. e, pertanto, assoggettata alle regole di valutazione stabilite nell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, sulla scorta degli indizi ricavabili dalle modalità del fat dalle circostanze di tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente; non è, invece, necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l’accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari suddetti siano
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gravi, precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275415 – 01).
Sotto questo profilo, la Corte d’Appello ha precisamente individuato i molteplici elementi dimostrativi della premeditazione, quali l’esecuzione a tempo debito del furto del furgone da utilizzare per l’agguato e la sua custodia per circa due mesi, il suo immediatamente successivo incendio in un’area dalla quale era stata asportata altrettanto tempestivamente una foto-trappola, il pedinamento della vittima, la causale dell’azione, lo spessore criminale dell’obiettivo dell’agguato che mal si conciliava con una deliberazione estemporanea.
In tal modo, la sentenza si incarica convenientemente di comprovare la sussistenza degli elementi costitutivi della circostanza aggravante della premeditazione, sia di quello di natura cronologica, che consiste in un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, sia quello di natura ideologica, che consiste nella ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275415 – 01; Sez. 5, n. 42576 del 3/6/2015, Rv. 265149).
Di tali elementi, sono sintomi il previo studio delle occasioni e dell’opportunità per l’attuazione, un’adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive (Sez. 1, n. 37825 del 29/4/2022, Rv. 283512 – 01; Sez. 1, n. 5147 del 14/7/2015, dep. 2016, Rv. 266205 – 01). Si tratta proprio di quegli indici di cui sono inequivoci rivelatori gli elementi richiamati dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria per rendere ragione della ritenuta sussistenza dell’aggravante della premeditazione.
Il motivo, pertanto, è infondato.
Quanto alla censura relativa all’aggravante della c.d. minorata difesa, articolata con il quinto motivo, il ricorso lamenta che la sentenza impugnata abbia valorizzato il solo elemento dell’investimento avvenuto su una strada a senso unico, trascurando che il fatto si fosse svolto in pieno giorno, in un quartiere abitato e in una strada abitualmente percorsa da pedoni e autovetture.
A tal proposito, deve ritenersi che il motivo non si confronti compiutamente con la motivazione e che, al fine di confutare che in concreto la privata difesa fosse ostacolata, ricorra in definitiva ad argomenti inconferenti rispetto alla specifica contestazione.
Da un lato, infatti, il ricorso richiama, tra quelle indicate dall’art. 61, n. cod. pen., le condizioni di tempo (“pieno giorno”), laddove invece l’imputazione,
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prima, e la sentenza, poi, fanno riferimento alle condizioni di luogo (per essere stato il soggetto passivo “ghermito alle spalle, mentre percorreva a piedi una stretta via, priva di marciapiede che gli inibiva la possibilità di eludere l’impatto”)
Risulta dal tenore testuale dell’art. 61, n. 5), cod. pen. che l’integrazione della circostanza aggravante non richieda la compresenza di tutte le condizioni previste dalla norma, la quale contiene una formulazione disgiuntiva che consente di ritenere sufficiente la presenza anche di una sola delle condizioni stesse: sicché il fatto che le condizioni di “tempo” non si frapponessero alla possibilità di apprestare una difesa, non significa che la difesa non potesse essere ostacolata da condizioni di “luogo”.
Dall’altro lato, anche quando evoca elementi sostanzialmente riferibili alle condizioni di “luogo” (“quartiere abitato” e “strada comunemente percorsa tanto da pedoni quanto da autovetture”), il ricorso fa riferimento comunque a circostanze del tutto irrilevanti ai fini della valutazione della sussistenza della aggravante in esame: si tratta, cioè, di condizioni suscettibili di influire non tanto sulla possibilità di difesa o meno della vittima, quanto invece sulla possibilità per gli autori dell’agguato di agire più disinvoltamente e senza temere di essere riconosciuti.
Ma ciò che rileva ai fini dell’integrazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5), cod. pen., non è tanto che l’agente profitti di condizioni da cui consegua la possibilità di commettere il reato in modo da guadagnarsi l’impunità, quanto invece che profitti di condizioni che ostacolano la privata difesa.
Se è così, dunque, la motivazione della Corte d’Appello di Reggio Calabria sul punto, ovvero “che la vittima è stata investita in una strada senza uscita, strada che non gli avrebbe consentito di avvalersi di vie di fuga trasversali”, è del tutto congrua e si salda adeguatamente con quella del giudice di primo grado, il quale aveva a sua volta evidenziato la modalità della condotta, caratterizzata “dall’utilizzo di un veicolo contro il pedone inerme, mentre transitava su una strada cieca e senza marciapiede di protezione”.
Si tratta di motivazione che spiega in modo conducente le ragioni per cui si doveva ritenere che nel caso di specie la difesa fosse obiettivamente assai più difficile in concreto.
Ne consegue, dunque, che è stato dato conto appropriatamente del fatto che le circostanze di cui l’agente ha profittato si siano tradotte, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato (cfr. Sez. U, n. 40275 del 15/7/2021, Rv. 282095 – 02).
In particolare, la motivazione soddisfa l’indirizzo giurisprudenziale, affermatosi specificamente in relazione al luogo di commissione del reato, secondo cui l’aggravante della minorata difesa è configurabile quando, secondo una
valutazione in concreto, ricorrono situazioni oggettive idonee ad abbattere o affievolire le capacità reattive della vittima in relazione al tipo di reato cui si corre l’evento circostanziale (Sez. 2, n. 3560 del 14/10/2020, dep. 2021, Rv. 280521 01; Sez. 2, n. 43128 del 7/10/2014, Rv. 260530 – 01).
6. Quanto al sesto motivo, con il quale si denuncia il vizio della sentenza impugnata nella parte in cui non riconosce la sussistenza dello stato di necessità, deve osservarsi innanzitutto che si tratta di motivo meramente ripetitivo, in ordine al quale i giudici di appello hanno adeguatamente risposto, stigmatizzando il mancato adempimento da parte dell’imputato dell’onere di allegazione che riguarda tutte le cause di esenzione da responsabilità e ritenendo ininfluenti le risultanze di una nota di p.g. del 3/6/2021 relativa a vicende successive al fatto.
Prima ancora il giudice di primo grado aveva rilevato l’insussistenza di elementi per ritenere che NOME fosse stato costretto a partecipare all’azione delittuosa e aveva rimarcato la illogicità della ipotesi secondo cui, per commettere un delitto maturato in contesti di criminalità organizzata, l’individuazione degli autori fosse avvenuta facendo ricorso alla costrizione coatta. La sentenza aveva anche evidenziato che, se pure fosse stato possibile trarre dalla nota di p.g. segnalata dalla difesa una intimidazione in danno di NOME nulla consentiva di escludere che provenisse da chi ne conosceva il già avvenuto coinvolgimento nell’agguato, e dunque che fosse la conseguenza dell’agguato stesso anziché una coazione a fare.
Ebbene, a fronte di tali motivazioni, il ricorso si limita a riproporre pedissequamente le medesime questioni già risolte senza illogicità e affaccia ipotesi fondate esclusivamente su una rilettura alternativa del significato da attribuire a determinati fatti.
Peraltro, non si può fare a meno di osservare, come già sottolineato dai giudici di appello, che questo motivo di ricorso si appalesa del tutto inconciliabile con la versione difensiva dell’imputato – secondo cui l’investimento sarebbe stato di natura colposa – sulla quale sono stati articolati i precedenti motivi: è lo stesso ricorrente, dunque, che prospetta contraddittoriamente ipotesi ricostruttive insanabilmente confliggenti tra loro.
Il motivo, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza.
7. Anche il settimo motivo è inammissibile.
Si tratta di un motivo generico, che in modo apodittico contesta la sussistenza della continuazione tra i reati contestati e afferma che gli eventi si sono succeduti in modo del tutto casuale, senza un preordinato progetto criminoso.
Ma il ricorso non fornisce argomenti specifici da cui sia dato comprendersi i che cosa consista la critica alla sentenza, al di là della affermazione somm secondo cui “è rimasto del tutto indimostrato il paventato progetto criminoso peraltro a fronte di un impianto motivazionale delle sentenze di merito che inve richiama diffusamente le corpose risultanze investigative dalle quali trae in mo fondato la prova del collegamento dei reati contestati.
Si aggiunga che, in difetto di specificità del motivo, si stenta anche a cogl l’interesse del ricorrente a contestare l’applicazione di un istituto a lui fav in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio.
8. L’ottavo motivo di ricorso è infondato.
La motivazione sull’attribuibilità a NOME e al coimputato del successi incendio dell’autovettura utilizzata per l’agguato non è affetta da alcuno dei v cui alla lett. e) dell’art. 606 cod. proc. pen., sia perché dà conto precisament risultanze delle videoregistrazioni da cui risulta l’arrivo sul luogo dell’in dell’auto da loro occupata appena prima dell’incendio, sia perché utilizza in mo congruo l’argomento logico secondo cui è ragionevole che i committenti del fatt siano coloro che avevano l’esclusivo interesse a distruggere immediatamente i mezzo utilizzato per compiere l’investimento.
Di ‘contro, il ricorso si limita a disapprovare che, rimasto ignoto l’a materiale dell’incendio, i giudici di merito abbiano ritenuto “per esclusione” c committenti del fatto fossero coloro che erano giunti poco prima sul luogo a bor del furgone.
La censura, però, trascura di considerare che la decisione può conseguir anche ad una prova logica, dalla quale il giudice costruisce l’inferenza dal noto a quello ignoto secondo i principi della logica formale o secondo massim d’esperienza acquisite nella valutazione delle azioni dell’uomo.
In questa sede, il sindacato sulla correttezza del procedimento decisor basatosi su prove critiche deve consistere nel controllo logico della struttura motivazione.
E, in tale prospettiva, deve ritenersi che nel caso di specie siano coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risu probatori: l’incendio del furgone lasciato sul greto del fiume da Geria e Molinett è sviluppato appena dopo che era sopraggiunto sul posto un soggetto ignoto all guida di un ciclomotore recante la copertura della targa identificativa, sicché, luce dell’investimento doloso verificatosi poco prima, il collegamento tra il sogg ignoto che aveva appiccato il fuoco e i due autori dell’agguato era effettivame assistito da lin elevato grado di probabilità.
Si intende dire che le interazioni riscontrabili tra i plurimi dati raccolti in successione cronologica (uso del furgone nella commissione dell’agguato, conduzione del furgone senza soluzione di continuità dopo l’agguato sul greto d un torrente, successivo arrivo sul luogo di un ciclomotore con targa coper incendio del furgone dopo pochissimi minuti) consentono, ad un loro esame globale, di collegare univocamente il soggetto ignoto all’incendio del furgone e ultima analisi, agli autori dell’agguato commesso con l’uso del furgone, avevano urgente necessità di renderne impossibile o disagevole il rinvenimento.
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla carenza di motivazione sulla ricorren del pericolo di incendio richiesto dall’art. 424 cod. pen., va osservato c sentenza d’appello non affronta questo aspetto in quanto non risulta che aves costituito motivo di impugnazione (dall’elencazione dei motivi d’appello contenu nella sentenza, si rileva che fosse stata solo contestata la sussistenza di el di collegamento tra l’incendio del furgone e l’agguato, ma non anche qualificazione giuridica del fatto contestato al capo C; del resto, nelle conclu di primo grado riportate nella sentenza del g.u.p. risulta che il dife dell’imputato avesse più semplicemente sollecitato l’assoluzione dal reato di all’art. 424 cod. pen. per non aver commesso il fatto).
In ogni caso, la motivazione della sentenza d’appello, sul pericolo di incend può ben essere integrata da quella di primo grado, nella quale si osserva che immagini agli atti danno atto di come il veicolo sia stato del tutto danneggiato fuoco (nessuna parte è rimasta indenne), sicché è ragionevole ritenere che si sviluppato un imponente incendio di particolare portata e potenzialità espansiva
Peraltro, risulta dalla sentenza che il luogo nel quale il furgone fu dato fiamme era interessato dalla presenza di sterpaglie, mentre costituisce circosta notoria quella secondo cui un autoveicolo che aveva regolarmente marciato fino a pochi minuti prima di prendere fuoco contenga nel serbatoio carburante altamente infiammabile.
Di conseguenza, si può affermare che la motivazione dei giudici di merito abbia operato una corretta valutazione dei dati oggettivi rinvenibili nella vic di specie per ricavarne un giudizio di sussistenza degli elementi che integran pericolo di incendio.
In questo senso, del resto, va ricordato che l’accertamento del pericolo incendio comporta un giudizio squisitamente di fatto, che sfugge al sindacato legittimità quando è basato sulla valutazione logicamente corretta degli a compiuti e delle circostanze particolari, dalle quali, nel caso concreto, dedursi la possibilità dello sviluppo di un incendio (Sez. 1, n. 5251 del 14/1/1 Rv. 210486 – 01; cfr. anche, più recentemente, Sez. 5, n. 37196 del 28/3/2017 Rv. 270914 – 01).
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Anche il nono motivo di ricorso, da ultimo, è infondato.
La censura attinente alla mancata considerazione degli indici di cui all’art. 133 cod. pen. nella commisurazione della pena è ingiustificata, giacché la motivazione sul trattamento sanzionatorio – da mutuare dalla sentenza di primo grado, che la Corte d’Appello ha integralmente confermato sul punto – dà correttamente conto del fatto che la quantificazione della pena sia avvenuta sulla base dell’apprezzamento dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen. (danni cagionati alla persona offesa, intensità del dolo, modalità e gravità della azione, condotta successiva al reato).
Quanto, poi, alla doglianza attinente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, è vero che le sentenze di merito non motivano circa il diniego delle circostanze previste dall’art. 62-bis cod. pen.
E’ vero pure, tuttavia, che la motivazione del diniego – può ritenersi implicita in quel passaggio della pronuncia di primo grado ove sono individuati gli elementi, relativi alla gravità del fatto, che hanno giustificato l’irrogazione di una pena non coincidente con il minimo edittale.
Sotto questo profilo, è costante orientamento della giurisprudenza di legittimità quello secondo cui la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi (Sez. 1, n. 12624 del 12/2/2019, Rv. 275057 01).
La concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, e può ben essere motivato implicitamente attraverso l’esame esplicito di tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 36382 del 4/7/2003, Rv. 227142 – 01); essa è demandata dalla legge al criterio discrezionale del giudice del merito che ha la funzione di adeguare la determinazione della pena all’entità dell’episodio criminoso, sicché, quando detto giudice ha motivato in ordine alla concreta irrogazione della pena con riferimento esplicito ai criteri di valutazione di cui all’art. 133 cod. pen., il relativo giudizio (anche di implicito rigetto della richiesta di concessione delle attenuanti in parola) non è censurabile in sede di legittimità (Sez. 4, Sentenza n. 21 del 30/11/1988, dep. 1989, Rv. 180073 – 01).
Per quanto fin qui osservato, dunque, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al punto concernente l’applicazione a Geria della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., con rinvio ad altra
•
sezione della Corte d’Appello di Reggio Calabria per un nuovo giudizio, alla luce dei principi sopra richiamati nel paragrafo 3.
Nel resto, il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso 1’11.9.2024