Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 33609 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 33609 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato in Ucraina il DATA_NASCITA
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 2.12.2022
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto che il ricorso fosse dichiarato inammissibile;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’Appello di Catanzaro in data 2.12.2022 ha confermato la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Crotone in data 10.12.2021 nei confronti di COGNOME NOME, rideterminando la pena finale, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, in sei anni di reclusione e 916.668 euro di multa, per il reato di organizzazione e trasporto illegale nel territorio dello Stato di cinquantacinque cittadini extracomunitari a
· GLYPH bordo di un motoveliero, con le aggravanti di aver procurato l’ingresso illegale di più di cinque persone, di averle esposte a situazione di pericolo per l’incolumità, di averle sottoposte a trattamento inumano e degradante, di aver commesso il fatto al fine di trarne profitto.
Avverso la predetta sentenza, il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, articolando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, denuncia, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen.
Lamenta, in particolare, che la condanna si fondi sulle dichiarazioni dei coimputati in procedimento connesso, che la Corte d’Appello di Catanzaro ha erroneamente ritenuto <corroborate dalla diretta percezione degli eventi avuta dalla Pg in sede dì'intervento».
Non si contesta che l'imputato sia stato visto alla guida dell'imbarcazione, ma piuttosto che i giudici di secondo grado non abbiano valutato la ricostruzione alternativa fornita dall'imputato (il quale aveva detto nelle dichiarazioni spontanee di essere stato costretto a mettersi alla guida per salvaguardare la propria incolumità) sul difetto dell'elemento soggettivo, in ordine al quale non sussistevano indizi gravi, precisi e concordanti, e non abbiano quindi fornito una risposta alle argomentazioni difensive.
Prova ne sarebbe che la Corte d'Appello non motiva sulla circostanza aggravante dello scopo di profitto e sorvola sul fatto che indosso all'imputato siano stati rinvenuti solo 30 dollari e monete ucraine per un valore di 20 euro circa. Tanto è vero che in modo contraddittorio esclude la qualità di "organizzatore" di COGNOME, ma ritiene l'aggravante del profitto, benché si tratti di circostanza avente natura soggettiva e come tale non applicabile al concorrente che non abbia agito a fine di profitto.
2.2 Con il secondo motivo, si denuncia, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'erronea applicazione agli artt. 64, 133 cod. pen, 12, comma 3bis, D.Lvo 286/98, e le illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata.
Il ricorso censura che la Corte d'Appello di Catanzaro abbia erroneamente applicato un aumento di pena della metà – anziché di un terzo – per l'aggravante di cui all'art. 12, comma 3-bis, D.Lvo 286/98, la quale invece è un'aggravante ad effetto comune (la norma recita che "la pena è aumentata" senza l'indicazione della misura).
In ogni caso, sarebbe violato il disposto dell'art. 63, comma 4, cod. pen., secondo cui, quando concorrono più circostanze ad effetto speciale, si applica solo la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla.
E comunque – si aggiunge – i giudici di secondo grado non motivano il trattamento sanzionatorio in questione, nonostante applichino l'aumento massimo previsto dalla legge, discostandosi ampiamente dal minimo edittale e pur applicando una pena prossima al minimo per il reato più grave e il minimo per l'aggravante di cui al comma 3-ter D.Lgs. n. 286 del 1998 e pur concedendo le circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione.
2.3 Con il terzo motivo, il ricorso denuncia la violazione del divieto di reformatio in pejus per effetto di un errore materiale nel calcolo della pena, in quanto la Corte d'Appello, pur avendo dato atto di aumentare di un terzo la pena base di sei anni per la circostanza aggravante di cui all'art. 12 comma 3-ter D.Lgs. n. 286 del 1998, ha calcolato la pena conseguente in nove anni anziché otto anni di reclusione.
Con requisitoria scritta del 22.4.2024, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso, perché l'aumento per l'art. 12 comma 3-ter D.Lgs. n. 286 del 1998 è fino alla metà e la Corte d'Appello ha solo errato ad indicare l'aumento di un terzo, salvo poi procedere ad applicare la metà, secondo la previsione della legge; quanto, poi, al fine di profitto, le censure esorbitano dal perimetro entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità
CONSIDERATO IN DIRITTO
Deve premettersi che nel ricorso il difensore ha fatto presente che la posizione dell'originario coimputato di COGNOME, NOME COGNOME, è stata già valutata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione (ricorso n. 41873/23 RG ud. 21.2.24), la quale ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello dio Catanzaro per nuovo giudizio sulla circostanza aggravante del fine di profitto e sulla misura della pena.
In effetti, la Corte ha già deciso sul ricorso proposto nell'interesse di NOME COGNOME avverso la medesima condanna, disponendo, con sentenza resa all'udienza del 2.2.2024, depositata il 9.4.2024, l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente all'aggravante del fine di profitto e alla misura della pena con rinvio per nuovo giudizio su detti punti ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro, e rigettando nel resto il ricorso.
La ragione dei due giudizi distinti sta nel fatto che COGNOME è stato rimesso in termini per l'impugnazione, a causa della mancata traduzione della sentenza della Corte d'Appello di Catanzaro.
Ciò premesso, il ricorso proposto nell'interesse di COGNOME è parzialmente fondato, nei limiti che saranno di seguito indicati.
Innanzitutto, è da ritenersi infondato il primo motivo di ricorso nella parte in cui denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 12, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998.
In proposito, va premesso che, sul punto specificamente oggetto di ricorso, si è in presenza di una c.d. "doppia conforme", la quale ricorre quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultirna sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12.6.2019, NOME, Rv. 277218 01; sez. 3, n. 44418 del 16.7.2013, COGNOME, Rv. 257595 – 01).
In questa prospettiva, la motivazione delle due sentenze sulla ricostruzione del fatto e sull'affermazione della responsabilità penale di COGNOME è del tutto congrua, con l'attribuzione di un plausibile significato organico alle singole prove acquisite.
Le pronunce in questione richiamano, per un verso, le risultanze della diretta osservazione da parte della polizia giudiziaria delle manovre di avvicinamento alla costa dell'imbarcazione che trasportava i migranti stranieri e, per l'altro, l dichiarazioni di due dei soggetti trasportati che riconoscevano in COGNOME e nel suo coimputato COGNOME i due scafisti.
E' vero che i giudici di merito non fanno riferimento alle spontanee dichiarazioni dell'imputato, il quale, per quanto riportato nello stesso ricorso, si era avvalso della facoltà di non rispondere nell'udienza di convalida del suo arresto in flagranza. Ma si tratta di dichiarazioni che – volte ad accreditare un ricostruzione del fatto secondo cui il ricorrente era stato costretto a assumere la guida dell'imbarcazione al solo fine di salvaguardare la propria incolumità – non sono affatto idonee a confutare il quadro probatorio a carico degli imputati, sol che si consideri che NOME e NOME erano sulla barca gli unici due soggetti di nazionalità diversa da quella degli altri cinquantacinque trasportati e gli unici ad essere equipaggiati adeguatamente, sicché è evidente che la loro posizione non potesse essere accomunata a quella dei migranti di origine asiatica.
Si deve ritenere, dunque, che, su questo specifico punto, il ricorso solleciti sostanzialmente una rilettura degli elementi di fatto e una valutazione alternativa delle fonti di prova, che invece sono state vagliate adeguatamente con motivazione congrua e nient'affatto illogica o contraddittoria, sorretta dall'adozione di corretti parametri di giudizio.
Lo stesso primo motivo di ricorso, invece, è fondato, nella parte relativa alle doglianze inerenti la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 12 comma 3-ter D.Lgs. n. 286 del 1998.
Su questo punto, la motivazione delle due sentenze di merito è alquanto carente: quella di primo grado si limita a concludere che, sulla base della attendibile ricostruzione del fatto cui ha proceduto, la responsabilità degli imputati deve essere affermata per il delitto di cui all'art. 12 D.Lg. 286 del 1998 così come contestato nella forma aggravata, «risultando provata la sussistenza di tutte le circostanze aggravanti di cui all'imputazione», fra cui quella di aver commesso il fatto al fine di trarne profitto; mentre quella di secondo grado afferma la sussistenza dell'aggravante del profitto, anche indiretto, alla luce del fatto che sia emerso dalle dichiarazioni dei migranti che costoro avessero pagato una somma di denaro per il viaggio.
Tuttavia, la stessa sentenza della Corte d'Appello di Catanzaro aggiunge che COGNOME e COGNOME non potessero considerarsi organizzatori del viaggio, bensì meri trasportatori. Se poi si considera che i due, perquisiti nell'immediatezza del fatto, furono trovati in possesso di una modesta somma di denaro che non poteva certo stimarsi come il compenso per l'opera da loro prestata, e che dei migranti sentiti, una non ha riferito alcunché circa il pagamento del viaggio e l'altro ha dichiarato di avere consegnato il denaro ad amici in Afghanistan con l'accordo che la somma sarebbe stata sbloccata solo al suo arrivo in Italia, si deve ritenere, allora, che la, pur plausibile in via logica, ipotesi secondo cui COGNOME e COGNOME ricavassero un tornaconto dalla partecipazione alla esecuzione del viaggio avrebbe necessitato della individuazione di più precisi elementi sintomatici della loro partecipazione, al tempo stesso, anche al profitto di natura economico-patrimoniale altrui (quello degli organizzatori).
In difetto di una prova direttamente rappresentativa del fatto storico, invece, i giudici di merito non indicano specifici dati oggettivi attraverso i qual hanno costruito l'inferenza che li ha condotti a ritenere provata la sussistenza dell'aggravante in questione in capo a COGNOME.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata per una nuova valutazione su questo specifico punto segnalato nella seconda parte del primo motivo di ricorso.
Quanto al secondo motivo di ricorso, esso è innanzitutto infondato nella parte in cui lamenta che la Corte d'Appello di Catanzaro abbia operato l'aumento della metà per la circostanza aggravante comune di cui all'art. 12, comma 3-bis, D.Lgs. n. 286 del 1998: invero, per effetto dell'incremento calcolato sulla pena di
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nove anni di reclusione, come risultante dall’applicazione dell’aumento della pena base per la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 12 comma 3ter D.Lgs. n. 286 del 1998, la pena è stata ulteriormente aumentata di tre anni, che equivalgono esattamente ad un terzo (e non alla metà) della pena di nove anni.
E’ vero, invece, che, come censurato nello stesso secondo motivo di ricorso, la Corte d’Appello di Catanzaro, dando atto di aumentare la pena base di un terzo per la circostanza aggravante ad effetto speciale dell’art. 12, comma 3-ter, D.Lgs. n. 286 del 1998 (fine di profitto), poi di fatto calcola un aumento della metà (da sei a nove anni di reclusione, anziché da sei a otto anni di reclusione): il conseguente trattamento sanzionatorio, per vero, non sarebbe in sé illegale, perché l’aumento di pena previsto per tale circostanza aggravante è “da un terzo alla metà”.
Tuttavia, ove anche si ritenesse che questo non integri un vizio, resta il fatto che la sentenza non indica i motivi per cui applica l’aumento massimo di pena (appunto, la metà) per l’aggravante di cui all’art. 12, comma 3-ter, D.Lgs. n. 286 del 1998, benché abbia appena prima riconosciuto (in riforma della sentenza di primo grado) le circostanze attenuanti generiche ad entrambi gli imputati in considerazione del più limitato ruolo da essi svolto nella vicenda delittuosa e abbia, per la stessa ragione, calcolato la pena per il reato base di cui all’art. 12, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998 a partire dal minimo edittale.
La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito.
Ma, in proposito, è stato affermato che, quando la pena applicata in aumento per una circostanza aggravante sia superiore alla misura media di quella edittale, è necessaria una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata (Sez. 2, n. 36104 del 27/4/2017, COGNOME, Rv. 271243 01; Sez. 2, n. 36245 del 25/6/2009, COGNOME, Rv. 245596 – 01).
Nel caso di specie, come si è visto, l’aumento è stato addirittura pari al massimo edittale, senza tuttavia che i giudici abbiano indicato le ragioni della misura dell’aumento con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena.
La decisione, pertanto, deve essere annullata limitatamente a questo profilo della misura dell’aumento della pena per la circostanza aggravante di cui all’art. 12, comma 3-ter, D.Lgs. n. 286 del 1998, in quanto non risulta dal testo della sentenza quale valutazione i giudici di secondo grado abbiano operato degli elementi oggettivi e soggettivi del reato.
Quanto al terzo motivo di ricorso, si tratta di doglianza – quella secondo cui la Corte d’Appello di Catanzaro sarebbe incorsa in un errore di computo della pena in occasione dell’aumento per la circostanza aggravante di cui all’art. 12 comma 3-ter D.Lgs. n. 286 del 1998 – che può ritenersi superata dall’accoglimento del secondo motivo di ricorso nella parte relativa alla misura dell’aumento di pena per la medesima circostanza aggravante, qui dovendosi solo escludere che l’eventuale aumento della metà determini una modifica in pejus della sentenza di primo grado, la quale, al netto dell’avvenuto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della correlativa diminuzione di pena calcolata in appello, aveva applicato per le circostanze aggravanti ritenute sussistenti il medesimo aumento stabilito dai giudici di secondo grado.
Alla luce di quanto sin qui considerato, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 12, comma 3-ter, D-Lgs. n. 286 del 1998 e alla quantificazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro per un nuovo giudizio nel rispetto dei principi sopra richiamati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente ai punti concernenti l’aggravante del fine di profitto e la misura della pena con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Catanzaro. Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso il 14.5.2024