Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22100 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22100 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a MUGNANO DI NAPOLI il 04/07/1987 COGNOME nato a MUGNANO DI NAPOLI il 05/03/1990 DEL CORE NOME nato a MUGNANO DI NAPOLI il 01/04/1988 DEL CORE COGNOME nato a MUGNANO DI NAPOLI il 14/10/1960 COGNOME nato a MUGNANO DI NAPOLI il 01/11/1960 COGNOME NOME nato a NAPOLI il 14/06/1982
COGNOME NOME nato a MARANO DI NAPOLI il 21/09/1960
avverso la sentenza del 06/12/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME
che ha concluso chiedendo
Il P.G. conclude chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per l’imputato COGNOME limitatamente GLYPH e rigetto nel resto. Chiede il
NOME
rigetto dei ricorsi per gli tutti gli altri ricorrenti.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME del foro di NAPOLI in difesa di COGNOME conclude insistendo nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME del foro di ROMA in difesa di COGNOME e NOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME del foro di NAPOLI NORD in difesa di NOME COGNOME conclude riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento.
L’avvocato COGNOME del foro di NAPOLI in difesa di DEL COGNOME NOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME del foro di NAPOLI in difesa di DEL CORE NOME e DEL CORE COGNOME conclude insistendo nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avvocato COGNOME del foro di ROMA in difesa di COGNOME e COGNOME conclude riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Napoli Nord, con pronuncia in data 26 luglio 2022, dichiarava NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME colpevoli del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., per aver preso Ode ad un’associazione di tipo mafiosa denominata clan COGNOME, promossa, diretta e organizzata da NOME COGNOME, unitamente, tra gli altri, ad NOME COGNOME e NOME COGNOME per il quale ultimo si è proceduto separatamente, operante nei comuni di Marano di Napoli, Villaricca, Qualiano, Quarto, Pozzuoli e nelle zone limitrofe (capo a) e, in particolare, NOME COGNOME e NOME COGNOME quali affiliati con il ruolo di gestire, a far tempo da primo gennaio 2009, gli immobili e le attività imprenditoriali facenti capo al capoclan NOME COGNOME, NOME COGNOME con ruolo esecutivo con riguardo all’assistenza alle famiglie degli affiliati e dei detenuti in carcere, e li condannava rispettivament alla pena di anni 18 di reclusione COGNOME e di anni 16 di reclusione NOME COGNOME e NOME COGNOME Dichiarava, inoltre, NOME COGNOME e NOME COGNOME, colpevoli del delitto di ricettazione aggravata dall’agevolazione mafiosa in concorso, così riqualificato il delitto associativo loro contestato (capo b), NOME COGNOME colpevole di ricettazione aggravata dall’agevolazione mafiosa (capo c) e, infine, NOME COGNOME colpevole del delitto di associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, aggravato dall’agevolazione mafiosa (capo e), e condannava rispettivamente NOME COGNOME e NOME COGNOME alla pena di anni 9 di reclusione ed euro 9.000 di multa, NOME COGNOME alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 6.000 di multa, NOME alla pena di anni 15 di reclusione.
La Corte di appello di Napoli, con la sentenza in esame, in riforma della suddetta pronuncia, ha ridotto la pena inflitta a NOME COGNOME e NOME COGNOME nella misura di anni 5, mesi 4 di reclusione ed euro 1.200 di multa, e quella inflitta a NOME COGNOME nella misura di anni 2, mesi 8 di reclusione ed euro 800 di multa. Ha, poi, rideterminato la pena inflitta a NOME COGNOME e NOME COGNOME nella misura di anni 10 di reclusione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti. Ha, inoltre, ridotto la pena inflitta a NOME COGNOME nella misura di anni 16 di reclusione, e, infine, rideterminato la pena inflitta a NOME COGNOME nella misura di anni 10 di reclusione.
Avverso la sentenza di appello ricorre per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME.
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2.1. Con il primo motivo di impugnazione deduce violazione dell’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 e vizio di motivazione.
Si duole la difesa che la Corte di appello di Napoli, dopo avere escluso la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., sconfessando l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado che riteneva la sussistenza dell’associazione ex art. 74 del suddetto decreto, contestata al capo e), unicamente in virtù del rapporto osmotico che la legava all’associazione mafiosa denominata clan COGNOME e dalla quale mutuava gli elementi costitutivi, non abbia, poi, individuato gli elementi costitutivi della suddetta associazione.
Rileva che, mentre il primo Giudice configurava l’associazione per cui si procede in questa sede come la prosecuzione, in relazione agli anni 2014-2016, di quella operante all’interno del gruppo Polverino – e, quindi, finalizzata ad agevolarlo – in Marano e zone limitrofe fino al 2011, per la quale risultano condannati NOME COGNOME in sede di rito ordinario, e NOME COGNOME padre dell’imputato, all’esito di giudizio abbreviato, la Corte di appello l’ha ritenuta ben distinta e “nuova” rispetto sia al clan COGNOMEche a detta associazione aggravata dall’agevolazione mafiosa.
Lamenta, però, che nella motivazione della sentenza di appello non viene spiegato sulla base di quali presupposti il traffico di stupefacenti fosse riconducibile ad un’attività effettuata in maniera “associata ed organizzata”, se non con riferimento alla possibilità, emersa dalle intercettazioni, di accesso a quantitativi tutt’altro c trascurabili di sostanza stupefacente e di un costante approvvigionamento della stessa.
Osserva che i Giudici di appello avrebbero dovuto individuare la sussistenza degli ulteriori elementi richiesti dalla fattispecie incriminatrice, quali la presenza di u struttura organizzativa, la stabilità del vincolo associativo e la consapevolezza di farne parte (affectio societatis).
Rileva che, anzi, la Corte di appello sembra propendere per l’esclusione dell’associazione dedita al narcotraffìco laddove evidenzia che gli incarichi in tema di acquisti/cessioni di stupefacenti che COGNOME riceveva da NOME COGNOME e NOME COGNOME erano non esclusivi e valorizza la circostanza che in alcune occasioni il suddetto si era accordato per il traffico di stupefacenti con NOME COGNOME non indicato come intraneo alla presunta associazione, andando con ciò ad escludere la sussistenza della stabilità del vincolo e della tenuta dell’affectio societatis; ovvero laddove afferma che NOME COGNOME poteva operare grazie alle entrature di cui godeva il padre boss, e quindi a prescindere dalla presenza di un’associazione; ovvero laddove menziona forniture specifiche e subordinate all’esistenza di condizioni contingenti, come la possibilità che ciascuno degli imputati avesse volta per volta le capacità economiche
(messe a disposizione a titolo personale senza approvvigionarsi da presunte casse dell’associazione) per partecipare all’acquisto secondo il sistema delle c.d. “puntate” (quote di partecipazione).
Osserva il difensore che dalla motivazione della sentenza di appello emerge che COGNOME e altri soggetti erano una sorta di mercenari che, volta per volta, riuscivano ad accordarsi per questa o quella “puntata”, perseguendo scopi di lucro personali e non associativi, in assenza di cassa comune, organigramma con divisione di ruoli, mezzi comuni e rapporti contrattuali sinallagmatici tali da rendere l’apporto di ciascuno indispensabile per la sopravvivenza sul mercato degli altri.
2.2. Col secondo motivo di ricorso si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si duole la difesa del mancato riconoscimento di dette circostanze in base all’intensità del dolo e alla durata dell’illecito, ritenuta non trascurabile nonostante brevità del periodo in contestazione (dal 2014 al 2016).
Lamenta, inoltre, che la Corte di appello non considera il comportamento processuale ineccepibile dell’imputato, che, non dandosi alla latitanza, pur essendo libero al momento della condanna di primo grado a 15 anni di reclusione, è risultato presente a tutte le udienze del processo di secondo grado.
Il difensore, alla luce di tali motivi, insiste per l’annullamento della sentenz impugnata.
Propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME.
3.1. Con il primo motivo di impugnazione vengono dedotti violazione degli artt. 429, comma 1, lett. c) e 178 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in relazione all’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone giudizio per genericità e indeterminatezza dell’imputazione.
Si duole la difesa che la contestazione nel caso in esame risulti mancante di specificazione in relazione a tutti gli elementi costitutivi del reato di ricettazione e particolare in relazione:a) alla res oggetto della condotta, poiché le somme oggetto di ricezione non risultano quantificate, b) al soggetto attivo del reato, poiché non vengono individuati i soggetti che avrebbero elargito denaro a NOME COGNOME, c) al tempus commissi delicti, perché, a fronte di una data di accertamento del reato relativa all’agosto 2014, non si comprende quando sia iniziata la condotta delittuosa di COGNOME e quando la stessa si sia arrestata, nonostante la contestazione dell’art. 81 cod. pen.
Osserva il difensore che era assolutamente necessario ancorare la contestazione di ricettazione attraverso il riferimento ad una finestra temporale determinata, nonché a rapporti con soggetti del clan ben individuati, per garantire un compiuto esercizio del diritto di difesa.
Rileva, inoltre, che, se i fatti sono stati accertati nell’agosto del 2014, ciò signif che la prova del reato sottoposta al vaglio dei giudici si arresta alla data del suo accertamento e che, dunque, essendo la ricettazione un reato a consumazione istantanea, la condotta di COGNOME dovrebbe arrestarsi al più in una data prossima all’agosto del 2014, anche se nulla è dato sapere sull’inizio della stessa.
Sottolinea che la Corte di appello si limita a dichiarare inammissibile il motivo di doglianza contenuto nell’appello con cui veniva reiterata l’eccezione di nullità per indeterminatezza dell’imputazione, evidenziando che alcun aumento era stato disposto dal primo Giudice e confondendo in tal modo la dedotta questione di nullità con le questioni di merito. Senza considerare che proprio tale dato conforti la postulata violazione dell’art. 429, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., con conseguente nullità ab origine dell’imputazione per assoluta genericità e indeterminatezza della contestazione.
Insiste, quindi, per l’annullamento della sentenza impugnata, oltre che per violazione di legge, per vizio di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso di affrontare ed esaminare la specifica questione processuale ad essa proposta.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si denunciano violazione dell’art. 192 comma 3, cod. proc. pen. e vizio di motivazione, anche come travisamento della prova, in ordine alla responsabilità di NOME COGNOME per il reato di ricettazione.
Si duole la difesa che la Corte d’appello, ritenendo necessario il conforto di un riscontro esterno rispetto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia per provar la penale responsabilità del ricorrente, a differenza del Tribunale secondo cui le chiamate in correità non avevano bisogno di riscontri in senso tecnico riscontrandosi a vicenda (trascurando in tal modo che l’unico collaboratore che aveva reso dichiarazioni individualizzanti nei confronti di NOME COGNOME era stato COGNOME), abbia valorizzato l’intercettazione di una conversazione avvenuta in carcere il 2 agosto 2014 tra NOME COGNOME e i suoi familiari con argomentazioni meramente apparenti.
Lamenta il difensore l’omessa motivazione della sentenza in merito alle doglianze difensive contenute nell’appello, non avendo la medesima ! né dato conto delle frasi captate da cui si evincerebbe la provenienza delittuosa delle somme di denaro di cui discutono i conversanti, né esaminato le prove sia testimoniale (dichiarazioni di NOME COGNOME che ha specificato che la famiglia provvedeva al mantenimento del
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detenuto mediante la corresponsione mensile di 300 euro che, lavorando lo stesso in carcere e venendo retribuito in relazione a tale lavoro, non sempre erano materialmente corrisposti ma venivano messi da parte a sua disposizione) che documentale (relativa alla retribuzione ricevuta da NOME COGNOME per il lavoro in carcere) a discarico introdotte.
Denuncia, quindi, la difesa travisamento degli elementi necessari ai fini di una completa ricostruzione del fatto. Rileva che in analoga prospettiva non è stata considerata la testimonianza del luogotenente COGNOME principale teste di accusa, il quale, in merito all’ipotesi che il denaro oggetto della conversazione captata fosse di derivazione illecita, aveva riferito che tale intendimento era frutto di una mera opinione e non di un dato investigativo accertato.
Insiste per l’annullamento della sentenza impugnata, in ragione dell’esclusione della valenza probatoria del tenore dell’intercettazione sopra esaminata e dell’assenza di specificità individualizzante delle dichiarazioni dei collaboratori d giustizia, ad eccezione delle sole dichiarazioni di COGNOME
3.3. Con il terzo motivo di ricorso è denunciato vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Osserva la difesa che non solo la sentenza impugnata non si pone il problema della natura soggettiva dell’aggravante della finalità dell’agevolazione mafiosa, alla luce dell’interpretazione delle Sezioni Unite con la sentenza n. 8545 del 3 marzo 2020, e, quindi, della necessità del dolo specifico o intenzionale, quale convinzione e volontà di apportare un vantaggio alla compagine associativa, ma la ritenuta esistenza dell’aggravante si pone in evidente contrasto logico con la ritenuta insussistenza del reato associativo a carico del padre di NOME COGNOME NOMECOGNOME in quanto, una volta escluso dai Giudici di merito che la “mesata” venne erogata per comprare il silenzio di COGNOME, non si può affermare, da un lato, che la consegna del denaro avvenne in favore dei familiari di NOME solo a titolo di solidarietà e, dall’altro, che ritenuta ricettazione fu commessa, nella prospettiva di padre e figlio, allo scopo di agevolare il clan camorristico.
Rileva la difesa che è la stessa ricostruzione contenuta in sentenza, che esclude il rapporto sinallagmatico tra la “mesata” e il “silenzio”, a far ritenere che l’imputa agisse per interessi esclusivamente personali e familiari e, dunque, è la sentenza stessa ad escludere la finalizzazione della ricettazione ad agevolare il clan anche sotto il profilo soggettivo, così come richiesto dall’aggravante.
Aggiunge che lo stesso P.m. presso il Tribunale chiedeva l’esclusione di detta aggravante.
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3.4. Con il quarto motivo di impugnazione la difesa lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Si duole della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, che andavano, invece, riconosciute in considerazione dell’incensuratezza e dell’estraneità del ricorrente alle logiche e alle organizzazioni malavitose, nonostante il ruolo assunto dal padre all’interno del clan di appartenenza, a dimostrazione di una scelta di vita ben precisa.
Ricorre per cassazione con atto a firma dell’avv. NOME COGNOME NOME COGNOME.
4.1. Con il primo motivo di impugnazione vengono dedotti violazione di legge processuale e vizio di motivazione, anche come travisamento per omissione, circa l’identificazione dell’imputato nel soggetto indicato come NOME “il piccolino”.
Lamenta la difesa che la Corte territoriale, conformemente al primo Giudice, ha ritenuto che NOME “il piccolino”, menzionato nei colloqui captati e in particolare quell intercorsi tra il detenuto NOME COGNOME e la moglie NOME COGNOME come addetto alla distribuzione delle mesate elargite dal clan COGNOME alle famiglie dei detenuti affiliati sia NOME COGNOME e ciò solo per il suo inserimento nella compagine malavitosa. Senza considerare che detto inserimento è questione diversa dall’identificazione e che nei colloqui tra i coniugi COGNOME NOME “il piccolino” indicato come nipote dei COGNOME e tale vincolo risulta dalle stesse intercettazioni noto anche fuori dal contesto familiare.
Si duole la difesa che i Giudici di merito non abbiano motivato in ordine al fatto che NOME citato nei colloqui risultava, sempre da detti colloqui, avere una fidanzata di nome NOME, mentre quella di NOME COGNOME si chiamava NOME COGNOME come, invero, emergente dalle intercettazioni disposte sull’utenza in uso dell’imputato.
Inoltre, secondo la difesa la Corte territoriale incorre in un evidente travisamento della prova laddove si sofferma sulla questione delle vacanze dell’imputato nell’estate 2015.
Si duole la difesa che l’ulteriore rilievo contenuto nell’appello, secondo cui NOME “il piccolino”, che risulta andato in vacanza ad agosto 2015 in base ai colloqui tra i COGNOME, che temevano che per la stessa avesse utilizzato la loro mesata, non sarebbe NOME COGNOME, andato, invece, in vacanza, come emergente dagli atti, a settembre 2015, sia stato superato con una congettura, ipotizzando che nei colloqui si parlasse di un’ulteriore partenza dell’imputato, antecedente a quella del settembre 2015.
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Rileva che dalle intercettazioni telefoniche disposte sull’utenza in uso a COGNOME emerge che nel periodo di riferimento (agosto-settembre 2015) si parlava solo del viaggio a Tenerife e che ad agosto 2015 l’imputato risultava trovarsi a Marano.
Lamenta la difesa che la Corte non considera che il teste di P.g. COGNOME non ha menzionato partenze di COGNOME diverse da quella per Tenerife (ulteriore travisamento per omissione).
Infine, si duole la difesa che la sentenza impugnata valorizzi il colloquio dell’I novembre 2014, nel quale NOME COGNOME parlando con i familiari chiedeva loro se fosse andato a trovarli NOME “o NOME” dopo il suo arresto, nel quale viene individuato il riferimento a NOME COGNOME che effettivamente risultava essere andato a trovare la madre di COGNOME, ma ometta di considerare (ulteriore travisamento per omissione) che in altro colloquio in carcere tra COGNOME e i propri familiari, di pochi giorni prima (31 ottobre 2014), il primo dimostra di non essere avvezzo ad usare alcun nomignolo per identificare l’amico, indicandolo, infatti, come il figlio di NOME, e che dallo stesso colloquio emerge che vari NOME gravitavano intorno alla famiglia di COGNOME. La Corte, pertanto, non spiegherebbe perché COGNOME avrebbe utilizzato il nomignolo “il piccolino” per fare riferimento proprio al ricorrente e non a uno degli altri NOME.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso viene rilevata violazione dell’art. 416-bis cod. pen. per avere la Corte territoriale ritenuto configurabile a carico dell’imputato il reato di partecipazione all’associazione mafiosa.
Rileva il difensore che detta Corte, dopo avere premesso di condividere la teoria del modello c.d. organizzatorio, ha ritenuto che NOME COGNOME fosse un affiliato del clan con un basso grado gerarchico in quanto investito del ruolo di recapitare gli stipendi alle famiglie dei detenuti affiliati; e che ciò emergerebbe dai dialoghi de coniugi COGNOME, dalla presenza dell’imputato al summit del 31 agosto 2015 tra gli esponenti del gruppo COGNOME e quelli del gruppo COGNOME e dai rapporti col cugino NOME COGNOME che faceva uso del suo cellulare per telefonare al proprio avvocato.
Osserva, però, che: – i collaboratori di giustizia escussi in dibattimento (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME), per molti anni affiliati al clan Nuvoletta-Polverino-Orlando, hanno addirittura dichiarato di non sapere chi fosse NOME COGNOME; – pure a ritenere che l’imputato sia il NOME di cui parlano i COGNOME, non vi sono prove che dimostrino l’interessamento di NOME “COGNOME” nell’ambito di questioni economiche inerenti affiliati ulteriori rispetto a COGNOME; – non si pu ritenere che tale NOME si fosse messo effettivamente a disposizione del sodalizio nel senso delle Sezioni Unite Modaffari; – la sua asserita presenza al summit tenutosi il 31 agosto 2015, contraddetta dalle stesse dichiarazioni dell’imputato che ha riferito
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di avere solo accompagnato il cugino NOME COGNOME e di essere rimasto nella zona boschiva adiacente, nonché dal fatto che non veniva udita nel corso della riunione la voce dell’imputato, non è dato rilevante in assenza di prove di un consapevole contributo stabile al clan di COGNOME.
4.3. Con il terzo motivo di impugnazione si eccepisce vizio di motivazione in relazione all’art. 603, commi 1 e 2, cod. proc. pen., laddove la Corte di appello ha ritenuto superfluo disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale chiesta dalla difesa nell’atto di appello.
Osserva il ricorrente che la Corte territoriale non ha considerato che la questione sull’identità di NOME “il piccolino” era di decisiva rilevanza e che, pertanto, og dubbio su detta identità, alla luce di quanto sopra riportato, poteva essere fugato tramite l’escussione di NOME COGNOME, coniuge di COGNOME, che avrebbe chiarito chi era NOME “il piccolino” da lei citato nei colloqui col marito, sui quali è fond principalmente la prova di colpevolezza dell’imputato.
Lamenta che il mancato accoglimento di tale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ha determinato un vizio di motivazione.
4.4. Col quarto motivo di ricorso vengono denunciati violazione degli artt. 62bis, 69, 132 e 133 cod. pen. e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto le circostanze attenuanti generiche solo equivalenti alle contestate aggravanti.
La Corte di appello, che al riguardo argomenta in modo apparente, facendo leva sul fatto che l’imputato aveva agito con piena consapevolezza della propria condotta e sulla non rilevanza della circostanza che non avesse parlato durante il summit del 31 agosto 2015 considerato il ruolo esecutivo svolto, omette di considerare, secondo la difesa, che dette circostanze andavano riconosciute con giudizio di prevalenza, sia per il ruolo secondario del suddetto all’interno del sodalizio, sia per il su comportamento in parte pregiudizievole nei confronti del clan (sottrazione della mesata emergente dai colloqui dei COGNOME), sia, infine, per la sua incensuratezza e per non avere il suddetto partecipato alla commissione di delitti scopo del sodalizio.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME.
5.1. Con il primo motivo di impugnazione viene dedotta erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 405, 521 e 522 cod. proc. pen. con conseguente nullità della sentenza per difetto di correlazione con l’imputazione.
Rileva la difesa la nullità della sentenza in relazione alla riqualificazione del fatt contestato al capo b) dell’imputazione da associazione mafiosa ex art. 416-bis cod.
pen. a ricettazione aggravata operata dal primo Giudice, il quale, trattandosi di fatti diversi, poteva pronunciarsi solo a seguito di una modifica dell’imputazione da parte del Pubblico ministero, non avvenuta nel caso di specie.
5.2 Con il secondo motivo di ricorso si denunciano vizio di motivazione ed inosservanza di legge in ordine alla configurabilità del reato di ricettazione per difetto dell’elemento materiale e di quello soggettivo.
Si rileva che, essendo il reato di ricettazione un reato istantaneo, non è configurabile un concorso morale a posteriori, per adesione psicologica alla ricettazione consumata da altri.
La difesa osserva che oggetto di contestazione originaria è la partecipazione del ricorrente alle consorterie criminali e che la prova di tale partecipazione risiederebbe nella percezione di uno stipendio proveniente dal clan da parte della sua famiglia.
Si duole che manchi la prova di come tale stipendio possa essere giunto ai familiari di COGNOME e della consapevolezza del medesimo della provenienza illecita del denaro, che non’ sarebbe ricavabile dal tenore dei colloqui in carcere intercettati.
Ritiene il difensore che il ricorrente, essendo in carcere ininterrottamente dal 2006, non possa aver commesso il reato di ricettazione.
Quanto, poi, all’elemento psicologico di detto reato e al principio della prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, osserva la difesa che è necessaria la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro, non essendo sufficiente la rappresentazione dell’eventualità della provenienza di tale res da delitto.
2.3 Con il terzo motivo di impugnazione la difesa deduce vizio di motivazione e inosservanza di legge in relazione ai criteri necessari a valutare la credibilità de collaboratori e l’attendibilità delle loro dichiarazioni, con riferimento alla generic del racconto e al fenomeno della circolarità della notizia riferita.
Ci si duole del fatto che la Corte faccia ricorso ad espedienti argomentativi per superare le generiche afférmazioni dei collaboratori di giustizia, i quali, pur riferendo della decisione di sostenere le famiglie di alcuni detenuti, non individuano la fonte della loro conoscenza e non offrono alcun dettaglio in ordine alle modalità di consegna dei soldi, ai soggetti che di volta in volta li erogavano, alla provenienza degli stessi a coloro che per conto di COGNOME li percepivano.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata violazione di legge in relazione all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. nei suoi presupposti oggettivo e soggettivo, e al fatto che la stessa non risultava originariamente contestata.
Lamenta la difesa che la Corte d’appello ha omesso di motivare in merito alla sussistenza del dolo specifico dell’agevolazione dell’associazione in capo al ricorrente, avendo la sentenza ritenuto sussistente l’aggravante in parola prendendo in
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considerazione unicamente lo scopo perseguito dall’associazione. Osserva, inoltre, che, per essere giuridicamente apprezzabile, la condotta agevolativa richiesta in termini di dolo deve avere una concreta capacità di apportare all’associazione criminale un vantaggio determinato ed immanente e non meramente ipotetico; ritiene, quindi, illogica la motivazione della Corte laddove sostiene che la capacità del clan di mantenere consenso sociale si esplichi anche attraverso il sostegno economico in grado di fornire a chi si mette a sua disposizione.
2.5. Con il quinto motivo di impugnazione la difesa lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in relazione agli artt. 648 e 133 cod. pen. per non aver determinato la pena nei minimi edittali.
Si duole la difesa che la Corte non abbia considerato che l’imputato si trova in carcere da più di vent’anni e che, pertanto, il suo dolo non può ritenersi “intenso”. Lamenta, inoltre, che sulla determinazione del minimo della pena avrebbe dovuto avere un’influenza positiva la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
2.6. Con il sesto motivo di impugnazione la difesa lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all’art. 81, comma 2, cod. pen., per non avere riconosciuto la continuazione con i reati precedentemente commessi.
Si duole la difesa che la motivazione data dalla Corte per negare la continuazione – secondo cui non vi è modo di affermare che l’imputato, entrando a far parte del clan COGNOME e partecipando alla realizzazione dei suoi scopi, potesse rappresentarsi e volere un evento non dipendente dalla sua volontà, quale la erogazione di contributi economici a distanza di tanto tempo – sia incomprensibile e astrusa, finendo per risolversi in una omessa valutazione delle doglianze difensive.
Propone ricorso per cassazione NOME COGNOME tramite il proprio difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME
6.1. Con il primo motivo di impugnazione viene dedotta violazione di legge in relazione agli artt. 405, 516, 517, 518, 521 e 522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione tra imputazione e sentenza.
La difesa, dopo avere individuato la giurisprudenza di legittimità in materia e osservato che, secondo l’originaria imputazione, NOME COGNOME partecipava alla consorteria di stampo camorristico, mantenendo il silenzio, verso il pagamento di un corrispettivo in denaro, sui mandanti dell’omicidio COGNOME, rileva che, rispetto a tal fatto, quello ritenuto in sentenza si pone in evidente incompatibilità strutturale.
A tale riguardo osserva che entrambi i Giudici di merito hanno escluso ogni contributo causale alla vita del clan da parte di NOME COGNOME e, con esso, la partecipazione al contestato sodalizio criminale e ritenuto, invece, esistente il diverso
fatto di avere il ricorrente ricevuto un compenso mensile dal clan a titolo di solidarietà.
Ritiene la difesa che, trattandosi di fatti diversi (postulando la partecipazione associativa un’adesione attiva e una condivisione delle finalità della consorteria criminale, mentre il fatto ritenuto in sentenza una posizione meramente passiva di COGNOME di ricezione di un contributo economico), vi sia quella incompatibilità strutturale censurata dalla giurisprudenza di legittimità, che avrebbe imposto o la modifica dell’imputazione ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen. o di procedere nelle forme ordinarie ex art. 518 cod. proc pen., a garanzia del pieno esercizio del diritto di difesa.
La derubricazione operata dal Tribunale di primo grado e confermata dalla Corte di appello, rappresenta, secondo il difensore, una palese violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., essendo mutato il fatto oggetto dell’imputazione con conseguente pregiudizio del diritto di difesa.
6.2 Con il secondo motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in relazione agli elementi costitutivi del delitto di ricettazione.
Rileva la difesa che nell’ottica della Procura presso il Tribunale soltanto il figl del ricorrente, NOME COGNOME riceveva il denaro di provenienza delittuosa e, quindi, commetteva il delitto di ricettazione, tanto da richiedere detto ufficio, all’es dell’istruttoria dibattimentale, l’assoluzione per NOME COGNOME per non esserne stato provato il contributo partecipativo.
Osserva che la sentenza, invece, confonde il ruolo rivestito dagli imputati e che NOME COGNOME è mero destinatario del denaro, non prendendo parte in alcun modo all’esecuzione del reato di ricettazione, eventualmente consumato in via esclusiva da NOMECOGNOME essendo il ricorrente detenuto dal 1992 senza soluzione di continuità e non potendo, quindi, ricevere res di provenienza delittuosa da parte della consorteria cui è risultato associato in passato. Difetta, secondo il difensore, in capo al ricorrente l’elemento materiale della ricettazione, non avendo lo stesso ricevuto materialmente alcuna somma di denaro dal clan, e l’elemento soggettivo, avendo questi ricevuto soltanto dai familiari del denaro, che nella sua prospettiva non era direttamente riconducibile alle attività del clan.
Lamenta la difesa che tali questioni, oggetto di specifica deduzione con l’atto di appello, non sono state esaminate dalla Corte di appello di Napoli.
6.3. Con il terzo motivo di impugnazione sono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Si duole il difensore che la motivazione fornita dalla Corte d’appello in merito alla sussistenza di tale aggravante, facente leva sul rafforzamento della capacità del clan di raccogliere e mantenere il consenso sociale anche attraverso il sostegno economico, risulti estremamente generica, non potendo essere il beneficio per il clan meramente ipotetico e astrattamente potenziale; e che, quanto al profilo soggettivo, ometta qualsiasi argomentazione in ordine alla sussistenza in capo a NOME e NOME Cappuccio del necessario elemento psicologico costituito dal dolo intenzionale, ossia della volontà di agire in favore del clan.
Osserva, inoltre, il difensore che l’aggravante non sussiste in capo al ricorrente per due ordini di ragioni: in primo luogo, per l’impossibilità di configurare a suo caric il delitto di ricettazione, eventualmente imputabile solo al figlio; in secondo luogo, per l’intervenuta derubricazione del reato associativo in ricettazione, che costituirebbe sostanziale assoluzione per il reato originariamente contestato. Aggiunge, quanto a quest’ultimo punto, che, non sussistendo con le nuove fazioni criminali alcun rapporto sinallagmatico, è impossibile ipotizzare che la condotta dell’imputato, sotto il profilo soggettivo, possa determinare un vantaggio concreto per il clan stesso, così come richiesto dall’aggravante.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME
7.1. Col primo motivo di impugnazione si denunciano violazione dell’art. 416-bis cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione associativa.
Osserva il difensore che la gestione degli immobili di proprietà di NOME COGNOME da parte di NOME COGNOME, coadiuvato dal ricorrente, non ha mai riguardato la compagine camorristica, non confluendo i proventi delle locazioni, che venivano corrisposti anche dai sodali, nella cassa del clan, ma essendo di esclusiva pertinenza di NOME COGNOME e di altri soggetti con ruolo apicale nel clan, ai quali il primo aveva assegnato una quota dei suoi investimenti, come riferito da tutti i collaboratori di giustizia escussi, univoci nell’affermare che NOME COGNOME e il genero non partecipavano alle dinamiche malavitose del clan, ancor meno a quelle della fazione degli Orlando come contraddittoriamente assunto dalla Corte di appello (in base al tenore di un’intercettazione tra NOME COGNOME e tale NOMECOGNOME che chiede se l’immobile è sempre di Orlando).
Con riguardo all’asserito compito di COGNOME e del genero COGNOME quali tramite per informazioni tra i tre latitanti, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME e i sodali liberi, si rileva che l’unico episodio in cui sarebbe stato accertato trasferimento di notizie risale all’ottobre 2015 e risulta in favore della coppia COGNOME –
COGNOME, non affiliati a gruppo camorristico ma semplici spacciatori di droga, mentre la successiva visita ai latitanti sarebbe avvenuta il 6 settembre 2016, a distanza di un anno, in un periodo contrassegnato dalla progressiva esautorazione del clan Fa la nga.
Infine, si osserva che solo NOME COGNOME al quale è stata tributata totale attendibilità, ha riferito che COGNOME sarebbe stato coadiuvato dal genero NOME COGNOME in una sorta di spedizione punitiva presso un bar di Poggio Vallesana, noto luogo di ritrovo dell’opposta fazione camorristica, ove avrebbe esploso vari colpi in aria, quale reazione alle percosse inferte da NOME COGNOME al figlio, riferendo, invece, sia il collaboratore NOME COGNOME che il teste di P.g. COGNOME del solo COGNOME.
Rileva, poi, il difensore che la forte animosità dimostrata da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME da una parte, e dei fratelli NOME e NOME COGNOME figli del latitante NOME COGNOME, dall’altra, dipendeva, diversamente da quanto assunto in sentenza che le ricollega alla sua qualità di affiliato, da ragioni squisitamente personali, come da un lato il litigio del figlio di COGNOME col figli COGNOME e dall’altro la mancanza di rispetto dei COGNOME nei confronti del suocero al banchetto per le nozze di NOME COGNOME
7.2. Con il secondo motivo di ricorso si deducono violazione degli artt. 59, 416bis, comma sesto, cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta aggravante.
Si rileva che l’aggravante del finanziamento con il prezzo, il prodotto o il profitto dei delitti associativi delle attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo, sussiste quando il fine del controllo è perseguito non dal singolo partecipe ma dal sodalizio mafioso; e che, pertanto, nel caso in esame, in cui la sussistenza di detta aggravante è stata desunta dai contenuti di precedenti sentenze irrevocabili nei confronti di soggetti a vario titolo collegati al clan COGNOME e dal fatto che COGNOME aveva il monopolio delle forniture di alimenti all’ingrosso alle pizzerie e ai ristoranti della zona di Marano, non viene fatto alcun pur fuggevole ragguaglio circa il tentativo di conseguimento della pretesa posizione monopolistica a favore dell’azienda del suocero del ricorrente e, quindi, non sono specificate le ragioni dell’applicazione di detta aggravante ad COGNOME. Si osserva, inoltre, con riguardo agli altri settori economici che sarebbero stati inquinati dalla prevaricante presenza camorristica dei COGNOME, che una volta esclusa l’ingerenza di COGNOME ed a maggior ragione di COGNOME negli affari del gruppo COGNOME, non si comprende in che modo quest’ultimo debba ritenersi consapevole o inconsapevole per sua colpa, ex art. 59, comma secondo, cod. pen., delle iniziative adottate dal clan in settori commerciali completamente estranei alla sua attività.
7.3. Col terzo motivo di impugnazione si rilevano violazione degli artt. 62-bis, 69, 132 e 133 cod. pen.
Viene lamentata l’insufficienza in punto di dosimetria della pena della motivazione, che, pur dando atto dell’incensuratezza del ricorrente e del ruolo defilato rispetto a quello del suocero, poi non determina nel minimo la durata della reclusione, previa declaratoria di prevalenza delle circostanze generiche.
Propone, infine, ricorso NOME COGNOME articolandolo in due atti, a firma rispettivamente dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME.
8.1. L’atto dell’avv. COGNOME si sviluppa in tre motivi di impugnazione.
8.1.1. Con il primo motivo si duole il suddetto difensore della violazione dell’art. 416-bis cod. pen. e del vizio di motivazione.
Premette che la Corte territoriale muove, nell’individuazione della condotta di partecipazione associativa, dagli insegnamenti datati della sentenza COGNOME, che è del 2017, non menzionando, invece, la sentenza delle Sezioni Unite Modaffari più recente del 2021, che fa leva, ai fini dell’individuazione della condotta partecipativa, sull’effettiva e non astratta e formale messa a disposizione del sodalizio mafioso.
Osserva che secondo la Corte territoriale COGNOME è uomo di fiducia di COGNOME e secondo il collaboratore di giustizia COGNOME poteva recarsi dallo stesso quando voleva e, se vi erano riunioni in corso, non era tenuto ad allontanarsi.
Rileva, quanto al primo profilo, che in non poche occasioni COGNOME è entrato in contrasto con COGNOME ed è stato sfiduciato dal medesimo che gli rinfacciava di fare gli affari a suo nome senza portargli i guadagni; e, quanto al secondo profilo, che la presenza passiva alle riunioni, senza condivisione di progetti illeciti, scopi ideologia e utilità dell’associazione, non può essere individuata come condotta partecipativa.
Aggiunge a tale ultimo riguardo che il collaboratore NOME COGNOME, figura egemonica del clan COGNOME in quanto alter ego di NOME COGNOME, è stato lapidario nell’affermare che COGNOME partecipava alle riunioni per affari suoi e in particolare per le difficoltà che incontrava nella gestione personale dei cartoni che causavano litigi tra il clan COGNOME e il clan COGNOME, e quindi non per temi che coinvolgevano l’associazione.
Rileva, sempre la difesa, che l’indisciplinatezza e la disubbidienza di COGNOME alle direttive di COGNOME, sia nell’ambito della gestione immobiliare in favore de capoclan e di alcuni suoi luogotenenti, che con riferimento all’azienda di forniture alimentari all’ingrosso e alla fornitura di cartoni, osteggiata dal clan in quanto i contrasto con le prerogative commerciali dal medesimo riconosciute al clan COGNOME,
lungi dal consentire di qualificare, come fa la Corte territoriale, il ricorrente com affiliato riottoso e di ritenere irrilevante il giudizio di COGNOME sulla sua non mafio deve fare considerare la sua condotta non associativa.
Lamenta il difensore che la sentenza impugnata ha omesso l’esame dei controesami dei collaboratori di giustizia, incorrendo in un travisamento della prova per omissione. In particolare, evidenzia che in sede di controesame: – COGNOME ha specificato che COGNOME non partecipava alle riunioni camorristiche, ma, se vi si trovava, dalle stesse non era cacciato; – COGNOME ha riferito di una gestione in proprio, in assenza di utili per il clan, dei cartoni da parte dell’imputato; – COGNOME h dichiarato che COGNOME non era affiliato al clan, confermandolo in dibattimento e ivi specificando che il deposito dei generi alimentari era di Polverino e il clan non ci guadagnava niente.
Il difensore, considerato che anche dalla gestione immobiliare svolta nell’interesse personale di Polverino non provenivano utili per il clan, insiste per l contiguità di COGNOME al clan, che è cosa diversa dall’appartenenza al clan, del cui capo e cognato il suddetto subiva il fascino. Secondo la difesa errata è, quindi, la lettura operata dalla Corte delle conversazioni del ricorrente con NOME COGNOME in cui COGNOME si racconta al medesimo, sapendo di non poter esser controllato o contraddetto dallo stesso in quanto avulso da rapporti con sodali, per cui può parlare a ruota libera, come in effetti fa quando sembra esprimere giudizi su dinamiche mafiose, sugli assetti del potere sul territorio e in particolare sulla pericolosa ascesa degli Orlando.
Rileva la difesa come anche l’episodio della gambizzazione di COGNOME sia una vicenda personale e non camorristica, diversamente da come ritenuto dalla Corte a qua, che in essa individua la riprova dell’appartenenza mafiosa del ricorrente. E ciò emerge dal controesame di COGNOME che, quale fonte qualificata, essendo stato COGNOME ego di COGNOME, insiste sul fatto che il litigio con gli Orlando di COGNOME fu una vicenda personale, peraltro ostacolata dal clan COGNOME.
Lamenta il difensore che la Corte territoriale ha omesso di rilevare la decisività dell’assoluzione di COGNOME dall’accusa di trasferimento dei valori in relazione alla società “RAGIONE_SOCIALE” e del dissequestro di detta società. Rileva che i Giudici di primo grado hanno erroneamente ritenuto che il provvedimento cautelare di dissequestro di detta società fosse dovuto alla mancanza delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che invece erano state già rese (da COGNOME e COGNOME Lanno).
Osserva il difensore che gestendo COGNOME, come affermato unanimemente dai collaboratori di giustizia, esclusivamente i beni del capo clan NOME COGNOME
favoriva quest’ultimo e se stesso, ma non il clan, per cui la sua condotta deve ritenersi non di partecipazione associativa ma di favoreggiamento reale o al massimo, alla luce di quanto affermato da COGNOME secondo cui COGNOME riciclava i soldi di NOME COGNOME, di riciclaggio; ovvero, considerato che l’imputato sfruttava la parentela con NOME COGNOME per affermarsi nel mercato in una posizione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, di concorso esterno in associazione mafiosa.
8.1.2. Il secondo motivo di impugnazione è sulla mancata esclusione dell’aggravante di cui al sesto comma dell’art. 416-bis cod. pen.
Si evidenzia che dall’istruttoria dibattimentale è emerso che l’attività economica di Marchesano riforniva solo una minima parte degli esercizi commerciali in Marano, per cui non sussistono i presupposti per ritenere l’aggravante in parola, considerati, altresì, i minimi proventi, oltre che della vendita di cartoni per pizza da asporto dell’attività commerciale di fornitura di generi alimentari, che nel territorio competenza del clan non superava il 15 °A) del fatturato complessivo, come dimostrato dalle consulenze tecniche di parte (COGNOME, COGNOME e COGNOME), con cui la sentenza impugnata non si confronta.
8.1.3. Con il terzo motivo di impugnazione viene rilevato vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e comunque al trattamento sanzionatorio.
Si duole il difensore che la Corte territoriale abbia ritenuto di non riconoscere le circostanze attenuanti generiche sulla base del ruolo di COGNOME quale fiduciario di COGNOME per un lungo arco temporale e non abbia, invece, considerato l’incensuratezza del suddetto, la finalizzazione della sua condotta al conseguimento di interessi personali, in gran parte in contrasto con quelli associativi.
8.2. Anche l’atto di impugnazione dell’avv. COGNOME si articola in tre motivi.
8.2.1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 416-bis cod. pen. e vizio di motivazione.
Si rileva che nessuno dei collaboratori di giustizia ha indicato in COGNOME ed COGNOME dei formali affiliati al clan COGNOME, e che NOME COGNOME ha escluso che il primo avesse a che fare con le dinamiche camorristiche.
Si aggiunge che la gestione immobiliare svolta da COGNOME nell’interesse del cognato non era partecipazione associativa, sottraendo al contrario gli investimenti in immobili di Polverino denaro da investire nell’acquisto di droga. Osserva, inoltre, la difesa che anche la gestione immobiliare nell’interesse dei luogotenenti del capo clan avveniva tramite quest’ultimo, che raccoglieva le somme versate dai partecipanti all’affare, ne fissava la quota (puntata) e provvedeva a restituire il netto profitto conclusione dell’operazione, senza che nessuno dei suddetti avesse contatti con il
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ricorrente, il quale si limitava a ricevere la provvista per l’acquisto dal cognat ignorandone la provenienza.
La difesa, inoltre, evidenzia che la consentita presenza di COGNOME alle riunioni dei vertici del gruppo, riferita dal solo COGNOME e relativa al periodo di latita di NOME COGNOME conclusasi nel 2012, risulta essere stata fraintesa dai Giudici di entrambi i gradi, in quanto era dovuta, come sottolineato da COGNOME, all’esigenza di costringere l’imprenditore a rinunziare alla fornitura di cartoni per pizze da asporto a favore degli Orlando, lungi, invece, dal proiettare il ricorrente in contesti camorristi a lui estranei.
Insiste sull’opposizione di COGNOME alle pressioni dei COGNOME e degli Orlando nella vendita dei cartoni per le pizze, sintomatica di non partecipazione associativa, e sul fatto che le pretese di COGNOME con rigliardo all’Ingrosso RAGIONE_SOCIALE di Marchesano fossero limitate al pagamento del canone di locazione del capannone sede dell’azienda, di proprietà del capo clan.
Rileva, inoltre, il difensore che mancano elementi di prova certa da consentire di ritenere che COGNOME sfruttasse il rapporto di affinità con il cognato per imporsi violentemente quale fornitore dei commercianti locali, se non le generiche dichiarazioni di COGNOME e COGNOME.
Ci si duole ancora del disinteresse per i risultati delle consulenze contabili di parte in relazione a detta società.
Si insiste sull’errata lettura delle conversazioni tra COGNOME e COGNOME, prive di alcuna valenza dimostrativa dell’intraneità del primo a qualsiasi contesto criminale; e sulla qualificazione delle condotte dello stesso al più come favoreggiamento reale.
8.2.2. Col secondo motivo di ricorso si denunciano violazione degli artt. 416bis, comma sesto, e 59, comma secondo, cod. pen.
Si rileva che nella sentenza impugnata non si spiega perché la società di vendita all’ingrosso di alimentari si sarebbe trovata in posizione monopolistica e, perché, una volta esclusa l’ingerenza di COGNOME negli affari del gruppo COGNOME, lo stesso debba ritenersi consapevole o inconsapevole per sua colpa delle iniziative adottate dal clan e non da suo cognato in settori commerciali estranei alla sua attività lavorativa.
8.2.3. Con il terzo motivo di impugnazione si rilevano violazione degli artt. 62bis cod. pen., 132 e 133 cod. pen. e vizio di motivazione.
Vengono svolte censure analoghe a quelle sopra riportate in relazione al terzo motivo dell’avv. COGNOME sottolineandosi che la qualificata parentela dell’imputato gli ha unicamente consentito di svolgere la propria attività lavorativa senza subire estorsioni.
L’avv. COGNOME per NOME COGNOME e NOME COGNOME deposita, nei termini, motivi nuovi, nei quali insiste per l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bi comma sesto, cod. pen., contestata ai medesimi (oltre che a NOME COGNOME) in relazione al delitto associativo di cui al capo a). E allega sentenza della Sesta sezione di questa Corte, n. 44523 del 29/10/2024, emessa nel giudizio relativo agli originari coimputati che hanno optato per la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, di annullamento della sentenza di condanna nei confronti di questi ultimi relativamente all’aggravante sopra indicata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è, nel complesso, infondato e va, pertanto, rigettato.
1.1. Il primo motivo di impugnazione è infondato.
La Corte di appello di Napoli si sofferma, da p. 44 a p. 49, sull’associazione dedita al narcotraffico, la cui partecipazione -da parte di COGNOME è oggetto di imputazione sub e).
Con riguardo alla fattispecie associativa di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, va premesso che se è vero che l’elemento differenziale tra tale fattispecie e quella del concorso di persone nel reato prevista agli artt. 110 cod. pen. e 73 del citato d.P.R. risiede nell’elemento organizzativo, consistendo la condotta associativa finalizzata al traffico di stupefacenti in un quid plurís rispetto al mero accordo di volontà, sostanziantesi nella predisposizione di una struttura organizzata stabile che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso (Sez. 4, n. 27517 del 12/04/2024, Deda, Rv. 286738); tuttavia è anche vero che, ai fini della configurabilità di detto delitto associativo, non è richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dal predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune, create in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, con il contributo dei singoli associati (Sez. 2, n. 19146 del 20/02/2019, COGNOME, Rv. 275583). Quindi, l’elemento dell’organizzazione nella fattispecie associativa assume un rilievo secondario, nel senso che la sua sussistenza è richiesta nella misura in cui serva per dimostrare che l’accordo illecito permanente teso alla realizzazione di un numero indeterminato di reati (che costituisce l’essenza della fattispecie associativa e l’elemento distintivo di questa rispetto al concorso di persone nel reato) può dirsi
seriamente contratto, giacché la mancanza assoluta di un supporto strumentale priverebbe il delitto del requisito dell’offensività. Ciò significa, sotto il p ontologico, che è sufficiente anche un’organizzazione minima perché il reato si perfezioni e, sotto il profilo probatorio, che la ricerca dei tratti organizzati essenzialmente diretta a provare, attraverso tale dato sintomatico, l’esistenza dell’accordo indeterminato a commettere più delitti che di per sé concreta il reato associativo (Sez. 4, n. 22824 del 21/04/2006, Qose, Rv. 234576); e che, ai fini della verifica degli elementi costitutivi della partecipazione al sodalizio, ed in particola dell’affectio di ciascun aderente ad esso, non rileva la durata del periodo di osservazione delle condotte criminose, che può essere anche breve, purché dagli elementi acquisiti possa inferirsi l’esistenza di un sistema collaudato al quale gli agenti abbiano fatto riferimento anche implicito, benché per un periodo di tempo limitato (Sez. 4, n. 50570 del 26/11/2019, COGNOME, Rv. 278440 – 02).
La sentenza di primo grado evidenzia – si vedano p. 380 e ss. – come gli elementi a sostegno della responsabilità penale in ordine alla partecipazione associativa di NOME COGNOME siano costituiti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, che, congiuntamente valutate, consentono di ritenere la sussistenza di un’associazione dedita al narcotraffico di hashish operante negli anni 2014-2016.
Sottolinea come dette intercettazioni – riportate da p. 383 a p. 387 della sentenza del Tribunale – facciano riferimento a cospicui quantitativi di sostanza stupefacente trafficata e alla possibilità di un approvvigionamento costante di sostanze stupefacenti da parte di NOME COGNOME tramite anche il fratello in esse menzionato, elementi che possono dirsi indicativi di un traffico di stupefacenti in forma organizzata; in cui, secondo i collaboratori, che fanno, altresì, riferimento e descrivono il collaudato sistema delle “puntate” per l’acquisto degli stupefacenti, sarebbero coinvolti insieme a NOME COGNOME, oltre al fratello NOME e al padre NOME, quantomeno come finanziatore, anche NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME che si accusa di avere affidato le proprie “puntate” a NOME COGNOME.
Con riferimento specifico, quindi, alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia la sentenza di appello, dopo avere sottolineato che vi è giudicato in ordine al ruolo apicale nel clan COGNOME del padre dell’imputato, NOME, vicinissimo a NOME COGNOME, e alla sua dedizione al traffico di stupefacenti, osserva come sia del tutto plausibile quanto dichiarato da NOME COGNOME circa il fatto che NOME COGNOME – legato al padre dell’imputato, sino al punto di condividerne la latitanza – si affidasse a NOME COGNOME per vendere lo stupefacente acquistato col sistema delle “puntate”
e che lo stesso COGNOME avesse affidato a COGNOME, seppure non in via esclusiva, le proprie “puntate”. Aggiunge che NOME COGNOME – come emergente dal verbale di interrogatorio in formato integrale dell’8 gennaio 2016 – ha fatto, senza essere compulsato dagli inquirenti, il nome di COGNOME, quindi di NOME COGNOME e di NOME come partecipi all’associazione; e che anche NOME COGNOME ha reso dichiarazioni circa la partecipazione di NOME COGNOME non de relato, ma per conoscenza diretta (riferendo il collaboratore, come specificato nella pronuncia di primo grado, non solo della partecipazione di NOME COGNOME molto legato a NOME COGNOME che pertanto fungeva da tramite col figlio, all’associazione e al sistema delle “puntate” in stretta collaborazione con NOME COGNOME ma anche di avere concluso molti affari di droga con quest’ultimo, per conto del quale vendeva il fumo, sia quando partecipavano entrambi alle puntate, sia quando comprava direttamente da lui e da suo fratello circa 100/150 chili di hashish al mese). Rileva, inoltre, che è attendibil COGNOME – che, come evidenziato dalla sentenza di primo grado, ha, altresì, descritto nel dettaglio le modalità operative dello svolgimento del traffico di droga da parte di NOME COGNOME secondo il sistema delle “puntate” (NOME COGNOME metteva i soldi per conto anche del padre e del fratello NOME e talvolta anche per COGNOME, preoccupandosi talvolta anche di venderne la quota; raccolti i soldi, si organizzava il viaggio in Spagna dove si comprava la droga, che, giunta in Italia, veniva distribuita tra tutti i quotisti) – anche laddove individua il ruolo svolto da NOME COGNOME pe conto di COGNOME e di Gala (individuato, quest’ultimo, dal collaboratore come colui che si occupava con COGNOME del traffico di droga per conto del padre di quest’ultimo), avendo il collaboratore in realtà reso dichiarazioni contra se, aventi valore di confessione della propria partecipazione in veste apicale al clan COGNOME. Sottolinea, infine, come sia evidente che quando il collaboratore NOME COGNOME ha parlato di un lavoro di NOME COGNOME col padre, ha inteso riferirsi al traffico di stupefacenti confermando le dichiarazioni degli altri collaboratori al riguardo. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con riguardo, invece, alle conversazioni oggetto di intercettazione, la sentenza di appello evidenzia che le censure difensive tendono a parcellizzarne il contenuto. Osserva, quindi, che: – la conversazione n. 1070 del 12 aprile 2016 ha evidente rilievo probatorio, emergendo il chiaro riferimento alla droga e il tono minaccioso con cui NOME COGNOME intende ribadire il monopolio sul territorio del gruppo del quale egli fa parte («comandiamo noi qua»); – la conversazione n. 1307 descrive NOME COGNOME, indicato col soprannome “Lupo”, quale uno dei soggetti che, per notoria conoscenza degli affiliati, ancora alla data del 3 novembre 2015, sono in grado di procurare stupefacenti; – dalle conversazioni nn. 1347 e 1348 emerge che tale NOMECOGNOME non contento di un precedente acquisto di sostanza stupefacente da NOME
COGNOME, chiede a quest’ultimo di procurare altra sostanza di altra qualità (“aulin” e non “best”) in quantitativo cospicuo (20-30 chili), che NOME gli procurerà mettendolo in contatto col fratello NOME; – nella conversazione n. 7542 del 19 giugno 2016 un soggetto non identificato, disponendo di uno stabile canale di smercio, riferisce di essere intenzionato ad acquistare 15/10 chili alla volta a NOME, che non mostra alcuno stupore. Sottolinea, quindi, la Corte territoriale come sulla scorta di tali dati obiettivi sia possibile affermare la possibilità dell’imputato accedere a grossi quantitativi di sostanza stupefacente e di approvvigionarsi con costanza, possibilità che presuppone l’esistenza di una struttura organizzata stabilmente; e come occorra ribadire che il contenuto delle intercettazioni è perfettamente coerente con il ruolo attribuito dai collaboratori a NOME COGNOME quale soggetto deputato a gestire le “puntate” effettuate da suo padre e da altri due soggetti apicali del clan COGNOME quali NOME COGNOME e NOME COGNOME e poi dedito alla commercializzazione dello stupefacente in tal modo acquistato insieme a suo fratello NOMECOGNOME che a sua volta svolgeva il medesimo ruolo di collettore delle “puntate”.
La Corte a qua però rileva che, ferma restando la partecipazione di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME al clan COGNOME, l’istruttoria dibattimentale non ha offerto elementi sufficienti per ritenere che il cla camorristico interponesse la propria opera o la propria influenza per agevolare il narcotraffico, e che nemmeno è possibile ritenere che ne ricavasse utili, sia sotto forma di tangente riscossa da quanti vendevano stupefacenti sul suo territorio, sia sotto forma di partecipazione al ricavato delle vendite. Osserva che è ragionevole affermare che l’attività di NOME COGNOME veniva svolta grazie alle entrature di cui egli poteva godere in quanto “aveva il padre che era il boss” (come da dichiarazioni di NOME COGNOME all’udienza del 19 luglio 2021), avendo COGNOME spiegato che NOME COGNOME fu introdotto ad NOME COGNOME detto “scioccato” da suo padre NOME, che si trovava da latitante a Roma dove viveva il suddetto, ed ha aggiunto che i due erano entrambi maranesi e si misero in società per il traffico di stupefacenti.
Tali essendo le argomentazioni non manifestamente illogiche e coerenti con le emergenze processuali della sentenza in esame, risulta infondata la doglianza difensiva secondo cui il venir meno, nella prospettazione della sentenza di appello, del rapporto osmotico con il clan dell’associazione finalizzata al narcotraffico, possa incidere sulla sussistenza di detta associazione, nella quale risulta essere stabilmente inserito NOME COGNOME e nella quale, come evidenziato dallo stesso Tribunale, componenti del gruppo COGNOME, insieme ad altri uomini non affiliati, gestivano l’importazione e la distribuzione di ingenti quantitativi di droga nei territori di Marano
e dei comuni limitrofi. Rileva, invero, detto Tribunale come NOME COGNOME, sfruttando l’eredità paterna, figlio d’arte, si era inserito con particolare efficienz con successo nella struttura, come dimostrano le conversazioni in cui era proprio l’imputato a spiegare quanto fossero floridi i suoi affari, godendo dello stabile rapporto con gli investitori e con gli acquirenti, in tal modo ponendo in essere una condotta partecipativa idonea a fornire un importante contributo alla vita dell’organizzazione stessa. E ciò a prescindere dall’aggravante dell’agevolazione mafiosa, che la Corte territoriale non ha ritenuto configurabile sulla base della sola componente mafiosa dell’associazione e delle entrature mafiose del padre dell’imputato da cui il medesimo era finanziato.
1.2. Inammissibile, in quanto manifestamente infondato, in fatto e reiterativo è il secondo motivo di ricorso, in cui ci si duole della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
A tale riguardo la Corte di appello di Napoli evidenzia che dall’istruttoria dibattimentale è emersa una condotta delittuosa sorretta da intensissimo dolo, commessa da NOME COGNOME nella piena consapevolezza del peso ricoperto dal proprio cognome e protrattasi per un periodo tutt’altro che trascurabile; e che, a fronte di tali elementi, non può attribuirsi alcun valore al comportamento post delictum e in particolare alla presenza costante alle udienze, rientrante nell’insindacabile scelta di ciascun imputato e come tale del tutto neutrale ai fini che qui interessano.
Orbene, la valutazione attinente ad aspetti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, esercitato congruamente, logicamente ed anche in coerenza con il principio di diritto secondo il quale l’onere motivazionale da soddisfare non richiede necessariamente l’esame di tutti i parametri fissati dall’art. 133 cod. pen., si sottrae alle censure che reclamino una rivalutazione in fatto di elementi già oggetto di valutazione ovvero la valorizzazione di elementi che si assume essere stati indebitamente pretermessi nell’apprezzamento del giudice impugnato. Come appunto nel caso in esame, in cui si continua ad insistere sul comportamento processuale che, invece, secondo la Corte è elemento recessivo rispetto a quelli dalla stessa valorizzati.
Parzialmente fondati sono i ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
2.1. Il ricorso di NOME COGNOME è fondato in relazione al quarto motivo di impugnazione, assorbiti il quinto e il sesto.
2.1.1. Infondato è il primo motivo di ricorso.
NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati condannati dal Tribunale di Napoli Nord per delitto di ricettazione, in concorso, con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, così riqualificato il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso loro contestato al capo b).
I difensori di entrambi lamentano che, essendo i fatti diversi, sarebbe stata necessaria una modifica dell’imputazione da parte del Pubblico ministero, che, non essendo intervenuta, ha determinato pregiudizio per il diritto di difesa e conseguente nullità della sentenza per difetto di correlazione con l’imputazione.
La Corte territoriale correttamente sottolinea che nel caso di specie dalla lettura dell’originario capo di imputazione b) – che, invero, fa riferimento alla percezione mensile, da parte di NOME COGNOME e NOME COGNOME, di sostegno economico, per loro e le loro rispettive famiglie, dai clan attivi in Marano di Napoli nelle vari composizioni in cui si sono succeduti (COGNOME, COGNOME e COGNOME, a seconda dei periodi), anche a compenso della loro omertà sui nomi dei mandanti dell’omicidio di NOME COGNOME di cui gli stessi erano stati esecutori materiali – emerge che il Tribunale ha fatto corretta applicazione di tali principi di diritto. L’imputazione originaria contiene l’indicazione di tutti gli elementi fattuali specifici dai quali s
Orbene, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, sicché l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846 – 04: fattispecie in cui la Corte ha reputato che non vi fosse violazione del principio di necessaria correlazione tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza in un caso nel quale, a fronte della contestazione del delitto di utilizzo di fatture inesistenti autoprodotte, si era affermata la penal responsabilità dell’imputato per aver utilizzato fatture soggettivamente inesistenti, chiarendo che la non riferibilità soggettiva delle prestazioni alle imprese che le avevano fatturate aveva costituito il nocciolo della contestazione, sulla quale il predetto aveva avuto la possibilità di difendersi e si era effettivamente difeso; conforme Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
ricavata la contestazione del delitto di ricettazione, per cui correttamente si è esclusa la violazione dei diritti di difesa.
2.1.2. GLYPH Infondati sono il secondo ed il terzo motivo di impugnazione alla luce delle argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici della sentenza in esame.
Detta sentenza, invero, evidenzia che, in primo luogo, occorre prendere le mosse dalla decisione – concordemente riferita da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME – di continuare a mantenere i detenuti più illustri del territorio, a prescindere dalla loro appartenenza ai COGNOME, ai COGNOME o agli COGNOME, quasi si trattasse di un gesto di riguardo per chi aveva “fatto la storia della malavita a Marano”, a conferma dell’unicità del clan, pure a fronte delle tensioni presentatesi negli anni quando l’una o l’altra famiglia ha cercato di sopravanzare le altre nel controllo del territorio. Sottolinea come significative siano le parole d NOME COGNOME circa la sostanziale indifferenza dei detenuti rispetto alle modifiche di vertice (“il carcerato non c’entra nulla con l’aspetto dei vertici che cambiano, cioè l’organizzazione malavitosa è sempre quella là perché non sono successe delle guerre vere e proprie dove ci sono nemici…a noi non è successo il fatto che abbiamo fatto la scissione perché eravamo nemici, abbiamo ammazzato o ci siamo ammazzati tra di noi…con la scissione è stato fatto soltanto un cambio di vertici dell’organizzazione, punto, basta, però rimane sempre tutto uguale”), o ancora quelle di NOME COGNOME che ha spiegato, altresì, che quando gli COGNOME presero il comando del clan, i COGNOME consegnarono al nuovo vertice la lista dei carcerati che si dovevano mantenere. Rileva che tra i personaggi illustri cui erogare lo stipendio i collaboratori hanno indicato NOME COGNOME e NOME COGNOME. Evidenzia come la consapevolezza da parte di COGNOME della provenienza del denaro dalle attività criminali del clan si ricava dalle intercettazioni riportate alle p. 152 e ss., ch evidenziano come il suddetto fosse informato delle vicende del clan, tra cui quelle riguardanti il nipote NOME COGNOME (colloqui intercorsi tra il detenuto e i suoi familiari – figlio e nipote – presso il carcere di Saluzzo in data 24 settembre 2015, in cui COGNOME, dopo avere dimostrato di essere al corrente di dette vicende, dice al nipote “ma tu credi che a me non mi viene a dire niente nessuno? Credi che qua dentro non si sa niente” ). E conclude per la sussistenza della contestata condotta di ricettazione, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, intesa quale ricezione da parte del detenuto, per il tramite dei suoi familiari, di denaro di provenienza delittuosa perché ricavato attraverso i reati commessi dall’associazione camorristica nella quale COGNOME, detenuto da lunghissimo tempo, non poteva più concorrere (delle cui vicende però era ben a conoscenza). E per la non attendibilità delle dichiarazioni di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
NOME COGNOME circa la sua provenienza da una famiglia benestante e il fatto che non abt n ia mai percepito “mesate” da nessuno, come, invece, riferito dai collaboratori.
Tali argomentazioni della sentenza di appello si ricollegano a quelle della sentenza di primo grado, che – a p. 366 e ss. – evidenzia come le dichiarazioni dei suddetti collaboratori si riscontrino a vicenda e come gli stessi abbiano dimostrato di avere diretta conoscenza che anche agli affiliati al clan COGNOME, almeno quelli più importanti e tra essi NOME COGNOME e NOME COGNOME, veniva garantito il mantenimento in carcere in ragione del fatto che non vi era mai stata una guerra con loro. Inoltre, sottolinea che le dichiarazioni di COGNOME che inizia a collaborare ne 2017, attualizzano le dichiarazioni degli altri collaboratori, rendendo ancora più chiaro che il sistema del mantenimento in carcere dei detenuti ed in particolare dei suddetti è garantito in maniera costante da tutti i gruppi criminali che nell’avvicendarsi assumono anche la “responsabilità” degli stipendi, rappresentando del resto un servizio che tutte le organizzazioni criminali garantiscono agli affiliati, sia pe mantenere il consenso e il potere sui detenuti e le loro – famiglie, basato sulla dipendenza economica dal clan, sia per scongiurare il rischio di collaborazioni. E rileva che ad arricchire la prova del mantenimento in carcere dei due imputati vi sono gli esiti delle intercettazioni ambientali in carcere, da cui emerge la prova del loro inserimento nel tessuto criminale delle organizzazioni camorristiche attive a Marano di Napoli, in particolare per COGNOME quelli di cui si è detto.
E’ evidente che, a fronte di tali argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici, infondate sono le censure difensive che insistono sulla mancata prova della percezione dello stipendio o comunque della consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro, ovvero sulla genericità delle dichiarazioni dei collaboratori.
2.1.3. Fondato è, invece, il quarto motivo di ricorso.
Invero, come evidenziato dal ricorrente, le sentenze di merito prendono in considerazione unicamente lo scopo perseguito dall’associazione nel versare mensilmente gli stipendi ai detenuti. La sentenza di primo grado, difatti, sottolinea come la corresponsione e la percezione dello stipendio costituiscano tangibili e speculari manifestazioni dell’esistenza e della vitalità del gruppo, trattandosi di condotte funzionali al rafforzamento dell’aggregazione, che agevolano la coesione tra i sodali, fungendo da stimolo alla perpetuazione dell’iniziativa criminale; e come la capacità del clan di stipendiare con costanza i propri affiliati palesi, anche all’interno, la credibilità ed affidabilità della consorteria. Rileva, poi, la sentenza di appello come indubbia sia la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, poiché tale strumento di supporto economico, con la creazione di una rete di solida mutualità tra
gli affiliati, rinsalda il vincolo di solidarietà nell’ambito dell’associazi preservandone il prestigio e palesandone la forza economica.
Si trascura, però, che la circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734); e, in particolare, che non basta configurare l’interesse dell’associazione ad erogare ai detenuti i contributi periodici, ma devono considerarsi le posizioni di coloro che li ricevono e le loro finalità (se egoistiche o legate alla appartenenza al sodalizio). Si omette, quindi, di motivare in merito alla sussistenza del dolo specifico dell’agevolazione dell’associazione in capo al ricorrente.
Tale carenza motivazionale impone l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. in relazione alla ricettazione sub b) in cui era riqualificata la partecipazione associativa di NOME COGNOME.
2.1.4. Restano assorbiti i motivi di impugnazione sul trattamento sanzionatorio (quinto) e sull’omesso riconoscimento della continuazione tra la ricettazione in esame e gli altri reati già giudicati a suo carico (sesto).
2.2. Anche il ricorso di NOME COGNOME è fondato limitatamente al terzo motivo di impugnazione, relativo all’aggravante dell’agevolazione mafiosa.
2.2.1. Infondato è il primo motivo di impugnazione sulla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza.
Ci si riporta alle considerazioni svolte in relazione ad analogo motivo proposto nell’interesse di NOME COGNOME, da intendersi integramente qui richiamate.
2.2.2. Infondato è, inoltre, il secondo motivo di ricorso, alla luce delle argomentazioni sia della sentenza di primo che di secondo grado.
Anche per NOME COGNOME al pari che per NOME COGNOME, il Tribunale di Napoli Nord ritiene che non sia emersa la prova del contributo fornito dall’imputato al sodalizio criminale e che, tuttavia, la condotta non possa considerarsi penalmente irrilevante sussistendo i presupposti del delitto di ricettazione sia sotto il profi oggettivo che soggettivo.
La sentenza di appello evidenzia che sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori sopra specificati entrambi beneficiavano di uno stipendio (quantificato nel corso delle dichiarazioni di COGNOME in duemila euro).
Si evidenzia che anche per NOME COGNOME l’emolumento ricevuto assolveva alla finalità di ribadire l’esistenza in vita e la perdurante forza del clan COGNOME –
COGNOME – COGNOME. Si osserva che per COGNOME è emerso che il figlio NOME riceveva il denaro erogato dal clan per il mantenimento di suo padre e del nucleo familiare nella piena consapevolezza della sua provenienza illecita, avendo riferito NOME COGNOME di averlo visto ritirare lo stipendio a casa di NOME COGNOME, detto NOME “COGNOME“, affiliato al clan.
La Corte territoriale rileva che un riscontro alle concordi dichiarazioni dei collaboratori proviene dalla registrazione del colloquio intrattenuto dall’imputato detenuto con i propri familiari in data 2 agosto 2014, nel quale lo stesso chiede a suo figlio NOME se abbia messo “qualcosa di soldi alla posta” e viene immediatamente redarguito da sua moglie NOME, che lo invita a non parlare esplicitamente (“sshh! Non ha capito allora”), mentre lo stesso ribatte (“ho capito! Come non ho capito!”) ed esorta suo figlio NOME ad accantonare 1.100 euro (“allora leva di mezzo, otto e tre undici”), per poi dire a sua moglie che si tratta di una cosa tra loro due. Aggiunge la Corte, nel riportare detto colloquio, che, a questo punto, NOME chiede se si tratti di “quelli di questo mese”, ma che tale esplicita affermazione genera la reazione stizzita del detenuto, che le rivolge un’occhìataccia e pronuncia una bestemmia, al che la donna ribatte al marito (“ma sei tu che fai bordello, io ho capito a te”), poi chiede se si stia riferendo a “quello di adesso”, e, annuendo COGNOME, quasi si giustifica dicendo “mica ho specificato”. Osserva, pertanto, la Corte che, sulla scorta di tale prudenza espressiva, appare evidente come tale conversazione costituisca riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori e non possa avere ad oggetto somme di lecita provenienza.
I Giudici di appello evidenziano anche che ulteriore riscontro è costituito dal colloquio in carcere del 15 settembre 2014, nel quale NOME COGNOME discute con suo padre NOME di NOME COGNOME, indicato con molta circospezione, riferendogli dell’ammanco da lui provocato alle casse del clan e venendo invitato da NOME, che intuisce che ciò potrebbe incidere sugli equilibri del territorio, a non prendere parte e a rispettare “tutti quanti e tutto quanto”, a riprova del perfetto inserimento della famiglia nelle dinamiche del clan e della consapevolezza in capo ad entrambi della provenienza del denaro ad essi versato dalle attività delittuose del clan COGNOME – COGNOME – COGNOME
Sottolineano, inoltre, che attraverso detta erogazione il clan riaffermava la propria esistenza e la propria forza, plasticamente manifestata dalla capacità di offrire, ancora dopo tanti anni, sostegno economico ad un soggetto che era detenuto per avere commesso un eclatante delitto nell’interesse del clan; e che la penale responsabilità degli imputati non può essere esclusa sulla scorta della destinazione lato sensu familiare delle somme.
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A fronte di tale iter motivazionale, in cui si fa leva sul ruolo di destinatario dell’erogazione di NOME COGNOME per il tramite del suo nucleo familiare e in particolare del figlio che “si intromette” nella ricezione, nella piena consapevolezza della provenienza illecita delle somme versate, è evidente l’infondatezza delle censure difensive che insistono non solo sulla mancanza dell’elemento oggettivo della ricettazione per la mancata diretta consegna al primo, ma anche sull’assenza dell’elemento soggettivo del reato per essersi limitato il suddetto a ricevere somme di denaro dai propri familiari.
2.2.3. Fondato è, invece, il terzo motivo di ricorso sulla sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, per quanto si è detto con riferimento ad analogo motivo nell’interesse di NOME COGNOME e al mancato approfondimento del dolo intenzionale richiesto per detta aggravante, costituito dalla volontà di agire in favore del clan nella ricezione del denaro del medesimo piuttosto che per un interesse personale.
Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. in relazione alla ricettazione sub b) in cui era riqualificata la partecipazione associativa di NOME COGNOME.
2.3. Il ricorso di NOME COGNOME è fondato in relazione al motivo sull’aggravante dell’agevolazione mafiosa e a quello sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
2.3.1. Infondato è il primo motivo di impugnazione sulla genericità e indeterminatezza dell’imputazione e sulla conseguente nullità del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 429, comma 2, cod. proc. pen.
Il capo di imputazione sub c) non risulta generico e indeterminato, facendo, invero, leva sull’intromissione operata dall’imputato nella ricezione delle somme di denaro versate al padre NOME da esponenti delle cosche locali individuate attraverso il richiamo al capo precedente (b), nel quale si fa specifico riferimento ai clan attivi in Marano di Napoli e succedutisi nel corso del tempo (COGNOME, COGNOME e COGNOME). Con riguardo, peraltro, al tempus commissi delicti la Corte territoriale, nell’evidenziare che non è stato operato alcun aumento per la continuazione dal primo Giudice, sottolinea come la condotta di ricettazione sia stata ritenuta unica e coincidente con la data di accertamento (agosto 2014), che peraltro è quella dell’intercettazione ambientale dei colloqui in carcere tra NOME COGNOME e i suoi familiari, tra cui il figlio NOME.
E, comunque, nel motivo non si specifica in che cosa sarebbe consistito il pregiudizio per la difesa tecnica (si veda ancora una volta Sez. 3, n. 24932 del 10/02/2023, Gargano, Rv. 284846 – 04, secondo cui non vi sarebbe pregiudizio
quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione).
2.3.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso alla luce delle stesse argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici dei Giudici di merito.
Invero, il Tribunale sottolinea che: – l’imputato ha partecipato ai colloqui effettuati nelle strutture carcerarie di Roma e Cosenza, come confermato da deposizione del luogotenente COGNOME ed è risultato addentro alle dinamiche criminali del territorio di Marano di cui riportava l’evolversi e gli aggiornamenti al genitore ristretto; – grazie ai dialoghi intercettati NOME COGNOME è risultato destinatario di somme mensilmente corrispostegli dal clan, essenzialmente riferibili alla storica affiliazione e alla condanna all’ergastolo riportata per l’omicidio COGNOME dal padre; – le indicate conversazioni riscontrano le dichiarazioni di NOME COGNOME che ha riferito di avere visto personalmente l’imputato ritirare la mesata per il padre; – appare chiara la penale responsabilità anche di NOME COGNOME il quale, al fine di procurarsi un profitto per sé e per i propri familiari, ha percepito a titolo di mantenimento somme di denaro di sicura provenienza illecita; – si ritiene non dirimente la produzione documentale attestante lo svolgimento di attività lavorativa di NOME COGNOME in carcere, apparendo evidente che i colloquianti, utilizzando termini criptici, facevano riferimento a somme di denaro ulteriori rispetto a quelle lecitamente percepite dal detenuto.
La Corte territoriale, dopo un’analitica disamina delle conversazioni ambientali sopra riportate con riferimento alla posizione di NOME COGNOME, conclude per la responsabilità penale anche del figlio NOME, intromessosi nella ricezione delle somme di denaro di provenienza camorristica destinate al padre e per l’irrilevanza della destinazione lato sensu familiare di dette somme, attesa la capacità del clan di raccogliere e mantenere consenso sociale, che si esplica anche attraverso il sostegno economico che esso è in grado di fornire a chi – pur senza esserne tecnicamente partecipe – si metta a sua disposizione.
NOME COGNOME risulta, quindi, “intromettersi” nella ricezione del denaro da parte del padre, integrando una delle condotte alternative della ricettazione. E correttamente i Giudici del merito evidenziano come alle dichiarazioni dei collaboratori, di cui una sola individualizzante nei confronti di NOME, funga da riscontro l’intercettazione ambientale dell’agosto 2014 tra NOME COGNOME e i suoi familiari, che, per la prudenza manifestata, non può che avere ad oggetto le somme erogate dal clan, e anche quella successiva di settembre 2014 tra NOME e NOME COGNOME.
2.3.3. Fondati, invece, risultano il terzo motivo di impugnazione sulla sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e il quarto in cui ci si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Sul terzo motivo si richiamano le osservazioni già sopra svolte con riguardo ad NOME COGNOME e NOME COGNOME. Ancora una volta la Corte territoriale non motiva con riguardo all’elemento soggettivo dell’accipiens e in particolare al dolo necessario ad integrare l’aggravante dell’agevolazione mafiosa.
La sentenza di appello, inoltre, pur considerando l’imputato meritevole di riduzione della pena, in ragione sia della giovane età sia dell’incensuratezza sia, infine, dell’estraneità agli affari del clan, e operando detta riduzione partendo dal minimo edittale, non si pronuncia sull’invocato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche di cui dà atto.
Tali carenze e/o contraddizioni motivazionali impongono l’annullamento nei confronti di NOME COGNOME della sentenza in esame sia in relazione all’aggravante dell’agevolazione mafiosa che in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Parzialmente fondato è il ricorso di NOME COGNOME.
3.1. Infondati sono il primo e il terzo motivo di impugnazione.
Invero, scevre da vizi logici e giuridici sono le argomentazioni dei Giudici di merito circa l’identificazione dell’imputato nel soggetto indicato come “NOME piccolino”.
Il Tribunale di Napoli Nord – p. 353 e ss. – muove dall’intercettazione ambientale dei colloqui in carcere di NOME COGNOME con i propri familiari in data 31/10/2024, 11/11/2014 e 4/03/2015, dalla quale emerge il primo riferimento a “NOME COGNOME“, figlio di NOME COGNOME (nell’ultimo colloquio con riguardo anche a contatti di natura epistolare tra l’imputato e COGNOME, riscontrati attraverso la consultazione da parte degli inquirenti dei registri tenuti dalla Polizia penitenziaria). Passa, poi, ad esaminare il colloquio in carcere tra NOME COGNOME, cugino dell’imputato, e la moglie NOME COGNOME in cui la donna si lamenta dell’ingerenza nella gestione di alcuni soldi di “NOME il piccolo”, individuato come il figlio di NOME (NOME COGNOME, madre di COGNOME) che a breve avrebbe dovuto fare il colloquio con il padre detenuto in una località con la neve (NOME COGNOME, all’epoca detenuto a Saluzzo in provincia di Cuneo). E sottolinea come a chiudere il cerchio vi sia l’intercettazione ambientale relativa all’incontro del 31/08/2015, al quale sicuramente NOME COGNOME aveva accompagnato il cugino NOME NicolaCOGNOME in cui
NOME COGNOME chiedeva agli altri “NOME dove sta?.. .NOME il piccoletto se n’è andato?”. Evidenzia, detto Tribunale, che NOME COGNOME era conosciuto come “il piccolo” nell’ambiente criminale proprio per distinguerlo da suo cugino più anziano, NOME COGNOME col quale si accompagnava molto spesso.
Muovendo da tale premessa, il Tribunale passa poi ad analizzare i colloqui in carcere tra NOME COGNOME e la moglie NOME COGNOME, in data 20/08/2015, 3/09/2015, 10/09/2015 e 24/09/2015, il cui contenuto, secondo l’ipotesi di accusa, comproverebbe la partecipazione associativa, di cui capo a) di imputazione, al clan COGNOME di NOME COGNOME, con il fondamentale ruolo di prestare assistenza ai detenuti e ai loro familiari, attraverso il pagamento delle “mesate”. Evidenzia detto Tribunale come i dialoghi in carcere siano essenzialmente incentrati sul gruppo criminale di appartenenza di COGNOME (clan COGNOME), arrestato per una tentata estorsione commessa in concorso anche con NOME COGNOME e sulla mancata corresponsione dello stipendio destinato agli affiliati detenuti, mostrandosi COGNOME adirato per non essergli stata corrisposta la “mesata” di agosto, ma il solo “regalo” di Ferragosto, come comunicatogli dalla moglie. Rileva come l’argomento venisse sviscerato ampiamente nel corso dei colloqui dal detenuto e dalla moglie, che sospettavano che la loro mesata fosse finita nelle mani di “NOME piccolino” che con quei soldi se ne era andato in vacanza (a tale riguardo evidenzia come la P.g. avesse dato atto che nella giornata del 6 agosto 2015 il cellulare di NOME COGNOME veniva localizzato ad Ischia); e come COGNOME e sua moglie lamentassero che “NOME grosso”, che evidentemente aveva incaricato “il piccolo” di consegnare la “mesata”, aveva assunto un atteggiamento di protezione nei confronti di quest’ultimo. Osserva, sempre il Tribunale, che nel corso dei colloqui “NOME piccolino” era sempre coinvolto, o perché incaricato di riferire le imbasciate a “NOME grande” e a COGNOME, ossia a NOME COGNOME che era il cassiere del clan, o perché incaricato dai responsabili del clan a consegnare il denaro alla moglie del detenuto. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Rileva che: – proprio nel raccontare al marito il 17/09/2015 il colloquio avuto con COGNOME la donna rivelava l’identità di “NOME il grosso” facendo esplicito riferimento a NOME COGNOME; – nel colloquio del 20/08/2015 la COGNOME diceva al marito di avere incontrato “NOME piccolo”, indicato come il “fratello cugino”, che le aveva fatto capire che si sarebbe occupato della nomina di un avvocato anche per suo marito, cosa che poi non avveniva; – tale indicazione appare particolarmente significativa in quanto lega la figura di “NOME il piccolo” a quella di NOME COGNOME del quale è appunto cugino di primo grado (indicato in napoletano proprio come il “fratello-cugino”) e conferma le precedenti osservazioni fatte in ordine alla sicura riconducibilità dell’appellativo “NOME piccolo” a NOME COGNOME (tra cui anche il riferiment
all’atteggiamento benevolo tenuto nei suoi confronti da NOME COGNOME seppure resosi responsabile di un grave fatto); – nel colloquio del 10/9/2015 moglie e marito insistono sul fatto che “NOME piccolo” avrebbe fatto uso dei soldi sottratti a lor per una vacanza con la fidanzata (sul punto evidenzia il Tribunale che agli atti vi è la prova che NOME COGNOME si sarebbe effettivamente recato a Tenerife con la fidanzata dal 7 al 21 settembre 2015, come da intercettazione ambientale di colloquio in carcere col padre detenuto e da ammissione dell’imputato nel corso del suo esame).
Aggiunge il Tribunale che NOME COGNOME nel corso delle sue conversazioni con la moglie, consapevole che i colloqui potevano essere intercettati, affermava che il ragazzo, che, peraltro, talvolta si riferiva a loro come “zio” e “zia”, non poteva essere cacciato di casa, in quanto era suo nipote, figlio di sua sorella; ma che tale circostanza è stata smentita dalle indagini anagrafiche effettuate sul conto del suddetto che escludono assolutamente che il suddetto abbia nella sua famiglia alcun discendente con il nome di NOME
Rileva, inoltre, che il riferimento anche al nome NOME fatto più volte dalla COGNOME per indicare la fidanzata che si era presentata in compagnia di “NOME il piccolo” a casa sua e che COGNOME insisteva perché fosse autorizzata a venire ancora appare piuttosto riconducibile a NOME COGNOME, sorella dell’imputato.
La Corte di appello di Napoli ritiene corretta l’operazione logica svolta dal Tribunale con riferimento all’identificazione di “NOME piccolo”, muovendo proprio dai colloqui in carcere di Nuvoletto con i propri familiari e dal riscontro epistolare di cui si è detto. Evidenzia, inoltre, come l’argomento difensivo secondo cui “NOME piccolo” non sarebbe NOME COGNOME, ma un nipote di COGNOME, veniva smentito dalla complessiva mole delle conversazioni in cui si menziona “NOME piccolo”, conversazioni che, peraltro, delineano un soggetto dal quale si attendeva l’erogazione della mesata corrisposta dal sodalizio e sul quale si concentravano i sospetti che se ne fosse impossessato.
Rileva come neppure colga nel segno l’affermazione difensiva secondo cui l’identificazione di NOME COGNOME sarebbe errata perché egli non era andato in vacanza ad agosto bensì a settembre 2015, affermazione che muove dal commento in data 3 settembre 2015 tra COGNOME e la moglie su quello che avrebbe speso “NOME piccolo”, a riprova di una vacanza già effettuata, non potendosi escludere che abbia potuto effettuare ulteriori partenze (come emergente da un colloquio del 20 agosto 2015, in cui i coniugi parlano di un NOME che si stava divertendo con moto d’acqua e gommone).
A fronte di un tale completo e logico iter motivazionale di entrambe le sentenze di merito circa l’identificazione di “NOME piccolo” con NOME COGNOME è evidente
che le censure difensive di cui al primo motivo di ricorso, che insistono sul fatto che “NOME piccolo” viene indicato nelle conversazioni come nipote dei COGNOME e come fidanzato con NOME, mentre NOME COGNOME sarebbe fidanzato con NOME COGNOME e avrebbe fatto vacanza solo a settembre 2015 e non ad agosto dello stesso anno, ovvero insiste sul fatto che vari NOME frequentavano in quel periodo la famiglia COGNOME, non sono fondate, anzi ai limiti dell’inammissibilità perché in fatto e reiterative. Proprio per tale completezza motivazionale neppure risultano fondate le doglianze, di cui al terzo motivo di impugnazione, circa la mancata escussione, in sede di invocata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, di NOME COGNOME.
3.2. Colgono, invece, nel segno le censure di cui al secondo motivo di ricorso in relazione alla ritenuta partecipazione dell’imputato al clan COGNOME.
Il Tribunale di Napoli Nord considera le indicate intercettazioni ambientali significative del ruolo rivestito da NOME COGNOME nell’ambito associativo, sottolineando come quello del sostegno alle famiglie degli affiliati carcerati sia uno dei settori nevralgici per il mantenimento dell’associazione. Rileva come dalle intercettazioni dei colloqui in carcere di COGNOME con la moglie emerga l’insofferenza della donna per la sottrazione di denaro da parte dell’imputato, deputato al versamento (sembrerebbe per conto del cugino NOME COGNOME, destinato alla “mesata” di agosto del detenuto. E ricollega dette intercettazioni con la partecipazione di COGNOME al summit del 31 agosto 2015, nel corso del quale si discutevano con i responsabili del clan gli equilibri presenti e futuri interni all’organizzazione e nei suoi rapporti con gli Orlando, sintomo di fiducia nei confronti dell’imputato da parte di tutti gli affiliati e non solo da parte di NOME COGNOME con il quale spesso si accompagnava. Sottolineando come tale partecipazione non possa essere considerata neutra per il solo fatto che COGNOME non proferiva parola.
La Corte di appello di Napoli insiste sul fatto che la partecipazione al summit tra gli esponenti del gruppo COGNOME e quelli del gruppo COGNOME, dopo l’arresto di NOME COGNOME, unitamente alla collaborazione prestata dall’imputato per recapitare gli stipendi destinati agli affiliati detenuti, siano significative della partecipazione associativa e che a nulla rilevi il dato che in concreto non risulti che egli abbia compiuto ulteriori e specifiche condotte esecutive del programma criminoso.
Non considera, però, che dal monitoraggio operato dagli inquirenti risulta il coinvolgimento dell’imputato nella sola recapitazione, peraltro, per come sembra emergere sempre dai colloqui, per conto del cugino NOME (di cui si censura il comportamento protettivo nei confronti di COGNOME), delle somme spettanti al detenuto COGNOME, coindagato del cugino, per il mese di agosto; e che a nulla rileva,
sotto tale profilo, il fatto valorizzato dalla Corte territoriale che COGNOME tramite moglie aveva interessato anche NOME COGNOME, cassiere del clan, sul mancato pagamento del suo stipendio.
Non si confronta, inoltre, se non per ritenerla apoditticamente irrilevante, con la circostanza, su cui fa, invece, leva la difesa in appello, insistendo anche nel ricorso in esame, che i collaboratori di giustizia NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno riferito di non conoscerlo e che NOME COGNOME, indiscusso reggente del clan in quel periodo, pur dichiarando di conoscerlo, non ha saputo dire se egli fosse anche coinvolto negli affari illeciti del sodalizio.
Inoltre, a fronte del dato evidenziato anche dal Tribunale, ossia che l’unico soggetto del quale non veniva udita la voce, nell’intercettazione ambientale disposta in relazione al suddetto summit, era appunto NOME COGNOME detta Corte si limita ad osservare che non rileva che lo stesso non avesse preso la parola, poiché ciò appare conforme al basso grado gerarchico ricoperto, consistente nel recapitare gli stipendi e, quindi, nello svolgere un ruolo meramente esecutivo, considerato comunque che, data l’elevata caratura criminale dei presenti, solo persone di assoluta e comprovata fiducia avrebbero potuto conoscere il posto e la data dell’incontro. E ancora una volta non considera che il coinvolgimento dell’imputato nel recapitare lo stipendio potrebbe essere stato estemporaneo, per conto del cugino e non del clan, e non riconducibile ad una messa a disposizione del clan, riferendosi ad un’unica “mesata” non corrisposta ad un unico affiliato, che risulta essere stato altresì arrestato per un’estorsione commessa in concorso con NOME COGNOME. E non si confronta con la possibilità che lo stesso avesse solo accompagnato al summit il cugino NOME COGNOME e si fosse, poi, allontanato per discrezione al momento della discussione, restando nei paraggi, come dal medesimo riferito, circostanza che giustificherebbe anche la domanda posta agli altri affiliati, nelle prime battute del summit, da NOME COGNOME, valorizzata dai Giudici del merito ai fini dell’identificazione di NOME COGNOME (“NOME dove sta?…NOME il piccoletto se n’è andato?”). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tali carenze e/o contraddizioni motivazionali – certamente allo stato non colmate dall’ulteriore dato, emerso in udienza, poiché riferito dal luogotenente COGNOME e riportato dalla Corte territoriale, del frequente accompagnamento da parte di COGNOME delle donne che si recavano a colloquio in carcere con i propri familiari detenuti – circa la partecipazione associativa dell’imputato impongono l’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso di NOME COGNOME per un approfondimento del ruolo associativo di quest’ultimo alla luce degli ultimi arresti della giurisprudenza di legittimità.
Invero, secondo Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 281889 – 01,
la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si caratterizza per lo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua ‘messa a disposizione’ in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi. (Vedi: Sez. U, n. 16 del 1994, Rv. 199386-01, e Sez. U, n. 30 del 1995, Rv. 20290401). Nella motivazione di detta pronuncia si specifica che la condotta di partecipazione punibile potrà dirsi provata quando la “messa a disposizione” assuma i caratteri della serietà e della continuità attraverso comportamenti di fatto, non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell’associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l’adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di “irrevocabilità” (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura.
3.3. Resta assorbito il quarto motivo di impugnazione relativo al trattamento sanzionatorio e al giudizio di comparazione tra attenuanti e aggravanti.
Parzialmente fondati sono i ricorsi di NOME COGNOME e di NOME COGNOME.
4.1. Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è fondato in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen.
4.1.1. Infondati sono il primo motivo dell’atto di impugnazione dell’avv. COGNOME e il primo motivo dell’atto di impugnazione dell’avv. COGNOME, relativi alla violazione dell’art. 416-bis cod. pen. e al vizio di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione dell’imputato al clan COGNOME.
La sentenza di primo grado tratta la posizione di NOME COGNOME da p. 324 a p. 344, mentre quella di appello la tratta congiuntamente alla posizione di NOME COGNOME da p. 3 a 37.
Il Tribunale nel valutare la condotta di COGNOME, ed anche quella del genero NOME COGNOME correttamente fa riferimento ai parametri indicati dalla pronuncia a Sezioni Unite n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME, che fa leva, come già si è evidenziato, ai fini della prova della partecipazione ad associazione di tipo mafioso, su una messa a disposizione effettiva, attraverso comportamenti di fatto, non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell’associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l’adesione libera e volontaria alla consapevole scelta di affiliazione, nell’ambito di un rapporto organico – stabile, duraturo e potenzialmente permanente – tra singolo e struttura.
Evidenzia, a tale riguardo, che dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalle intercettazioni ambientali e telefoniche emerge che COGNOME e anche il
genero NOME COGNOME hanno posto in essere una serie di condotte concrete ed azioni finalizzate alla realizzazione degli scopi associativi, con lo specifico ruolo di intermediari tra le attività lecite ed illecite.
Rileva il Tribunale che COGNOME, cognato di NOME COGNOME per averne sposato la sorella, era imprenditore e formalmente si occupava solo di fornitura all’ingrosso di alimenti, quale titolare della “RAGIONE_SOCIALE” in posizione monopolistica a Marano proprio per la parentela qualificata col capoclan (come riferito concordemente dai collaboratori di giustizia COGNOME, COGNOME e anche COGNOME, dichiarando che i ristoratori della zona, pur trovando poco concorrenziali i prezzi praticati da COGNOME, non potevano rifornirsi da fornitori diversi); e che nel contempo, con l’appoggio del genero, che era formalmente l’intestatario di un’agenzia immobiliare, si occupava di garantire a NOME COGNOME di cui era uomo di fiducia tanto da essere gestore del suo denaro personale (definendolo COGNOME come “la cassa di COGNOME“), e ai suoi luogotenenti la possibilità di investire proficuamente in immobili i soldi derivanti dalle attività illegali, come concordemente riferito dai collaboratori (COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME) ed emergente dalle intercettazioni. La sentenza di primo grado – a p. 341 – evidenzia l’importanza di detto ruolo per l’organizzazione criminale, consentendo al capo e agli affiliati più facoltosi di investire l’enorme quantità di denaro di provenienza delittuosa. Aggiunge che se gli affiliati più facoltosi non avessero avuto la possibilità di investire il denar “sporco”, non avrebbero potuto mettere a frutto il proprio “lavoro”. Osserva che COGNOME, come spiegato da COGNOME COGNOME e COGNOME, o raccoglieva i soldi degli affiliati, che in quote partecipavano all’acquisto degli immobili che venivano da lui direttamente rivenduti, che poi restituiva comprensivi del proporzionale guadagno, oppure si preoccupava di effettuare l’acquisto di un immobile per il singolo affiliato, che poi provvedeva ad intestare fittiziamente ad un prestanome e, infine, a locare garantendogli una rendita posta al sicuro da provvedimenti ablativi dello Stato. Aggiunge, inoltre, che COGNOME ed COGNOME, sempre secondo il racconto dei collaboratori di giustizia, mettevano a disposizione degli affiliati delle case sempre appartenenti ad uomini del clan, da utilizzare saltuariamente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il Tribunale individua come emblematica della gestione del patrimonio immobiliare di NOME COGNOME la conversazione che COGNOME intratteneva con sua nipote NOME in data 19 aprile 2016 (dicendole che voleva controllare se tra le case del padre – Polverino – ci fossero case nel complesso edilizio ove la ragazza voleva abitare), nonché riprova della vastità del patrimonio immobiliare gestito da non essere in grado l’imputato di ricordare quali appartamenti fossero riferibili a Polverino e quali ai suoi affiliati, come sottolineato anche dalla Corte territoriale ( a
p. 34), che valorizza il fatto che sia nello svolgimento della sua attività commerciale che nello svolgimento dell’attività di agente immobiliare COGNOME beneficiava dell’immedesimazione organica con il cognato capoclan (p. 5).
La sentenza di appello (a p. 8) evidenzia come dalla convergente narrazione di COGNOME e COGNOME si delinei il ruolo di COGNOME, che il secondo definisce come soggetto che “faceva gli affari intorno al clan, però non è che prendeva uno stipendio”. Rileva che tale affermazione non basta però a confutare le argomentazioni sviluppate dalla sentenza di primo grado per affermare la responsabilità di COGNOME. Sottolinea, invero, come emerga dalle dichiarazioni di detto collaboratore che “tutto quello che COGNOME faceva lo faceva per NOME COGNOME, riciclava i soldi di NOME COGNOME in attività, in cose,… in affari che faceva, e sempre sotto il nome di NOME COGNOME..”. Entrambi i Giudici del merito osservano che la circostanza che egli non percepisse stipendio (come riferito anche da COGNOME) non rileva, posto che la sua posizione di imprenditore garantito dal clan, operando sul territorio in una posizione di vantaggio rispetto ad altri (sia in relazione alla concorrenza, anche negli acquisti immobiliari, che al recupero dei crediti), gli permetteva di guadagnare redditi autonomamente.
Rileva il Tribunale che la spiegazione alternativa dell’agire di COGNOME ed COGNOME, secondo la quale avrebbero operato nell’interesse del parente NOME COGNOME e non del clan, è destituita di fondamento a fronte delle ulteriori condotte degli imputati, che, attraverso tutte le loro attività, hanno mostrato di condividere l’adesione al sodalizio mafioso.
Viene, a tale riguardo, evidenziato sia dal Tribunale che dalla Corte di appello come COGNOME avesse accesso alle riunioni di vertice in quanto cognato di COGNOME e fosse ammesso al nascondiglio dei latitanti.
La Corte di appello, in particolare, sottolinea come il fatto, riferito concordemente da COGNOME e COGNOME, che COGNOME poteva recarsi da COGNOME quando voleva e se vi erano riunioni in corso anche del vertice (NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) non era tenuto ad allontanarsi, poiché godeva della assoluta fiducia del cognato e degli altri affiliati in posizione apicale, a nulla rilevando anche il rapporto di parentela con COGNOME, dimostri la sua partecipazione al clan; e come la attendibilità di COGNOME non sia inficiata dal fatto che alla sua scarcerazione il suo ruolo fu ridimensionato fino al suo allontanamento successivo (nel 2011), per avere preso decisioni non autorizzate da COGNOME.
La Corte di appello di Napoli si confronta, poi, con tutti i restanti rilievi difensiv in parte riproposti in questa sede.
Osserva che il fatto, su cui fa leva la difesa, che COGNOME in varie occasioni disattendeva le direttive di COGNOME (che a detta di COGNOME gli contestava di avere speso il suo nome per fare affari, trattenendo però per sé parte del denaro che avrebbe dovuto versare al cognato) non consente di ritenerlo non affiliato, integrando piuttosto l’archetipo dell’affiliato ribelle. Rileva che anche la deposizione di COGNOME è in tal senso, avendo lo stesso riferito che COGNOME aveva creato una fortissima tensione con il clan COGNOME, per avere infranto l’accordo esistente tra costoro e i COGNOME per la distribuzione degli affari, avendo in particolare iniziato a distribuire le scatole di cartone per le pizze infrangendo il monopolio garantito in questo settore agli COGNOME, tanto da essere più volte convocato presso i covi dei latitanti per discuterne, circostanza ribadita dal collaboratore anche in sede di controesame della difesa. Osserva che il collaboratore ha, poi, chiarito che le visite dell’imputato erano determinate dalla necessità di discutere “qualche problematica del clan”.
Esclude che la vicenda della gambizzazione di COGNOME fosse riconducibile a questioni personali dello stesso, inscrivendosi perfettamente nel disegno del soggetto recalcitrante alle direttive di COGNOME tratteggiata da COGNOME, evidenziandone piuttosto la valenza camorristica al pari della sparatoria posta in essere dal medesimo per vendicare l’affronto fatto al figlio, a seguito della quale si sarebbe esposto ad una ritorsione da parte degli COGNOME, nel cui mirino già era per la sua politica di distribuzione degli scatoli . per pizze, tendente a sottrarre prerogative economiche riconosciute dai COGNOME agli Orlando. Rileva che: – la punizione inflitta a COGNOME offre definitiva conferma dell’immedesimazione organica che, agli occhi di tutti, si era instaurata tra COGNOME e suo cognato NOME COGNOME; – sebbene la distribuzione delle scatole per le pizze venisse gestita da COGNOME in proprio, tuttavia egli rappresentava per tutti – clan avversari, clan alleati e comuni imprenditori l’alter ego oeconomicus di NOME COGNOME, discendendone che qualsiasi sua attività veniva percepita come un atto di sfida astrattamente in grado di determinare una vera e propria guerra tra i COGNOME e gli COGNOME; – di tanto era consapevole anche COGNOME, che faceva pervenire a COGNOME l’ordine di sospendere la vendita di dette scatole; – COGNOME era, invece, consapevole di avere la protezione del nome COGNOME e questa consapevolezza lo conduceva a spingersi ai limiti del consentito.
La Corte di appello – a p. 15 – evidenzia come COGNOME non possa definirsi concorrente esterno, ma camorrista-imprenditore, pienamente partecipe al sodalizio di cui condivide metodi e obiettivi onde rafforzarne il potere economico sul territorio di riferimento.
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Rileva che ciò emerge dalle intercettazioni delle conversazioni ambientali svolte con l’amico COGNOME, in cui l’imputato dimostra l’avversione per l’ascendente clan COGNOME e il rimpianto per i COGNOME.
Tali conversazioni vengono analiticamente e logicamente interpretate a p. 334 e ss. dal Tribunale, mentre la Corte di appello le analizza alle p. 19 e 20, a fronte dei rilievi difensivi sul travisamento, deducendone che COGNOME parla da soggetto pienamente inserito nel clan e nelle sue dinamiche, tanto da ipotizzare addirittura la resistenza contro l’ascesa degli COGNOME, confermando inoltre di essere l’amministratore di fatto degli immobili di Polverino.
Evidenzia come egli – a prescindere dall’assoluzione per intestazione fittizia su cui fa un’ampia premessa la sentenza del Tribunale a p. 324 confrontandosi anche con la consulenza tecnica di parte – gestisse attività sostanzialmente riconducibili a NOME COGNOME, avendo il compito di rappresentare la presenza, la forza e il potere del medesimo; e come proprio per questo il clan gli garantisse il suo sostegno e il suo intervento ogni qualvolta il prestigio di COGNOME poteva essere messo a repentaglio (dissuasione dei concorrenti alle aste immobiliari o mantenimento del monopolio della distribuzione dei generi alimentari).
Sottolineano i Giudici di appello – a p. 18 – , a fronte del rilievo difensivo sull’assoluzione, in altro procedimento penale, di COGNOME dall’accusa di trasferimento fraudolento di valori e sulla revoca della confisca della società “RAGIONE_SOCIALE“, come più che un trasferimento fraudolento di valori, a ben vedere, il rapporto tra COGNOME e COGNOME sembri integrare lo schema del socio occulto (da individuarsi in COGNOME) all’interno di un’attività economica effettiva ed operante, facente capo a COGNOME, che però la esercitava ammantandosi della auctoritas camorristica promanante dal suo socio occulto e dal vincolo di affinità tra i due.
Tali essendo le argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici dei Giudici di merito in relazione alla partecipazione al clan COGNOME di NOME COGNOME è evidente che si rivelano infondate le censure difensive che insistono sui non pochi contrasti di COGNOME con COGNOME, sulla presenza passiva alle riunioni del clan o comunque per affari personali dell’imputato, sul travisamento delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (ampiamente sviscerate da entrambi i giudici di merito, con riferimento altresì ai controesami e alla questione della mancata percezione di stipendio da cui si deduceva la non affiliazione), sulla gestione patrimoniale svolta nell’interesse di COGNOME e dei suoi luogotenenti e non del clan, sull’irrilevanza dei colloqui di COGNOME con l’amico COGNOME, sulla valenza come vicenda personale della gambizzazione di COGNOME, sull’omessa considerazione della decisività
dell’assoluzione di COGNOME dall’accusa di trasferimento fraudolento di valori e del dissequestro dell’azienda alimentare e sulla ravvisabilità di altre fattispecie delittuose nella condotta di COGNOME (primo motivo di impugnazione dell’avv. COGNOME); ovvero che insistono sulla gestione patrimoniale nell’interesse esclusivo del capoclan e dei vertici e non del clan, sulla partecipazione a riunioni associative di Marchesano per mere questioni personali, sull’opposizione di COGNOME alle pressioni dei COGNOME e degli COGNOME sull’assenza di elementi di prova dello sfruttamento da parte dell’imputato dell’affinità con COGNOME diversi dalle generiche dichiarazioni di COGNOME e COGNOME, sull’omessa valutazione delle consulenze contabili di parte e, infine, sull’errata lettura delle conversazioni tra COGNOME e COGNOME (primo motivo dell’avv. COGNOME).
4.1.2. GLYPH Fondati, invece, sono il secondo motivo di impugnazione dell’avv. COGNOME, il secondo motivo di impugnazione dell’avv. COGNOME e i motivi nuovi dell’avv. COGNOME per COGNOME sulla mancata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen.
A detti motivi, in ultimo menzionati, viene allegata la sentenza della Sesta sezione di questa Corte, n. 44523 del 29/10/2024, emessa nel giudizio relativo agli originari coimputati che hanno optato per la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, di annullamento della sentenza di condanna nei confronti di questi ultimi relativamente all’aggravante sopra indicata.
La sentenza di appello rileva che nel procedimento di primo grado è emerso che COGNOME aveva il monopolio della fornitura di alimenti all’ingrosso alle pizzerie e ai ristoranti della zona di Marano, non essendo i ristoratori liberi di approvvigionarsi da altri grossisti, sebbene COGNOME praticasse prezzi non concorrenziali; e che è emerso poi che egli – con il genero che con lui concorreva aveva il controllo delle aste giudiziarie, dalla partecipazione alle quali il clan dissuadeva eventuali concorrenti.
Osserva che a fondamento dell’aggravante il Tribunale utilizza due sentenze già definitive che descrivono il monopolio raggiunto dal clan in particolare nel settore delle carni; e che a p. 726 di una delle sentenze (quella del 14 aprile 2016) si legge che NOME COGNOME, secondo quanto raccontato da COGNOME, era meravigliato perché NOME COGNOME “che stava inguacchiato con COGNOME” ed era la testa di legno di quest’ultimo in moltissime attività, ben più che COGNOME stesso (titolare di società di macellazione nella quale COGNOME aveva investito molte somme di denaro), non era stato arrestato. La Corte di appello sottolinea come la frase di COGNOME vada intesa quale riscontro del monopolio raggiunto e mantenuto dal clan nel settore dell’ingrosso di alimentari.
La Corte territoriale, però, trascura che, ai fini della configurabilit dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen., che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti: in primo luogo, una particolare dimensione dell’attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi; – è, pure, necessario che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficac intervento repressivo; – la predetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172: in applicazione del principio di cui in massima la Corte ha censurato la decisione con cui il giudice di merito ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen., ritenendo apoditticamente certo che i proventi delle estorsioni cui il sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite da due degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l’altro, di verifiche i ordine alla titolarità, alle dimensioni e tipologia dell’attività nonché alla data costituzione dell’impresa e alle forme di finanziamento di essa; in senso conforme: Sez. 6, n. 4115 del 27/06/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278325 – 01, secondo cui, in tema di associazione mafiosa, l’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen., ricorre quando gli associati pongono in essere una condotta volta a penetrare in un determinato settore della vita economica, influendo sulle regole della concorrenza finanziando le attività con il prezzo, il prodotto o i profitti di delitti modo da prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono analoghi beni o servizi; Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278796, secondo cui per detta aggravante occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gl stessi beni o servizi, sia che l’apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo: in applicazione del principio, la Corte ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l’aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
insediamento; dello stesso tenore è Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Corcione, Rv. 277653). La natura oggettiva della circostanza aggravante comporta, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 59, secondo comma, cod. pen. (introdotto dalla legge del 7 febbraio 1990, n. 19), che essa sia valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio, sempre che essi siano stati a conoscenza dell’avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa (come ribadito da Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, COGNOME, Rv. 259588).
La pronuncia rescindente allegata dall’avv. Gaito ai motivi nuovi, proprio in considerazione dei principi di diritto appena riportati, ha annullato la sentenza di appello, pronunciata nel giudizio inerente agli originari coimputati degli imputati per i quali si procede in questa sede, in relazione all’aggravante del reimpiego dei proventi illeciti, fondata anche nel giudizio abbreviato su provvedimenti definitivi riguardanti il clan COGNOME, «non evidenziandosi – al di là della risalente vicenda del 2009 non meglio connotata – l’attività di finanziamento rilevante ai fini dell’aggravante e, ancora, non essendo considerata la correlazione con il periodo preso in esame (dal 2013) al fine della sua perdurante esplicazione».
Pur non avendo detta pronuncia efficacia vincolante nel nostro procedimento, in quanto resa in altro procedimento e come tale condizionata al materiale probatorio in esso acquisito, va osservato che anche la motivazione della sentenza di appello in esame in relazione a detta aggravante, come rimarcato dai difensori, è carente, in quanto non dà conto delle dimensioni delle attività imprenditoriali svolte da COGNOME con il coadiuvo in parte del genero, e non si confronta con le consulenze tecniche di parte a tale riguardo (COGNOME, COGNOME e COGNOME).
4.1.3. Restano assorbiti, infine, il terzo motivo di impugnazione dell’avv. Esposito e il terzo motivo di impugnazione dell’avv. Gaito circa il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e il trattamento sanzionatorio.
4.2. Il ricorso nell’interesse di NOME COGNOME è fondato in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen.
4.2.1. Infondato è il primo motivo di impugnazione relativo alla violazione dell’art. 416-bis cod. pen. e al vizio di motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione dell’imputato al clan Polverino.
Il Tribunale di Napoli Nord anche per COGNOME ritiene provata la partecipazione al clan COGNOME con il ruolo precipuo, in concorso col suocero, di gestore degli immobili di proprietà di NOME COGNOME e di altri esponenti apicali del clan COGNOME. E ciò sulla base, oltre che delle intercettazioni, delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (COGNOME, COGNOME e COGNOME), che hanno
dichiarato che NOME utilizzava l’agenzia immobiliare di cui era titolare come paravento per la gestione immobiliare svolta con il suocero.
Il Tribunale rileva che, come già visto per COGNOME (rinviando, quindi, alle ampie argomentazioni sopra riportate), anche NOME COGNOME rappresenta la figura dell’imprenditore di camorra, che garantisce l’osmosi tra i proventi illeciti, derivanti appunto dai delitti posti in essere dall’associazione, e il mondo dell’imprenditoria.
Con riferimento alla gestione degli immobili della famiglia COGNOME il Tribunale dà rilievo ad una conversazione del 19 maggio 2016, in cui COGNOME, COGNOME e COGNOME NOME parlavano di una somma di denaro che doveva avere NOME COGNOME, figlio di NOME, e in questo contesto COGNOME rammentava ai suoi interlocutori che tale COGNOME aveva prelevato 80.000/90.000 euro relativi ai canoni di locazione di immobili gestiti dallo stesso COGNOME per conto di NOME COGNOME.
La Corte territoriale valorizza, invece, la conversazione tra NOME COGNOME e tale NOMECOGNOME vedente sull’attività di imnnobiliarista del primo, in cui il secondo chiede al primo se un immobile dallo stesso propostogli per una locazione sia degli “Orlando”.
Osserva ancora il Tribunale come le risultanze dell’attività di intercettazione (a carico di COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) corroborino ed anzi amplino l’importanza del contributo che COGNOME forniva al clan, restituendo l’immagine di un uomo che, condivide al pari di suo suocero, convintamente l’ideologia camorrista, dimostrando l’affectio per il clan di appartenenza e la condivisione delle regole e delle finalità.
Evidenzia come l’imputato, che secondo COGNOME era sempre presente quando COGNOME si recava ad incontrare i latitanti, peraltro di rilievo, come, oltre al cugino del suocero (NOME COGNOME), lo stesso COGNOME e COGNOME, si fosse prestato per il clan anche a portare imbasciate dei capi latitanti, ai quali aveva fatto visita, ai due narco-trafficanti COGNOME e COGNOME (che, seppure non intranei al clan, avevano forti legami con i COGNOME), come emergente da conversazioni dell’ottobre-novembre 2015 (riportate e commentate dalla Corte di appello a p. 27 e 28), che, secondo il Tribunale, non si prestano ad una logica lettura alternativa, risultando, dal tenore di dette conversazioni, che agli stessi veniva comunicato, tramite COGNOME, di non assumere alcuna iniziativa e di attendere la scarcerazione di NOME COGNOME, che avrebbe dovuto aiutarli nell’impresa di arginare lo strapotere dei “carrisiani”.
Sottolinea la Corte di appello che da tali conversazioni emerge, inoltre, che COGNOME, alla presenza di COGNOME e COGNOME, partecipava ad una discussione avente ad oggetto i futuri assetti criminali del territorio di Marano.
Rileva come, del resto, nella conversazione tra COGNOME ed COGNOME del 19 .maggio 2016, emerga chiaramente quanto i due contassero sull’uscita dal carcere di
A .
COGNOME, considerato un vero camorrista, per risistemare gli equilibri criminali sul territorio.
Aggiunge il Tribunale che numerose e chiarissime sono le conversazioni tra COGNOME ed il suocero, in cui i due, discutendo degli equilibri criminali a Marano, esprimevano il loro astio nei confronti degli Orlando e più in generale di tutti coloro che si erano allontanati dai Polverino. Conversazioni, che confermano, secondo il primo Giudice, l’organicità di NOME COGNOME al clan COGNOME, atteso che dei dissidi insorti con la fazione opposta aveva interessato NOME COGNOME “o russ”, all’epoca dei fatti ormai organico al clan COGNOME, a cui aveva chiesto di intimare al giovane affiliato NOME COGNOME un comportamento maggiormente rispettoso nei suoi riguardi.
Rileva che la violenza con cui COGNOME si esprime, in questa come in altre conversazioni, rende assolutamente riscontrata la dichiarazione di COGNOME circa la presenza di COGNOME all’atto intimidatorio posto in essere da Marchesano, mediante colpi di arma da fuoco all’indirizzo di NOME COGNOME nel gennaio 2017, rispetto al quale la vicenda della gambizzazione di Marchesano nel marzo 2017 viene spiegata sempre dal collaboratore COGNOME come ritorsione.
Sia la sentenza di primo grado che quella di appello – a p. 26 – valorizzano i dialoghi intrattenuti fra COGNOME e COGNOME e i commenti del primo sul comportamento dei giovani COGNOME, dimostratisi in occasione di un ricevimento nuziale più vicini agli Orlando che ai COGNOME e irrispettosi nei confronti dei coniugi COGNOME (tra cui la sorella di COGNOME), che neanche salutavano.
La sentenza di primo grado rileva’che, come osservato per COGNOME, anche per COGNOME si ritiene che il medesimo rappresenti quella tipologia di associato che, in ragione del suo ruolo imprenditoriale, ha un particolare rapporto con il sodalizio cui aderisce, e che, quindi, può essere escluso dalla tradizionale forma di compenso che l’associazione riconosce ai sodali, venendo il suo interesse personale diversamente soddisfatto. Aggiunge che l’elemento soggettivo del reato – la consapevole volontà di essere parte e di dare il proprio contributo a sodalizio di stampo camorristico – viene desunto dalle visite ai latitanti del clan e dalle conversazioni aventi ad oggetto le dinamiche criminali e il progetto di rilancio del sodalizio, nonché dall’impegno profuso nella ricerca dei fittizi intestari degli immobili degli affiliati.
Osserva che la spiegazione alternativa secondo cui COGNOME ed COGNOME avrebbero lavorato nell’interesse del parente NOME COGNOME non regge a fronte delle ulteriori condotte degli imputati, i quali hanno mostrato di condividere l’adesione al sodalizio mafioso, prestando assistenza ai latitanti e condividendo il confronto
interno sul rilancio del clan. Rileva che COGNOME ha condiviso le visite ai latitanti presso i quali potevano ovviamente recarsi solo affiliati di assoluta fiducia, ha discusso delle problematiche inerenti ai rapporti criminali sia con COGNOME che direttamente con i latitanti e ha tenuto i contatti, incontrandoli, con i narcotrafficant COGNOME e COGNOME.
Si sottolinea, altresì, nella sentenza di appello, a fronte di specifico rilievo difensivo, che non appare dirimente la mancata individuazione dei singoli immobili gestiti dagli imputati COGNOME ed COGNOME, poiché comunque gli stessi svolgevano il ruolo essenziale per il clan di consentire che il patrimonio e dunque il prestigio degli affiliati di spicco fosse incrementato mediante una gestione che garantiva la redditività degli immobili, oltre a garantire al clan la disponibilità di alloggi p sopperire a qualsiasi esigenza.
Tale essendo il percorso argomentativo non manifestamente illogico seguito dai Giudici di merito, le censure difensive che insistono su una gestione immobiliare che non ha mai riguardato la compagine camorristica, sulla non partecipazione di COGNOME alle dinamiche malavitose del clan anche nelle visite ai latitanti, sull’assenza di riscontro alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME circa la presenza di COGNOME all’atto intimidatorio di COGNOME, sulle ragioni personali dell’astio nei confronti di NOME COGNOME e dei figli del latitante NOME COGNOME, si rivelano infondate.
4.2.2. Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso sulla mancata esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, sesto comma, cod. pen.
Si richiamano a tale riguardo le considerazioni sopra svolte con riferimento ad analogo motivo di ricorso proposto nell’interesse di Marchesano.
4.2.3. Resta assorbito il terzo motivo di impugnazione relativo al giudizio di comparazione delle circostanze e al trattamento sanzionatorio.
Al rigetto del ricorso di NOME COGNOME consegue, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestata quanto ai reati di cui ai capi b) e c); nei confronti di COGNOME NOME in ordine anche al diniego delle circostanze attenuanti generiche; nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME nei confronti di COGNOME NOME e di
NOME NOME limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen. contestata al capo a) e rinvia per nuovo giudizio sui predetti
punti ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.
Rigetta nel resto i ricorsi di COGNOME NOMECOGNOME COGNOME
SalvatoreCOGNOME Michele COGNOME NOME.
Rigetta il ricorso di NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2025.