Agevolazione mafiosa: quando l’intervento per fermare un’estorsione è reato
L’agevolazione mafiosa è una delle aggravanti più complesse e delicate del nostro ordinamento penale. Non sempre è facile distinguere tra un’azione mossa da intenti personali e una condotta che, al contrario, finisce per favorire un’associazione criminale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 3193 del 2024, offre un’importante chiave di lettura, stabilendo che anche un intervento volto a fermare un’estorsione può configurare l’aggravante mafiosa se lo scopo ultimo è la tutela del sodalizio criminale. Analizziamo nel dettaglio la vicenda e i principi espressi dalla Suprema Corte.
I fatti del caso
Il caso ha origine da un’ordinanza del Tribunale di Palermo che, in accoglimento di un appello del Pubblico Ministero, applicava a un indagato la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di favoreggiamento personale, aggravato dall’aver agito per agevolare un’associazione mafiosa.
L’indagato era accusato di essere intervenuto per convincere un terzo soggetto a desistere da una pretesa estorsiva. La difesa sosteneva che tale intervento fosse dettato da un rapporto amicale e da un interesse personale, volto a proteggere la vittima dell’estorsione e non a favorire il clan. A supporto di questa tesi, la difesa evidenziava il contenuto di un’intercettazione telefonica da cui emergeva la scarsa stima dell’indagato nei confronti dell’estorsore e l’esiguità della somma richiesta, elementi che, a dire del difensore, escludevano un interesse dell’associazione mafiosa nella vicenda.
La questione dell’agevolazione mafiosa
Il cuore del ricorso per Cassazione verteva proprio sulla sussistenza dell’aggravante di agevolazione mafiosa. La difesa argomentava che l’azione dell’indagato mancasse del cosiddetto quid pluris, ovvero quella consapevolezza e volontà di arrecare un vantaggio concreto all’associazione nel suo complesso. Secondo la tesi difensiva, l’intervento era finalizzato ad aiutare un singolo individuo e non a rafforzare o proteggere il sodalizio criminale.
Il Tribunale di Palermo, riformando la precedente decisione del GIP, aveva invece ritenuto che l’intervento dell’indagato non fosse affatto di natura personale, ma rispondesse a precise logiche di salvaguardia degli interessi del gruppo mafioso. Contro questa decisione, l’indagato proponeva ricorso in Cassazione.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo infondate le doglianze della difesa e confermando l’interpretazione del Tribunale. I giudici hanno sottolineato che la lettura proposta dal ricorrente rappresentava una mera rilettura alternativa degli elementi probatori, inammissibile in sede di legittimità.
Secondo la Suprema Corte, il collegio cautelare aveva correttamente valorizzato alcuni elementi cruciali emersi dall’intercettazione, che svelavano la reale natura dell’intervento:
1. La richiesta di ‘autorizzazione’: L’indagato non agiva di propria iniziativa, ma chiedeva l’autorizzazione a un altro membro del gruppo per poter intervenire nei confronti dell’estorsore. Questo dettaglio, secondo la Corte, è sintomatico di un’azione coordinata e gerarchicamente orientata, tipica delle dinamiche mafiose.
2. Il riferimento a pregresse vicende illecite: Durante la conversazione, i due interlocutori facevano riferimento ad altri ‘imbrogli’ che, se scoperti, avrebbero potuto compromettere la posizione dell’estorsore, facendogli rischiare non solo l’accusa di estorsione, ma anche quella di associazione mafiosa.
3. La finalità di tutela del gruppo: Il vero obiettivo dell’intervento non era aiutare la vittima o l’estorsore, ma evitare che la condotta di quest’ultimo potesse attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e danneggiare l’intero sodalizio. L’azione era quindi ispirata da un’esigenza di salvaguardia del gruppo criminale, inducendo l’affiliato ‘scomodo’ a cessare un’attività potenzialmente pericolosa per tutti.
La Corte evidenzia come queste circostanze dipingano un quadro in cui l’intervento dell’indagato assume una chiara funzione ausiliatrice rispetto al sodalizio di riferimento, trascendendo ampiamente la sfera personale e amicale.
Le conclusioni
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale in materia di agevolazione mafiosa: per valutare la sussistenza dell’aggravante, non bisogna guardare all’apparenza della condotta, ma alla sua funzione oggettiva e allo scopo perseguito dall’agente. Un’azione apparentemente lecita o persino meritoria, come quella di fermare un’estorsione, può integrare l’aggravante se si inserisce in una logica di protezione e consolidamento degli interessi di un’associazione criminale. La richiesta di autorizzazione e la preoccupazione per le conseguenze che un’azione sconsiderata potrebbe avere sul clan sono indizi potenti che rivelano come la vera finalità non sia il bene del singolo, ma la sopravvivenza e la prosperità dell’organizzazione mafiosa.
Quando un intervento per fermare un’estorsione diventa agevolazione mafiosa?
Secondo la sentenza, ciò avviene quando l’intervento non è motivato da ragioni personali, ma dalla necessità di proteggere l’organizzazione criminale. Se l’azione serve a mantenere l’ordine interno del clan o a evitare condotte che potrebbero attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, si configura l’aggravante di agevolazione mafiosa.
Quali prove sono state decisive per confermare l’aggravante?
La Corte ha considerato decisivi elementi come la richiesta di ‘autorizzazione’ da parte dell’indagato a un altro membro del gruppo prima di intervenire, i riferimenti a precedenti attività illecite condivise e la preoccupazione per le conseguenze negative che la condotta dell’estorsore avrebbe potuto causare all’intera associazione.
La scarsa stima personale verso l’autore del reato può escludere l’aggravante?
No. La Corte ha chiarito che i sentimenti personali, come la disistima verso la persona la cui condotta si cerca di correggere, sono irrilevanti. Ciò che conta è la funzione oggettiva dell’intervento, che in questo caso è stata identificata nella salvaguardia degli interessi superiori del sodalizio criminale.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 3193 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 3193 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/12/2023
SENTENZA
Sul ricorso proposto da
IMBURGIA NOME n. a Cerda il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del Tribunale di Palermo in data 28/6/2023
dato atto che si è proceduto a trattazione con contraddittorio cartolare ai sensi dell’art. comma 8, D.L. 137/2020;
visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dalla Consigliera NOME COGNOME;
letta la requisitoria del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata;
lette le conclusioni scritte rassegnate dal difensore, AVV_NOTAIO
RITENUTO IN FATTO
1.Con l’impugnata ordinanza il Tribunale di Palermo, in accoglimento dell’appello proposto dal P.m. avverso l’ordinanza del Gip del locale Tribunale che aveva applicato a COGNOME NOME la misura cautelare degli arresti domiciliari per il delitto di
all’art. 378, comma 2, cod.pen., escludendo l’aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod.pen. riconosceva la sussistenza della circostanza dell’agevolazione mafiosa.
Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’indagato, AVV_NOTAIO, il quale ha dedotto:
2.1 la violazione di legge in relazione all’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod.p Secondo il difensore il collegio cautelare ha errato nel ritenere la sussistenza dell’aggravan dell’agevolazione mafiosa in quanto il contenuto dell’intercettazione tra l’COGNOME e Rizz COGNOME in data 27/1/2022 non consente di ritenere che la condotta estorsiva attribuita al COGNOME per l’assoluta modestia della somma richiesta, rientrasse nel programma e nelle dinamiche dell’associazione mafiosa. Siffatta interlocuzione, volta a far desistere il COGNOME dalla ass pretesa illecita, trova spiegazione nel rapporto amicale esistente tra il COGNOME e il COGNOME ste e dalla captazione emerge la disistima del prevenuto nei confronti del predetto COGNOME e i sostanziale disinteresse del COGNOME per la vicenda. L’intervento dell’indagato, come correttamente ritenuto dal Gip, era inteso a favorire il singolo soggetto e non il sodali criminoso, difettando peraltro il quid pluris costituito dalla consapevolezza dell’agente di agevolare con la propria condotta l’associazione nel suo complesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso non merita accoglimento siccome infondato, per taluni profili ai limi dell’inammissibilità. Infatti, le doglianze difensive fanno leva su una lettura alternativa conversazione intercettata tra l’indagato e COGNOME COGNOME, cui il primo chiede di essere autorizzat ad intervenire sul COGNOME in relazione ad un’estorsione che lo stesso ha in corso.
1.1 Il collegio cautelare ha fornito una lettura degli esiti captativi che appare immune patenti illogicità e mette in luce, contrariamente all’assunto difensivo, una dimensione no esclusivamente personale dell’intervento del prevenuto. Basti por mente alla richiesta di autorizzazione che l’COGNOME rivolgeva al COGNOME al fine di intervenire nei confronti del COGNOME (“prenderlo per un orecchio e dirgli amico mio cerca di ritirarti”), al condiviso riferime pregresse vicende illecite, al suggerimento del COGNOME di quanto l’COGNOME avrebbe dovuto comunicare al COGNOME, facendo cenno a altri due, tre ” imbrogli” che se scoperti potevano complicare la sua situazione facendogli rischiare non solo l’accusa di estorsione ma anche quella associativa.
Il complessivo tenore della conversazione indiziante nella coerente interpretazione fornita dal collegio cautelare evidenzia che il condiviso tentativo di indurre il COGNOME ad abbandonar il piano estorsivo non era ispirato da personali intenti amicali dell’indagato ma sotteso esigenze di salvaguardia del gruppo criminale mafioso, come emerge dall’informativa effettuata al COGNOME sulla condotta del COGNOME, dalla richiesta di” autorizzazione” ad interven dall’esplicito riferimento del COGNOME stesso alle conseguenze cui si sarebbe trovato esposto i
COGNOME in caso di denunzia della condotta estorsiva, circostanze che evocano specifiche dinamiche relazionali di natura mafiosa e lumeggiano la fattispecie contestata, evidenziandone la funzione ausiliatrice rispetto al sodalizio di riferimento.
Alla luce delle considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, 15 Dicembre 2023
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La Consigliera estensore
Il Presidente