Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20090 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20090 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a SAN GIOVANNI ROTONDO il 24/12/1993 il avverso l’ordinanza del 23/12/2024 del TRIB. LIBERTA di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
lette le conclusioni del PG COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la nota di deposito dei documenti prodotti dalla difesa dell’imputato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bari, quale giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza emessa il 02/12/2024 dal GIP presso lo stesso Tribunale nei confronti di NOME COGNOME sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere, in quanto gravemente indiziato: 1) in ordine al reato previsto dagli artt. 110, 81 cpv., 378, comma 1, 390 e 416b1s.1 cod.pen., in concorso con NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME; 2) in ordine al reato previsto dagli artt. 110, 81 cpv., 61bis e 416-bis.1 cod.pen. e 73, commi 1 e 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il Tribunale ha preliminarmente descritto il ruolo di NOME COGNOME quale capo dell’omonima compagine criminale operante nel territorio di Vieste e fatto riferimento all’attività di indagine svolta dopo la sua evasione dal carcere di Nuoro.
Ha quindi elencato i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato contestato al capo 1), in relazione all’attività di ausilio prestata in favore del COGNOME durante il suo periodo di latitanza, nonché in ordine a quello contestato al capo 2), perfezionato per effetto dell’importazione dalla Spagna di due pacchi contenenti ingenti quantità di hashish e marijuana e dei quali il ricorrente era stato indicato come destinatario dai due collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME rilevando che la difesa aveva proposto istanza di riesame senza sollevare alcun profilo di contestazione in ordine alla gravità indiziaria, ma in solo riferimento all’aggravante prevista dall’art.416bis.1 cod.pen..
Ha quindi ritenuto condivisibile l’affermazione del GIP procedente, n base alla quale sarebbe stata configurabile l’aggravante prevista dall’art.416b1s.1 cod.pen., sub specie di quella perfezionata dalla finalità agevolatrice di un sodalizio mafioso; nella specie, intervenuta per effetto dell’ausilio prestato nei confronti di un capoclan operante nel medesimo ambito territoriale e della quale era diffusa la specifica notorietà; ritenendo che, dagli atti di indagine richiamati nell’ordinanza gravata, emergessero sia l’esistenza del sodalizio quanto il ruolo di comando ivi svolto dal COGNOME; elementi, in particolare, emergenti tanto dalle dichiarazioni rese dai numerosi collaboratori di giustizia quanto dagli atti depositati nei procedimenti ivi richiamati e attinenti alle vicende riguardanti la criminalità organizzata nel territorio garganico.
Ha altresì ritenuto sussistente le esigenze cautelari e adeguata la sola misura di massimo rigore, in ragione della presunzione dettata dall’art.275, comma 3, cod.pen., in ordine alla quale non sussistevano elementi idonei a ritenere l’assenza delle medesime ovvero l’idoneità di altre misure in punto di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, anche per effetto del negativo giudizio sulla personalità dell’indagato, come confermato dalle connotazioni del fatto ascritto nonché dai numerosi precedenti dai quali lo stesso risultava gravato.
Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME tramite il proprio difensore, articolando due motivi di impugnazione.
Con il primo motivo ha dedotto – ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e), cod.proc.pen. – la violazione dell’art.273, cod.proc.pen. in ordine alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.416bis.1 cod.pen., e la manifesta illogicità della motivazione sul punto.
Ha contestato la motivazione dell’ordinanza eg ravata, nel punto in cui aveva ritenuto esistente l’associazione mafiosa ivi richiamata esponendo che in nessun procedimento giudiziario era stata riconosciuta la sussistenza del sodalizio ma solo di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Con il secondo motivo ha dedotto – ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e), cod.proc.pen. – la violazione dell’art.274, lett.c), cod.proc.pen., e la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione sul punto.
Ha dedotto, riportandosi alle argomentazioni svolte in ordine al precedente motivo, che l’associazione mafiosa, anche qualora ritenuta sussistente, doveva intendersi ormai venuta meno alla luce del pentimento dei suoi maggiori componenti; esponeva che l’ultimo precedente rilevante dell’indagato era risalente nel tempo e che, di conseguenza, il pericolo di recidivanza non era più connotato dai requisiti della concretezza e dell’attualità; esponendo che le esigenze cautelari ben avrebbero potuto essere soddisfatte mediante la misura degli arresti domiciliari.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il difensore del ricorrente ha prodotto una nota di deposito, con allegati alcuni verbali contenenti la manifestazione della volontà di alcuni esponenti del suddetto sodalizio di volere collaborare con la giustizia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Va ttiatnati premesso che questa Corte è ferma nel ritenere che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione con il quale si lamenti l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone e sviluppa censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, ovvero che si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, Lupo, Rv. 252178); rilevando che, nel caso in cui si censuri la motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziarlo a carico dell’indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Rv. 255460; Sez. 4, n. 37878 del 6/7/2007, COGNOME, Rv. 237475); spettando dunque a questa Corte di legittimità il solo compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi del diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il controllo di logicità, peraltro, deve rimanere interno al provvedimento impugnato, non essendo possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate; in altri termini, è consentito in questa sede esclusivamente verificare se le argomentazioni spese sono congrue rispetto al fine giustificativo del provvedimento impugnato; se, cioè, in quest’ultimo, siano o meno presenti due requisiti, l’uno di carattere positivo e l’altro negativo, e cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente
significative su cui si fonda e l’assenza di illogicità evidenti, risultanti cioè prima facie dal testo del provvedimento impugnato.
Ciò posto, il primo motivo, inerente alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.416bis.1 cod.pen., è inammissibile, in quanto manifestamente infondato.
Va premesso che questa Corte ha rilevato che, in tema di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso, la circostanza aggravante già prevista dall’artt del d.l. 13 maggio 1991, n.152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n.203 (e ora regolata, dall’art.416bis.1 cod.pen.) ha natura soggettiva e richiede per la sua configurazione il dolo specifico di favorire l’associazione, con la conseguenza che questo fine deve essere l’obiettivo “diretto” della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, né il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all’effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente del capomafia con quelli dell’organizzazione (Sez. 6, n. 31874 del 09/05/2017, COGNOME, Rv. 270590), sussistendo quindi l’aggravante a condizione che l’imputato abbia conosciuto e fatta propria la finalità di agevolare l’associazione stessa (Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, COGNOME, Rv. 274685; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 276150).
Mentre, in relazione specifica alla fattispecie – quale quella contestata nel caso di specie – di favoreggiamento personale, questa Corte ha rilevato che è configurabile l’aggravante dell’agevolazione mafiosa nella condotta di chi consapevolmente aiuti a sottrarsi alle ricerche dell’autorità un capoclan operante in un ambito territoriale in cui è diffusa la sua notorietà, atteso che la stessa, sotto il profilo oggettivo, si concretizza in un ausilio al sodalizio, la cui operatività sarebbe compromessa dall’arresto del vertice associativo, determinando un rafforzamento del suo potere oltre che di quello del soggetto favoreggiato e, sotto quello soggettivo, in quanto consapevolmente prestata in favore del capo riconosciuto, risulta sorretta dall’intenzione di favorire anche l’associazione (Sez. 6, n.23241 del 11/02/2021, COGNOME, Rv. 281522 – 02).
Nel caso di specie, il Tribunale – con motivazione congrua e immune dalla sollevata censura di illogicità – ha rilevato come l’esistenza del clan mafioso COGNOME/COGNOME fosse stata attestata da numerosi collaboratori di giustizia (provenienti dalle file del medesimo) in altri procedimenti, che ne avevano esposto il radicamento nel territorio oltre che la ragioni di contrapposizione con l’altro sodalizio facente capo ai COGNOME,
per il controllo dell’area garganica; richiamando altresì gli esiti di indagini acquisiti in altri procedimenti.
Affermazioni in ordine alle quali l’unica argomentazione difensiva, consistek nella contestazione in ordine all’attuale esistenza del sodalizio, è stata operata mediante contestazioni meramente apodittiche e autoevidenti e in nessun modo idonee a contrapporsi agli specifici elementi richiamati dal Tribunale.
Rilevando, altresì, che la deduzione difensiva in base alla quale il COGNOME sarebbe stato condannato solo per violazione dell’art. 74 d.P.R. 309/90 non risulta idonea a smentire le considerazioni predette, anche sulla base del fatto che – come riportato nell’esposizione del motivo – in tale sede era stata comunque riconosciuta l’aggravante di cui all’art.416bis.1 cod.pen..
4. Anche il secondo motivo di impugnazione, attinente alla sussistenza delle esigenze cautelari, è inammissibile in quanto, per un verso, manifestamente infondato e, dall’altro, del tutto aspecifico.
In relazione al profilo attinente al merito delle esigenze cautelari va osservato che, per effetto della contestazione della predetta aggravante e per effetto del richiamo all’art.51, comma 3bis, cod.proc.pen., vige in materia la c.d. doppia presunzione dettata dall’art.275, comma 3, cod.proc.pen., il quale prevede che – quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati elencati nell’articolo predetto (tra cui rientra quello contestato nella presente sede) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Rilevando quindi che il giudice che ritenga non vinta tale presunzione può limitarsi a dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a superarla, dovendo fornire specifica motivazione soltanto quando la difesa abbia evidenziato circostanze idonee a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari e/o abbia dedotto l’esistenza di elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere tutelate con misure diverse (Sez. 3, n. 48706 del 25/11/2015, J.A., Rv. 266029); fatta salva la possibilità, in capo al giudice procedente, di considerare l’eventuale elemento temporale, ove si verta nel caso di un rilevante arco privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, del codice di rito (da ultima, Sez. 3, n. 13129 del 18/02/2025, Memoli).
5. Nel caso di specie, il Tribunale ha specificamente dato atto della mancata allegazione – da parte della difesa – di elementi idonei a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della sola misura maggiormente afflittiva, aggiungendo comunque – a rafforzamento della doppia presunzione prevista ex lege come dagli atti emergesse la sussistenza di un quadro cautelare particolarmente pregnante, data la prova dello stabile inserimento del ricorrente nel contesto associativo e la sussistenza di precedenti penali, anche specifici.
A fronte di tale valutazione, il ricorrente si è quindi limitato a dedurre la considerazione – già esposta in sede di primo motivo – derivante dalla dedotta non permanente operatività dell’associazione nonché a richiamare in modo del tutto generico la risalenza dei suddetti precedenti, non fornendo quindi elementi idonei – sulla base della congrua e coerente valutazione del Tribunale – a superare la suddetta presunzione.
A tale proposito, deve ricordarsi che l’apprezzamento della pericolosità dell’indagato sottoposto alla misura coercitiva è un giudizio riservato al giudice di merito, incensurabile nel giudizio di legittimità, se – come nel caso di specie – congruamente e logicamente motivato con specifico riferimento alla prognosi negativa in ordine all’attitudine dell’indagato medesimo all’effettivo rispetto delle prescrizioni connesse all’applicazione di una misura ulteriormente più gradata (sez.6, n. 53026 del 21/11/2017, COGNOME, RV. 271686; sez.3, n.7268 del 24/1/2019, COGNOME, RV. 275851).
6. Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Va dato mandato alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art,94, comma iter, disp.att., cod.proc.pen..
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso il 16 maggio 2025
Il Consigliere estensore sidente