Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6722 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6722 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/12/2024
SENTENZA
sui ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nata a Caserta il 26/07/1976
avverso la sentenza del 27/02/2024 della Corte di appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME con atto del proprio difensore, impugna la sentenza in epigrafe indicata, che ne ha confermato la condanna per il delitto di cui agli artt. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, e 7, d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis.1, cod. peri.), per aver detenuto, unitamente al proprio compagno NOME COGNOME, quantità imprecisate di sostanza stupefacente del tipo cocaina, destinata alla cessione a terzi, agendo al fine di agevolare l’attività del clan di “camorra” facente
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capo alla famiglia COGNOME ed operante nella provincia di Caserta, al quale COGNOME apparteneva.
In tre distinti motivi, il ricorso denuncia violazione di legge e vizi di motivazione sui seguenti capi e punti della sentenza impugnata.
2.1. Riconoscimento dell’aggravante della finalità agevolativa mafiosa.
La Corte d’appello avrebbe operato un’acritica assimilazione dell’imputata al proprio compagno, sulla base del semplice rapporto sentimentale esistente tra loro, non valutando autonomamente le evidenze specificamente relative alla sua posizione.
Diversamente da quanto ritenuto in sentenza per effetto di un travisamento, le risultanze probatorie ivi valorizzate non presenterebbero alcuna capacità dimostrativa della finalità agevolativa mafiosa asseritamente perseguita dall’imputata con la propria attività di spaccio di stupefacenti.
Infatti, dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME emerge che questi non ha mai ceduto droga all’imputata, bensì solo al suo compagno; che ella ha frequentato la sua casa, ma solo per occasioni conviviali e per l’amicizia nata con sua moglie; che la famiglia COGNOME vantava assoluta libertà nello svolgimento dell’attività di “spaccio”, non essendo nemmeno obbligata a rifornirsi da lui né a riversargli i ricavi. In termini analoghi si è poi espressa anche la moglie di COGNOME, NOME COGNOME ed il collaborante COGNOME ha riferito che sovente la COGNOME effettuava cessioni anche in assenza del proprio compagno. Infine, dalle conversazioni intercettate si evince che detta attività illecita fosse da lei svolta ad esclusivo scopo di profitto personale, mentre nulla emerge sull’eventuale sua appartenenza al medesimo contesto associativo del proprio compagno.
2.2. Esclusione dell’ipotesi lieve, di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990.
La sentenza – si deduce – valorizza il dato quantitativo delle cessioni che COGNOME ha riferito di aver effettuato, tuttavia a Petronzi e non alla COGNOME, invece mai presente ad esse od altrimenti direttamente coinvolta nelle stesse; inoltre, dà rilievo ai dato temporale riferito dal collaborante COGNOME senza però considerare l’assenza di risultanze certe sulla quantità e qualità delle sostanze commerciate.
2.3. Riconoscimento di attenuanti generiche e commisurazione della pena.
Sui punto, si lamenta che la sentenza avrebbe omesso di dare il giusto rilievo all’incensuratezza della ricorrente, al suo ruolo marginale, all’occasionalità delle sue condotte ed alla lontananza delle stesse nel tempo.
Ha depositato memoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è per lo meno infondato.
Giova ricordare che – come compiutamente spiegato dalle Sezioni unite di questa Corte – la circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva, inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia comunque consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Rv. 278734).
Considerando, dunque, io strettissimo rapporto della ricorrente con COGNOME, non soltanto di natura sentimentale ma anche di costante collaborazione nell’attività illecita, nonché la comune militanza mafiosa e le stabili relazioni d’affari tra quegli e COGNOME, ed ancora le non episodiche frequentazioni personali di lei con lo stesso COGNOME e con la moglie di questi, si rivela indiscutibilmente lineare, sul piano logico, la deduzione dei giudici d’appello, fondata su tali evidenze, per cui la COGNOME fosse quanto meno pienamente consapevole del fatto che il commercio di stupefacenti gestito dal proprio compagno con la sua collaborazione s’inquadrasse nell’attività criminale dell’associazione mafiosa e, dunque, fosse funzionale all’operatività di tale sodalizio.
Né può rilevare, al fine di escludere la fattispecie circostanziale in esame, il fatto, pur probabile, che ella abbia agito per un concomitante scopo di lucro personale, trattandosi di finalità tra loro sicuramente compatibili (in questo senso, Sez. U, n. 8545/2019, COGNOME, cit., ma già prima, tra altre, Sez. 5, n. 11101 dei 04/02/2015, COGNOME, Rv. 262713; Sez. 6, n. 29311 del 03/12/2014, dep. 2015, COGNOME Rv. 264082).
La seconda doglianza, relativa all’omessa riqualificazione dei fatti nell’ipotesi lieve, è inammissibile, perché manifestamente infondata.
Essa si fonda essenzialmente sull’asserita diversità della posizione della ricorrente rispetto a quella del proprio compagno: diversità che, tuttavia, è puramente speciosa, una volta accertata la collaborazione stretta, costante e perdurante per anni, da lei prestata all’altro nell’esercizio dell’attività di “spaccio” peraltro all’interno di un contesto criminale di tipo mafioso.
E superfluo ricordare, quindi, che la fattispecie prevista e punita dall’art. 73, comma 5, d.RR. n. 309 del 1990, può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta (per tutte, Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668), nulla però adducendo in tal senso il ricorso.
Il terzo motivo è inammissibile in quanto aspecifico e di puro merito.
In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133, cod. pen., da esso considerati preponderanti, e non si presenti quale frutto di mero arbitrio o di ragionamento del tutto illogico, contraddittorio od immotivato (tra molte altre: Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, S., Rv. 269196; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 265826; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
Ed altrettanto vale per la determinazione della pena, essendo necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando quella sia di gran lunga superiore al medio edittale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259142).
E sufficiente osservare, allora, che la sentenza impugnata ha offerto una specifica spiegazione sul punto, dando rilievo ad aspetti indubbiamente qualificanti, come la pluralità degli episodi, l’intensità e la protrazione per lungo tempo dell’attività illecita; di contro, la doglianza difensiva si risolve nella semplice enumerazione di aspetti generici di cui si lamenta la mancata considerazione, diversi dei quali, peraltro, non rispondenti alle risultanze processuali illustrate in sentenza (ruolo marginale, occasionalità delle condotte).
A questo aggiungasi che la pena-base è stata contenuta nel minimo, con un aumento per continuazione di soli otto mesi di reclusione, a fronte di numerosissimi episodi.
Al rigetto del ricorso segue obbligatoriamente la condanna al pagamento delle spese di giudizio (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, I’ll dicembre 2024.