Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 16107 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 16107 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a FOGGIA il 15/05/1991
avverso la sentenza del 25/11/2024 della CORTE APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso udito il difensore presente, avvocato COGNOME del foro di FOGGIA, che, riportandosi ai motivi di ricorso, ne ha chiesto raccoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 25 novembre 2024, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza pronunciata in data 11 dicembre 2023 – all’esito di giudizio abbreviato – dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Bari con la quale NOME COGNOME è stato condannato alla pena di anni otto di reclusione ed C 40.000 di multa (determinata all’esito della riduzione di pena di cui all’art. 442 cod. proc. pen.) perché ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 73, comma 1 bis, d.P.R 9 ottobre 1990 n. 309, aggravato ai sensi dell’art. 416 bis.1 cod. pen., dell’art. 99, comma 4, cod. pen. e dell’art. 73, comma 6 , . d.P.R. n. 309/90. In particolare, NOME COGNOME è stato ritenuto responsabile, in concorso col fratello NOME COGNOME, col cugino NOME COGNOME – e con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME – dell’acquisto e della detenzione a fini di spaccio di quasi cento grammi di cocaina.
Secondo l’ipotesi accusatoria, NOME COGNOME e NOME COGNOME (detenuti a Temi), si procurarono telefoni cellulari e, utilizzandoli dal carcere, contattarono NOME COGNOME pianificando con lui più approvvigionamenti di cocaina che avrebbe dovuto essere smerciata nel territorio garganico con l’aiuto di NOME COGNOME e di NOME COGNOME. NOME COGNOME, infatti, si trovava ristretto agli arresti domiciliari e, per questo, aveva bisogno di collaborazione per ritirare la sostanza e venderla. Era parte del progetto anche NOME COGNOME (detenuto nel carcere di Lanciano) e l’accordo si concretizzò in una fornitura di gr. 99,415 di cocaina che fu ritirata da NOME COGNOME per conto dei fratelli COGNOME. L’attività programmata non poté realizzarsi perché le utenze cellulari utilizzate per l’accordo erano state intercettate e, il 4 marzo 2021, dopo aver ritirato la sostanza, NOME COGNOME fu tratto in arresto.
Agli imputati – e, per quanto rileva in questa sede, a NOME COGNOME – è stata contestata l’aggravante di cui all’art. 416 bís.1 cod. pen. per aver commesso il fatto al fine di «agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata convenzionalmente “clan COGNOMECOGNOME” / permettendone di fatto l’operatività malgrado lo stato detentivo dei suoi vertici» e, in particolare, consentendo a costoro «di continuare a mantenere il controllo sul settore criminale del narcotraffico nel territorio di Vieste e beneficiare dei relativi introiti».
Contro la sentenza della Corte di appello il difensore di fiducia di NOME COGNOME ha proposto tempestivo ricorso.
2.1. Col primo motivo, il difensore deduce violazione di legge e vizi di motivazione per essere stata ritenuta l’ainravante di cui all’art. 416 bís.1 cod. t -t pen. e sostiene che la Corte di appello siMlimitata a valorizzare i precedenti penali dell’imputato e i suoi contatti con i membri del presunto clan “Li Bergolis” senza
spiegare da quali elementi sarebbe possibile dedurre che COGNOME RAGIONE_SOCIALE, 0′ al fine di favorire l’intero sodalizio. Secondo la difesa, dal contenuto delle conversazioni intercorse tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME emerge che COGNOME agiva quale spacciatore in proprio senza essere legato al clan. Vi sono, inoltre, sentenze passate in giudicato (alla luce delle quali devono essere valutate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia) che indicano in NOME COGNOME un soggetto «a disposizione di gruppi criminali contrapposti al clan “RAGIONE_SOCIALE“». In specie, lo individuano quale partecipe di una associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309/90 che faceva capo a NOME COGNOME e si contendeva la piazza di spaccio di Vieste con altra associazione, facente capo a NOME COGNOME, della quale faceva parte NOME COGNOME (pag. 5 e 6 dell’atto di ricorso). Secondo la difesà si tratta di fatti stori rilevanti ai fini che qui interessano perché attestano che, prima del 2021, NOME COGNOME non si era mai schierato col gruppo del quale faceva parte COGNOME e, dunque, non necessariamente condivideva con i concorrenti il fine di agevolare il clan “Li COGNOMERAGIONE_SOCIALEMiucci”. In tesi difensiva, a ciò deve aggiungersi che l’argomentazione sviluppata dai giudici di merito, secondo la quale i proventi dello spaccio sarebbero stati destinati al clan e al mantenimento dei parenti di un affiliato deceduto, sarebbe priva di pregio e meramente apodittica. Questa destinazione, infatti, fu concordata in una conversazione intercorsa tra NOME COGNOME e NOME COGNOME ma nulla prova che NOME COGNOME fosse consapevole di questo accordo e degli scopi perseguiti dai concorrenti.
2.2. Col secondo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione riguardo al ·/-1 trattamento sanzionatorio. Sostiene che all’imputato GLYPH stata inflitta una pena eccessiva (superiore a quella richiesta dal rappresentante della Pubblica accusa) / senza tenere conto «della marginalità» del suo ruolo. Si duole, inoltre, che sia stato operato l’aumento per recidiva senza compiere una valutazione approfondita della concreta pericolosità dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.
Si deve premettere che, per giurisprudenza consolidata, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, essendo assegnato alla Corte di cassazione il compito di riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, ma non essendole attribuita la possibilità di spingersi a verificare il significato probatorio delle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074). I limiti del sindacato della Corte non sono mutati neppure dopo che la legge 20 febbraio 2006, n. 46 ha modificato
l’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. Ancora oggi, infatti, il sindacato del giudice di legittimità sul provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia sia “effettiva” e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustiv dal ricorrente nei motivi del suo ricorso) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. In altri termini, alla Corte di cassazion non è consentita una rinnovata valutazione dei fatti, finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi e più convincenti rispetto a quelli fatti propri dal giudice del merito. Non è consentito, inoltre, che, attraverso il richiamo agli “atti del processo”, possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito (tra le tante: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME Rv. 273217).
Corollario di tale pacifico approccio è il principio – di rilievo nel present procedimento, nel quale le prove sono costituite in larga parte da captazioni di conversazioni – secondo cui, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
A ciò deve aggiungersi che, quando i giudici del gravame esaminano le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operano frequenti riferimenti ai passaggi logico-giuridici della prima sentenza, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, ai fini del controllo ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado per formare un unico complessivo corpo argomentativo e proprio questo è avvenuto nel caso di specie (sull’argomento, fra le tante: Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
I giudici di primo e secondo grado hanno diffusamente argomentato sull’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.
Hanno osservato infatti:
-che l’esistenza – e la persistente operatività – della associazione a delinquere di tipo mafioso denominata «clan COGNOME–COGNOME» è stata accertata con sentenze definitive;
che, all’epoca dei fatti, NOME COGNOME e NOME COGNOME erano organici al clan, nel quale, col tempo (in particolare dopo l’arresto di NOME COGNOME), COGNOME aveva assunto una posizione dominante;
-che in tal senso si sono espressi numerosi collaboratori di giustizia di provata attendibilità.
Dalla sentenza di primo grado emerge (pagg. 22 e 23 della motivazione): che il collaboratore di giustizia NOME COGNOME ha riferito «in merito all’operatività del “clan Li Bergolis”, con particolare riferimento alle attività di spaccio di stupefacenti del tipo cocaina, indicando espressamente tra gli appartenenti» NOME COGNOME e NOME COGNOME; che un altro collaboratore, NOME Pietro COGNOME (conformemente a COGNOME) ha reso dichiarazioni «in merito all’operatività del “clan Li Bergolis” con particolare riferimento alle attività di spaccio di stupefacenti, indicando espressamente tra gli appartenenti il COGNOME e i cugini COGNOME, tra cui NOME». Il collaboratore NOME COGNOME inoltre, ha riferito del ruolo di vertice ricoperto da NOME COGNOME «nipote di NOME COGNOME, nell’ambito del “clan COGNOME“, confermando la sua dedizione all’attività di spaccio di sostanze stupefacenti in area garganica (“Il capo è NOME NOME…Poi dagli arresti dei suoi cugini (n.d.r. NOME COGNOME NOME, NOME e NOME) ha preso lui il posto , dalla morte dello zio…. So che NOME aveva molti rapporti in Calabria per la droga…Cocaina…”)» (così, testualmente, pag. 26 della sentenza di primo grado).
Secondo i giudici di merito, l’insieme di questi elementi dimostra l’esistenza di un sodalizio di tipo mafioso che ha tratto vantaggio dalla fornitura di stupefacente della quale COGNOME è imputato. Il difensore del ricorrente non contesta queste conclusioni. Non sostiene, infatti, che COGNOME, COGNOME e COGNOME non avessero lo scopo di consentire al clan di continuare ad operare e mantenere il controllo del narcotraffico nel territorio di Vieste y beneficiando dei relativi introiti; sostiene, invece, che questo scopo non era necessariamente condiviso da NOME COGNOME e nulla prova che lo fosse.
Secondo la difesa, contrastano con l’ipotesi accusatoria: l’esito del processo denominato «Neve di Marzo», nel quale NOME COGNOME è stato condannato quale partecipe di una associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309/90, facente capo a NOME COGNOME, contrapposta ad altra, della quale faceva parte NOME COGNOME che operava in sinergia col “clan Li Bergolis COGNOME“; una conversazione telefonica nella quale COGNOME chiese a COGNOME «2-3 mesi di tempo», seguita da un’altra nella quale
COGNOME incaricò NOME COGNOME di sistemarlo (conversazione dalla quale emergerebbe che COGNOME voleva lavorare in proprio e COGNOME voleva evitare la situazione di stallo che egli avrebbe creato prendendo tempo); la constatazione che COGNOME non prese parte alla conversazione del 9 febbraio 2021, nella quale COGNOME e COGNOME decisero la spartizione dei proventi dello spaccio destinandone una quota alla vedova di NOME COGNOME (RIT.33/2021 progressivo n. 143 pag 8 e pag. 28 della sentenza di primo grado).
Così argomentando, la difesa reitera doglianze già formulate nei motivi di appello che hanno ricevuto risposta nella sentenza impugnata.
Secondo la Corte di appello (pag. 9 e pag. 10 della motivazione):
la completa disponibilità di NOME COGNOME rispetto al sodalizio criminale retto da COGNOME è resa evidente da una conversazione nella quale COGNOME manifesta la volontà di riprendere, entro la stagione estiva, l’attività di spaccio sulla piazza di Vieste e COGNOME si dichiara disponibile a fare un po’ di tutto per il gruppo («che vuoi da me? Io faccio di tutto, tu lo sai, avvocato, infannoni, cioè hai capito?»);
a COGNOME e agli altri detenuti era noto che, per qualche tempo, COGNOME non avrebbe potuto operare in via esclusiva per loro perché era soggetto alle pressioni provenienti da altri gruppi criminali locali e, tuttavia, dalle conversazioni intercettate è emerso che l’odierno ricorrente manifestò la volontà di consolidare una collaborazione esclusiva sistemando le cose proprio grazie all’aiuto del clan;
la conversazione telefonica nella quale COGNOME chiese a COGNOME «2-3 mesi di tempo» e quella successiva con la quale COGNOME chiese a NOME COGNOME di andare a sistemare, non possono essere interpretate nel senso indicato dalla difesa; ne emerge, infatti, che COGNOME incaricò COGNOME (uomo del clan) di aiutare COGNOME a «”sistemare” la piazza di spaccio allontanando la concorrenza degli altri gruppi criminali e “accompagnandolo” nelle attività necessarie» (pag. 10 della sentenza impugnata).
Il ricorso non si confronta con queste argomentazioni. Invoca dunque una inammissibile considerazione alternativa del compendio probatorio e una rivisitazione del potere discrezionale riservato al giudice di merito in punto di valutazione della prova.
A queste considerazioni si deve aggiungere che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sentenza n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734-01), «La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe».
I giudici di merito hanno fatto buon governo di questo principio di diritto e hanno ampiamente motivato sulle ragioni per le quali NOME COGNOME era consapevole degli scopi perseguiti da COGNOME e COGNOME.
Hanno evidenziato a tal fine (pag. 28 della sentenza di primo grado; pag. 6 della sentenza impugnata):
che COGNOME si interfacciava con soggetti detenuti in strutture penitenziarie avvalendosi di utenze “dedicate”;
che queste utenze erano state significativamente procurate proprio da quei soggetti, il cui calibro criminale era dunque evidente; come era evidente che i detenuti disponevano di una rete di contatti esterna al carcere;
che «la natura stessa dell’operazione pianificata, inserita nell’ambito di un durevole progetto per la fornitura continua di stupefacente», rendeva palese che quella operazione era destinata a favorire gli interessi «di una più ampia consorteria»;
che i procedimenti giudiziari nei quali NOME COGNOME è stato coinvolto costituiscono un fatto storico idoneo a dimostrare «la piena coscienza da parte del prevenuto delle dinamiche criminali di contrapposizione tra gruppi operanti nel territorio garganico» e del ruolo svolto da COGNOME e COGNOME nel clan “Li BergolisMiucci”.
Si tratta di argomentazioni congrue, scevre da profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Come è stato opportunamente sottolineato, infatti, l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. non si comunica al compartecipe nel reato sol perché consapevole dell’esistenza e dell’operatività di un’organizzazione sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 416 bis cod. pen. e dell’appartenenza ad essa dei concorrenti; ma tale effetto si produce se il compartecipe è consapevole della finalità perseguita dai concorrenti di agevolare il sodalizio mafioso (Sez. 3, n. 32126 del 18/04/2023, COGNOME, Rv. 284902). È stato sottolineato in tal senso che l’aggravante colpisce «la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all’agevolazione» e per questo «è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo». (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, già citata, pagg. 14 della motivazione).
Nel caso di specie, i giudici di merito hanno ritenuto che COGNOME abbia avuto t tale consapevolezza M4Iò non si possa ragionevolmente dubitar .at eso che egli si accordò con persone detenute per la realizzazione di un «progetto a lungo
termine» funzionale al controllo di una piazza di spaccio che era già stata oggetto di una sanguinosa faida tra clan rivali.
A questo proposito è opportuno ricordare che la consapevolezza di favorire la associazione non esclude che l’interessato persegua finalità di vantaggio personali, se queste finalità possono coniugarsi con l’esigenza di agevolazione (così, in motivazione, Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, già citata) e che, secondo i giudici di merito, nel caso oggetto del presente ricorso avvenne proprio questo. La sentenza impugnata riferisce, infatti (pag. 10), che NOME COGNOME poté ottenere a credito la fornitura della cocaina che è stata sequestrata grazie all’intervento di COGNOME e questi chiese a NOME COGNOME (affiliato al clan) di aiutare COGNOME a sistemare la piazza di spaccio di Vieste.
Non ha alcun pregio il secondo motivo col quale il ricorrente si duole che la pena detentiva sia stata determinata in misura eccessiva e sostiene che i giudici di merito non avrebbero fornito adeguata giustificazione delle scelte relative al trattamento sanzionatorio.
Più in dettaglio, la difesa del ricorrente si duole che il Giudice di primo grado e la Corte di appello non abbiano tenuto conto della «marginalità del ruolo» svolto da NOME COGNOME e sostiene che i giudici di merito avrebbero applicato la recidiva «in modo automatico, senza una valutazione approfondita della pericolosità concreta dell’imputato».
La prima doglianza è assertiva e generica: il difensore non spiega perché il ruolo svolto dal ricorrente dovrebbe essere valutato marginale e trascura che, secondo i giudici di merito, COGNOME fu chiamato a collaborare con persone detenute per la gestione dello spaccio nel territorio di Vieste. Svolse, dunque, un ruolo non secondario nell’acquisto di una quantità significativa di cocaina (quasi cento grammi); sostanza che fu rivenuta nella disponibilità di NOME COGNOME, incaricato di ritirarla proprio da NOME e NOME COGNOME. A ciò deve aggiungersi che, nel determinare il trattamento sanzionatorio, il Giudice di primo grado è partito da una pena base di anni sei di reclusione ed C 30.000 di multa, prossima ai minimi previsti dall’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/90.
Per quanto riguarda l’applicazione della recidiva – che sarebbe avvenuta in modo automatico e senza una valutazione approfondita – si deve osservare che, nel motivare la decisione di applicare questa aggravante soggettiva, il Giudice di primo grado non si è limitato a richiamare i precedenti. Ha sottolineato, infatti, che le condanne riportate da COGNOME riguardano reati della stessa indole e ha osservato che la aggravante di cui all’art. 416 bis.1 (ritenuta sussistente nel presente procedimento) è segno di una «progressione criminosa» che induce a considerare la recidiva quale indice di una più accentuata colpevolezza e di una
maggiore pericolosità. La Corte di appello ha condiviso tale valutazione e sottolineato che l’aumento per recidiva è stato operato entro i limiti pre
dall’art. 63, comma 4, cod. pen. essendo stata valutata più grave tra le contes aggravanti ad effetto speciale quella prevista dall’art. 416
bis.1
cod. pen.
In sintesi, i giudici di merito hanno applicato l’aggravante di cui all’a comma 4, cod. pen. (aumentando la pena in misura non superiore ad un terzo
come previsto dall’art. 63, comma 4, cod. pen.) perché hanno ritenuto che l condotte oggetto del presente procedimento costituissero la prosecuzione di u
processo delinquenziale avviato di cui vi era traccia nelle precedenti condanne una motivazione siffatta non può essere considerata carente o contraddittoria
manifestamente illogica.
7. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Cort
costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elemen per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione de
causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell’art. cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Ca delle ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento del spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa del ammende.
Così deciso il 13 marzo 2025