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Agevolazione mafiosa: la Cassazione e la falsa testimonianza

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una donna accusata di falsa testimonianza con l’aggravante di agevolazione mafiosa. La Corte ha stabilito che la consapevolezza di aiutare un clan e la volontà di farlo possono essere desunte da elementi concreti, come la conoscenza dei legami criminali del proprio coniuge e la partecipazione a conversazioni relative alle attività illecite. La sentenza conferma l’orientamento secondo cui, per l’agevolazione mafiosa, è sufficiente il dolo specifico di favorire l’associazione, anche se si agisce per aiutare un singolo affiliato. È stata inoltre confermata la misura della custodia cautelare in carcere, in virtù della presunzione di pericolosità legata a tale aggravante.

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Pubblicato il 7 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Agevolazione mafiosa: la Cassazione sulla prova della falsa testimonianza

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29661/2025, torna a pronunciarsi sulla delicata questione dell’agevolazione mafiosa, specificando i criteri per ritenerla sussistente nel caso di una falsa testimonianza. La decisione offre importanti chiarimenti su come la consapevolezza di favorire un clan criminale possa essere provata, anche in assenza di un legame diretto dell’autore del reato con l’associazione.

I Fatti del Caso: La Falsa Testimonianza a Favore del Clan

Il caso riguarda una donna indagata per il reato di falsa testimonianza, aggravato dall’aver agito al fine di favorire un’associazione di tipo mafioso. Secondo l’accusa, la donna avrebbe reso dichiarazioni mendaci in un processo per aiutare un membro di un noto clan a ottenere l’assoluzione, attestando falsamente di avergli prestato assistenza in un periodo in cui questi era accusato di aver commesso un reato. La difesa della donna sosteneva che la sua condotta non fosse volta a favorire l’associazione criminale, ma fosse unicamente un atto di aiuto verso un singolo individuo, motivato da un presunto rapporto di amicizia.

La Decisione del Tribunale della Libertà e il Ricorso in Cassazione

Il Tribunale della Libertà aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, ritenendo sussistenti sia i gravi indizi di colpevolezza per la falsa testimonianza, sia l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Secondo il Tribunale, la donna era pienamente consapevole di agire a favore di un’organizzazione criminale. Questa consapevolezza derivava da diversi elementi, tra cui il coinvolgimento del proprio marito negli affari illeciti del clan e la sua presenza durante conversazioni telefoniche relative ad attività criminali, come il sequestro di una piantagione di droga. L’imputata ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando un vizio di motivazione e sostenendo che la decisione si basasse su mere presunzioni.

L’Agevolazione Mafiosa: I Principi della Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, cogliendo l’occasione per ribadire i principi fondamentali in materia di agevolazione mafiosa. L’aggravante, prevista dall’art. 416-bis.1 c.p., ha natura soggettiva: ciò che rileva è il ‘dolo specifico’, ovvero l’intenzione dell’agente di commettere il reato con lo scopo preciso di portare un vantaggio all’associazione mafiosa. Questo vantaggio non deve necessariamente essere un rafforzamento concreto della compagine, ma può consistere anche nel favorire l’operatività di un singolo affiliato, purché l’agente sia consapevole che la sua azione andrà a beneficio dell’intero sodalizio.

La Prova della Consapevolezza e del Dolo Specifico

La Cassazione ha chiarito che la prova della consapevolezza e del fine di agevolare il clan non può basarsi su un ‘abuso di presunzioni’. Nel caso specifico, tuttavia, i giudici hanno ritenuto che la motivazione non fosse presuntiva, ma fondata su elementi concreti e logicamente collegati. La conoscenza dell’intraneità al clan dei soggetti aiutati e del ruolo da loro ricoperto, unita alla partecipazione del proprio marito agli affari criminali e alla presenza a conversazioni illecite, costituivano un quadro indiziario solido da cui desumere la piena consapevolezza della donna. Il fatto che la richiesta di falsa testimonianza provenisse direttamente dal vertice del clan e che l’imputata avesse acconsentito ‘per fiducia’, senza pretendere nulla in cambio, è stato interpretato come un’adesione alla logica e all’autorità mafiosa.

Le Motivazioni della Sentenza

Nelle motivazioni, la Corte ha sottolineato come il Tribunale abbia correttamente ricostruito l’intera vicenda. Il reclutamento dei falsi testimoni, la minuziosa preparazione del ‘copione’ da recitare in aula e l’assecondamento pedissequo delle richieste da parte della ricorrente dimostravano non un favore personale, ma un contributo all’operatività del clan, volto a garantire l’impunità di uno dei suoi membri. La Corte ha escluso che si trattasse di una ‘praesumptio de praesumpto’ (presunzione da presunzione), evidenziando come la consapevolezza fosse logicamente attestata da allegazioni probatorie concrete e disponibili agli atti. Inoltre, la Corte ha confermato la validità della misura cautelare in carcere. Essendo il reato aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 c.p., si applica la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., che prevede la custodia in carcere come misura adeguata, a meno che non emergano elementi concreti che dimostrino l’assenza di esigenze cautelari. Tali elementi, nel caso di specie, non sono stati ravvisati.

Le Conclusioni

In conclusione, la sentenza ribadisce che per configurare l’aggravante dell’agevolazione mafiosa è necessario un accertamento rigoroso del dolo specifico. Tale accertamento, tuttavia, può basarsi su un ragionamento inferenziale fondato su elementi di fatto concreti che, nel loro complesso, dimostrino la consapevolezza dell’agente di contribuire, con la propria condotta, a favorire l’associazione criminale. La decisione conferma un orientamento consolidato, cruciale per contrastare tutte quelle condotte che, pur non essendo direttamente mafiose, forniscono un supporto essenziale alla sopravvivenza e all’operatività dei clan.

Quando una falsa testimonianza configura l’aggravante dell’agevolazione mafiosa?
Quando è commessa con la finalità specifica di favorire un’associazione di tipo mafioso. È necessario che l’autore del reato sia consapevole che la sua azione, anche se diretta a un singolo individuo, porterà un vantaggio all’intera organizzazione criminale.

Come si prova la consapevolezza di favorire un’associazione mafiosa?
La consapevolezza non può basarsi su mere presunzioni, ma deve essere desunta da elementi di fatto concreti. Nel caso di specie, sono stati ritenuti rilevanti la conoscenza dell’appartenenza al clan dei soggetti coinvolti, la partecipazione del proprio coniuge alle attività criminali e la presenza a conversazioni relative a tali attività.

Perché è stata confermata la custodia in carcere per il reato di falsa testimonianza aggravata?
Perché il delitto, in quanto aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 c.p., rientra tra quelli per cui l’art. 275, comma 3, c.p.p. stabilisce una presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. Tale presunzione può essere vinta solo dalla prova dell’insussistenza di esigenze cautelari, prova che nel caso specifico non è stata fornita.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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