Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 7256 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 7256 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 11/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma
COGNOME NOME NOMECOGNOME nata a Roma il giorno 25/9/1993 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME NOME nata a Roma il giorno 27/7/1958
rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME NOMECOGNOME nata a Torre del Greco il giorno 23/2/1995 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il giorno 2/9/1987 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il giorno 6/8/1983 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME NOMECOGNOME nato a Caserta il giorno 13/1/1979 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME
NOME FerdinandoCOGNOME nato a Caserta il giorno 19/2/1979 di fiducia
COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il giorno 20/12/1980
rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME COGNOME nato a Capua il giorno 7/12/1974 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
avverso la sentenza in data 29/12/2023 della Corte di Appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
letti i motivi nuovi e la memoria presentati nell’interesse di NOME COGNOME letti i motivi nuovi presentati nell’interesse di NOME COGNOME preso atto che è stata richiesta la trattazione orale del procedimento; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso del Procuratore generale relativo alla configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. nonché l’accoglimento del ricorso dell’imputata NOME COGNOME relativamente alla confisca, con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata relativamente a tali punti e la declaratoria di inammissibilità nel resto dei ricorsi degli imputati con le conseguenze di legge;
uditi i difensori dell’imputata NOME COGNOME avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai motivi ivi indicati;
uditi i difensori dell’imputata NOME COGNOME avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi riportandosi ai motivi ivi indicati;
udito il difensore dell’imputata NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai motivi ivi indicati e la declaratoria di inammissibilità del ricorso del Procuratore generale;
udito il difensore dell’imputato NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e la declaratoria di inammissibilità del ricorso del Procuratore generale;
udito il difensore dell’imputato NOME COGNOME avv. NOME COGNOMEquale sostituto processuale dell’avv. NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai motivi ivi indicati e la declaratoria inammissibilità del ricorso del Procuratore generale;
uditi i difensori dell’imputato NOME COGNOME avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore dell’imputato NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai motivi ivi indicati; uditi i difensori dell’imputato NOME COGNOME avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOMEquale sostituto processuale dell’avv. NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai motivi ivi indicati e la declaratoria di inammissibilità del ricorso del Procuratore generale.
Nessuno ha concluso in difesa dell’imputato NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 29 dicembre 2023 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato in data 12 ottobre 2022 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, previa esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. laddove contestata, ha:
confermato l’affermazione della penale responsabilità di:
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 5, 7, 8, 12, 13, 15, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 51, 52, 53, 53A, 54, 55, 56, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 86, 88 e 89 della rubrica delle imputazioni;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 2A, 5, 7, 8, 12, 13, 15, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 51, 52, 53, 53A, 54, 55, 56, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 86, 88, e 89;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 12, 13 e 85A;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 4, 5, 7, 8, 13, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 51, 52, 53, 53A, 54, 55, 56, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83 e 89;
NOME COGNOMEper il quale non è stata accolta la proposta di concordato ex art. 599-bis cod. proc. pen.) in relazione ai reati di cui ai capi 12, 13, 50 e 85A;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 12, 13, 50 e 85A;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 12, 13 e 85A;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 5, 7 e 8;
NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi 1, 12 e 13;
rideterminato il trattamento sanzionatorio nei confronti dei predetti imputati;
revocato le pene accessorie applicate a NOME COGNOME nonché quella dell’interdizione legale applicata a tutti gli altri imputati;
sostituito nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME la pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici con quella dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque;
confermato nel resto la sentenza di primo grado anche con riguardo alla disposta confisca delle somme di denaro e dei beni già in sequestro, nonché (trattandosi di beni di valore inferiore all’ammontare del profitto conseguito), di denaro, beni mobili ed immobili riconducibili agli imputati ai quali è contestato il reato associativo fino alla concorrenza di euro 185.622,248,79.
In estrema sintesi:
– si contesta agli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME di avere, anche in concorso con altri, costituito una associazione per delinquere finalizzata alla consumazione di più delitti di violazione della normativa in materia tributaria e di accise, nonché di riciclaggio, reimpiego in attivi economiche di proventi illeciti, autoriciclaggio, corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio; reati realizzati, quanto all’evasione dell’IVA, attraverso l’interposizio fittizia di più soggetti, sia nella fase di acquisto che di cessione del prodot petrolifero, grazie ai quali la società RAGIONE_SOCIALE – poi divenuta RAGIONE_SOCIALE – immetteva in consumo nel territorio nazionale milioni di litri di gasolio per autotrazione ad un prezzo finale praticato alla pompa nettamente inferiore a quello praticato sul mercato legale e, quanto all’evasione dell’accisa – o attraverso la sottrazione all’accertamento e al pagamento dell’accisa di prodotto petrolifero commercializzato (che non veniva annotato nelle corrette quantità nel registro di carico e scarico) o evadendo VIVA su di esso dovuta attraverso la destinazione di prodotto energetico ammesso ad un’aliquota agevolata ad usi soggetti a maggiore imposta GLYPH – grazie alla predisposizione di fittizia documentazione di trasporto atta a non consentire la
corretta individuazione dei soggetti effettivamente interessati alle operazioni di trasporto, nonché della tipologia di merce realmente trasportata, fingendo di vendere ai clienti gasolio agricolo con aliquota di accise ed IVA agevolate, laddove si consegnava loro gasolio per autotrazione che doveva essere assoggettato a più alte aliquote di IVA e accisa;
si contestano a tutti gli imputati, sulla base dei capi di imputazione come rispettivamente sopra indicati, una serie di reati-fine della tipologia sempre sopra indicata;
sia per il reato associativo che per alcuni dei reati-fine era stata in origine contestata anche la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. sotto il profilo di avere agito gli imputati anche al fine di agevolare i clan di camorr (Moccia, COGNOME e dei Casalesi) ivi indicati, che si avvantaggiavano dei guadagni provenienti dall’evasione dell’IVA.
Il tempus commissi delicti risulta ricoprire un arco temporale che va dal gennaio 2017 al 2019.
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, nonché ii difensori degli imputati, deducendo:
2.1. Ricorso del Procuratore generale.
2.1.1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma ha presentato ricorso nei confronti di tutti gli imputati deducendo vizi di motivazione art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. limitatamente all’esclusione disposta con la sentenza impugnata della menzionata circostanza aggravante della c.d. “agevolazione mafiosa” di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. laddove contestata.
Sulla premessa che il G.u.p. aveva ritenuto la sussistenza della predetta circostanza aggravante, osserva il ricorrente quanto al profilo oggettivo dell’aggravante che:
il primo Giudice aveva osservato come fosse evidente che NOME COGNOME (non incluso tra i soggetti nei confronti dei quali è stata esercitata l’azione penale nel procedimento in esame – ndr.), che gestiva il sistema societario funzionale alle molteplici frodi, operava nell’interesse di NOME COGNOME al fine di agevolare l’omonimo clan, gestendone i capitali attraverso il cassiere-fiduciario NOME COGNOME ed ottenendo come corrispettivo la “protezione” da interferenze di altre consorterie malavitose, il tutto come emergerebbe da una serie di conversazioni intercettate indicate nel ricorso;
b) quanto al riferimento ai “casalesi” emergerebbe dalle conversazioni intercettate che lo stesso non riguarda, come ha ritenuto la Corte di appello, un mero “riferimento geografico”: in proposito il ricorrente richiama nel ricorso una serie di conversazioni intercettate ed un intreccio di rapporti tra le parti che porterebbero a ritenere che gli imputati COGNOME e COGNOME non solo muovevano capitali della criminalità organizzata, ma partecipavano al sodalizio in funzione delle rispettive consorterie criminali, il che renderebbe evidente che il riferimento ai “casalesi” contenuto in una conversazione intercettata nella quale NOME COGNOME presenta “i casalesi” come un “nuovo canale” con il quale operare riguarda il noto clan camorristico, con il quale il coimputato COGNOME era in rapporto di contiguità, e non un mero riferimento geografico a soggetti originari di tale territorio;
c) sempre con riguardo ai “casalesi” ed al clan COGNOME vengono richiamate dal ricorrente conversazioni intercettate che vedono come colloquianti NOME COGNOME e NOME COGNOME nelle quali la prima definisce come “camorrista” NOME COGNOME quale beneficiario di parte importante del meccanismo illecito e nelle quali si parla dei “casalesi” («me l’hanno detto dei casalesi») con riferimento ad una verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza presso la M.P. e, sempre nelle quali, i conversanti mostrano di essere ben consapevoli che potrebbe essere loro contestato di riciclare i soldi di organizzazioni criminali e, ancora, vengono richiamate conversazioni del maggio 2019 (pagg. 12 e 13 del ricorso) nelle quali i soggetti implicati nelle vicende in esame in questa sede con riferimento alle difficoltà finanziarie nelle quali versava la M.P. fanno cenno ad una richiesta di aiuto alla criminalità organizzata e, poi, avendo appreso che i loro telefoni sono sotto intercettazione, decidono di non menzionare ulteriormente i “casalesi”
Con riguardo, poi, al profilo soggettivo della circostanza aggravante de qua, il ricorrente ha:
a) richiamato la circostanza che nel corso di una intercettazione il COGNOME ha riferito alla COGNOME di una intimidazione con colpi di arma da fuoco di recente subita ma di non aver mai chiesto aiuto al proprio cugino “NOME” (riferendosi all’evidenza ad NOME COGNOME), conversazione che, secondo la Corte di appello, dimostrerebbe l’assenza di coinvolgimento del clan COGNOME nella vicenda, ma ha anche evidenziato che non si sarebbe tenuta in debito conto un’altra conversazione nel quale NOME COGNOME, nel parlare con la sorella NOME ha affermato «Ah piè, io dietro c’ho la camorra!» circostanza questa che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, sarebbe rivelatrice di una consapevolezza di appartenenza camorristica come evidenziato dal G.u.p. a pag. 52 della propria sentenza;
rilevato che la Corte di appello avrebbe ignorato, nella lettura delle conversazioni intercettate che gli imputati dal 9 aprile 2019 erano stati avvertiti di avere in telefoni sotto intercettazione, con la conseguenza che le conversazioni intercettate dopo tale data sarebbero inattendibili e strumentali.
2.2. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione anche sotto il profilo del travisamento della prova in relazione ai ritenuti elementi costitutivi della fattispecie (ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riguardo al delitto associativo di cui all’art. 416 cod. pen.
Partendo dalla premessa che la sentenza impugnata in relazione alla contestazione di cui al capo 1 della rubrica delle imputazione sarebbe contraddittoria nella parte in cui da un lato la Corte territoriale ha inquadrato la genesi della struttura associativa in un contesto apparentemente di stampo mafioso, valorizzando le interazioni interpersonali tra gli imputati e le diverse consorterie criminali operanti sul territorio, per poi contraddirsi escludendo la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., rilevano i difensori della ricorrente:
a) di avere indicato nei motivi di gravame il travisamento probatorio nella parte in cui già il G.u.p. aveva indicato che l’associazione contestata era stata fondata su impulso di NOME COGNOME mentre lo stesso non è imputato nel presente procedimento ma in altro procedimento nel quale è chiamato a rispondere di una distinta associazione, peraltro di tipo mafioso, contestata nei confronti di soggetti diversi, operanti in un diverso territorio ed avente ad oggetto un diverso programma criminoso, il tutto con la conseguenza che anche la Corte di appello sarebbe caduta nel medesimo errore affermando che la mancata inclusione nel presente procedimento del Coppola (giudicato separatamente) non esclude la sussistenza del reato di cui all’art. 416 cod. pen., in tal modo obliterando le doglianze difensive sul punto e ritenendo di imprescindibile rilevanza, per fondare la sussistenza della fattispecie delittuosa, il contributo causale della condotta dello stesso, ritenuto di fatto promotore di una associazione che non risulta essergli stata contestata, situazione questa che farebbe venir meno la configurabilità dell’associazione stessa;
che ulteriore vizio di travisamento probatorio sarebbe riscontrabile in relazione alla nascita del ritenuto pactum sceleris tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME che la Corte territoriale avrebbe individuato nei primi contatti tra i due soggetti ed in particolare sulla base di intercettazioni telefoniche tra essi intercorse il 24 ed il 25 gennaio 2017, avendo i Giudici trascurato che le mire espansionistiche
esternate dal COGNOME sono state in realtà da questi manifestate nelle conversazioni captate tra il COGNOME e soggetti diversi dalla COGNOME e che l’erronea identificazione degli interlocutori costituisce vizio che stravolge la tenuta sul punto dell’impianto accusatorio;
c) che la carenza motivazionale della sentenza impugnata emerge anche dal richiamo ad una conversazione ambientale del 5 maggio 2017 tra il COGNOME e la COGNOME nella quale, secondo la Corte territoriale, emergerebbe che la donna decideva i termini della spartizione dei profitti illeciti, essendo per contro evident come la conversazione appare vertere su di una singola iniziativa imprenditoriale riguardante il progetto di costituzione di una società estera e non sul meccanismo della frode asseritamente posta in essere dagli associati e non avendo i Giudici territoriali risposto alle doglianze difensive formulate al riguardo nelle quali si er prospettato che, mentre nel corso dell’intercettazione si parlava di un’attività da compiere totalmente all’estero, tutte le operazioni commerciali contestate nel presente procedimento come reati-fine prevedevano la circolazione del prodotto acquistato a livello comunitario esclusivamente sul territorio nazionale;
d) che la Corte territoriale non ha spiegato sulla base di quali elementi ha affermato a pag. 35 della propria sentenza che ci si trova in presenza di un evidente ingresso di capitali illeciti, grazie ai quali era possibile acquistare vendere carburante realizzando importanti volumi di affari quale risultato del sistema di frodi al fisco e non ha dato risposta a quanto rilevato dalla difesa in ordine al fatto che l’impennata di proventi non era legata a profitti illeciti, quan piuttosto al conseguimento della licenza di deposito fiscale da parte della M.P., nonché alle intervenute modifiche della normativa in materia, situazioni che avrebbero ben potuto essere illustrate dal Lgt. Montanari della Guardia di Finanza del quale era stata avanzata richiesta di audizione ex art. 603 cod. proc. pen. non accolta dalla Corte di appello in quanto sostanzialmente ritenuta superflua;
e) che i Giudici del merito avrebbero apoditticamente assimilato la pluralità di soggetti convolti nei delitti satellite contestati, tipico della c.d. “frodi carose alla sussistenza a monte di una associazione per delinquere, trascurando che ciascuna delle operazioni contestate aveva un fine autonomo che si esauriva con la singola operazione.
2.2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione (ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riguardo al ruolo di promotore relativo al sodalizio associativo di cui all’art. 416 cod. pen. contestato a NOME COGNOME.
Rileva, al riguardo, la difesa della ricorrente che avrebbe errato la Corte di appello allorquando ha affermato che il ruolo rivestito dalla COGNOME (figlia di NOME COGNOME) quale amministratrice delegata della M.P. non può essere
ricondotto a quello di mera “testa di legno” in quanto non si può ritenere che solo perché un soggetto riveste il ruolo di amministratore di una società coinvolta nelle attività illecite per ciò solo tale soggetto assume il ruolo di promotore del sodalizio criminale, così acriticamente affermando una sovrapposizione tra struttura societaria e realtà associativa.
In sostanza, dalle conversazioni richiamate dai Giudici di merito emergerebbe solo il contributo gestionale della ricorrente nelle operazioni commerciali realizzate senza che si sia tenuto conto che la partecipazione della COGNOME a diverse riunioni, svolte presso la società ed ambientalmente intercettate, si collocano nei primi mesi del 2019 quindi in epoca successiva alla data di consumazione dei reatifine e distante dalla presunta origine del sodalizio. La Corte territoriale non avrebbe quindi spiegato in modo logico le ragioni che l’hanno determinata ad affermare il contestato ruolo di vertice della Di Cesare all’interno del sodalizio.
2.2.3. Violazione di legge e vizi di motivazione (ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) con riguardo ai reati contestati in proprio in capo alla M.P. di cui ai capi 5, 7 e 8 della rubrica delle imputazioni con riguardo al profilo soggettivo tipico dei reati contestati, nonché erronea applicazione della legge penale sostanziale in relazione al reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 di cui capo 5 in ordine alla ritenuta indicazione di elementi attivi inferiori al real corrispondenti alle operazioni non imponibili intervenute con la c.d. “società false esportatrici abituali”.
Rileva la difesa della ricorrente che le fattispecie di cui agli artt. 3 e 8 d d.lgs. n. 74/2000 si fondano sulla ritenuta consapevolezza da parte della Di Cesare della falsità delle lettere di intento rilasciate al deposito fiscale dalle società cl ed in realtà prive dei requisiti per essere considerate “esportatrici abituali”. L Corte di appello avrebbe risposto con una motivazione apparente alle doglianze difensive avanzate al riguardo, operando (pag. 57 e segg.) un’analisi del compendio normativo che al più si poteva attagliare ai reati-fine di natura tributaria ascritti direttamente alle c.d. “società cartiere” ma non direttamente imputabili alla M.P. che non era direttamente interessata alle novelle legislative che producevano effetti solo sui successivi passaggi della filiera commerciale. In ogni caso, la motivazione sarebbe carente in relazione alla consapevolezza da parte della Di COGNOME in ordine alla fittizietà delle società interposte atteso che tale fittizietà è stata accertata solo ex post in quanto, in origine, ci si trovava in presenza di controlli effettuati sulla base delle linee guida di settore nonché sulla base delle informazioni rese note dalle società clienti ed avallate dalla Agenzia delle Entrate.
La Corte di appello non avrebbe, poi, dato risposta alla questioni sollevate dalla difesa della ricorrente relative allo iato temporale sussistente tra gli elementi probatori valorizzati a sostengano delle fattispecie satellite considerate (2019) e l’epoca di effettiva realizzazione delle condotte (2017 e 2018), ciò in quanto la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato deve essere valutata con riferimento alle conoscenze dell’agente al momento dell’inizio dell’azione od omissione, non potendosene retrodatare l’insorgenza sulla base di elementi non conosciuti, né conoscibili, da questi all’epoca dei fatti.
Sempre secondo la difesa della ricorrente, una ulteriore violazione consisterebbe nella contestuale applicazione dei reati di cui agli artt. 3 e 8 del d.lgs. n. 74/2000 con riguardo ai capi 5 e 8 della rubrica delle imputazioni atteso che la qualificazione di tali operazioni ai fini della fattispecie di cui all’art. termini di operazioni reali imponibili risulta, materialmente e giuridicamente, incompatibile con la contestuale contestazione ex art. 8, norma che, di contro, richiede, per la relativa integrazione, l’inesistenza, nella specie soggettiva, della prestazione sottesa alla fatturazione.
Analoghe doglianze in punto di carenza motivazionale vengono poi espresse dalla difesa della ricorrente con riguardo al reato ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000 di cui al capo 7 della rubrica delle imputazioni collocandosi l’azione in un segmento temporale anteriore rispetto alla falsa qualifica di società residenti in Italia e no essendovi alcun riscontro in ordine al coinvolgimento soggettivo dei vertici della RAGIONE_SOCIALE nella vicenda i quali non avrebbero tratto alcun vantaggio fiscale dall’operazione.
2.2.4. Violazione di legge e vizi di motivazione (ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) in relazione ai reati contestati alle società clienti di cui capi da 12 a 16, da 18 a 48, da 51 a 56, da 74 a 83 e 86 della rubrica delle imputazioni.
Sulla premessa che in detti capi risultano diversamente ipotizzati i reati tributari ex artt. 8 e 5 d.lgs. n. 74/2000 aventi ad oggetto l’emissione di fattur soggettivamente inesistenti, nonché le infedeli o omesse dichiarazioni da parte delle società ipotizzate come “cartiere” le quali, dopo aver acquistato il prodotto dalla M.P., lo rivendevano ai destinatari finali senza versare VIVA a questi addebitata sulla cessione al duplice fine di consentire ai terzi di evadere il fisco detraendosi indebitamente VIVA addebitata alla vendita e alla M.P. di occultare la sua natura di soggetto passivo di IVA, rileva la difesa delle ricorrente di avere contestato l’esistenza di un contributo causale della Di Cesare in detti fatti-reato in assenza di elementi idonei a riscontrare alcuna interferenza nella gestione delle
predette società essendo tale meccanismo stato effettuato in modo del tutto autonomo rispetto al deposito fiscale.
Si tratterebbe, in sostanza, secondo la difesa della ricorrente, di un segmento di condotta estraneo al paradigma normativo proprio del reato di emissione di false fatture ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 in mancanza di prova circa la necessaria sussistenza, unitamente ad altri motivi di guadagno personali, del fine di evasione dei terzi destinatari e, dunque, del dolo specifico normativamente richiesto in capo ai soggetti agenti. Sul punto la motivazione della Corte, nonostante la doglianza formulata nei motivi di appello sarebbe quindi inesistente.
A ciò si aggiunge che il meccanismo operativo descritto a pag. 67 della sentenza impugnata di false fatturazioni perpetrate dalla RAGIONE_SOCIALE. nei confronti delle società cartiere, già contestate autonomamente in capo al deposito, sono insuscettibili di rilevare nuovamente quale distinto segmento del medesimo meccanismo criminoso, astrattamente suscettibile della medesima ipotesi delittuosa riconducibile a soggetti giuridici differenti, pena la concretizzazione del divieto del bis in idem sostanziale, essendo tale evasione di imposta al più oggetto del dolo specifico della fattispecie ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 già contestata al capo 8 della rubrica delle imputazioni.
In sostanza, i successivi reati di falsa fatturazione avrebbero dovuto perseguire, per ritenersi integrati, una finalità elusiva ulteriore in favore d soggetti distinti dall’emittente, nella specie i distributori finali, ma di tale dato v’è alcuna traccia agli atti del procedimento né la motivazione della sentenza impugnata consente di colmare tale carenza.
Ne consegue che il mancato coinvolgimento dei destinatari finali nel complessivo meccanismo ipotizzato interromperebbe e spezzerebbe la catena criminosa oggetto di contestazione, impedendo la configurabilità delle fattispecie di reato contestate ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000, ciò in quanto il beneficiari materiale della frode è il cliente finale che come tale deve essere necessariamente coinvolto perché è proprio al fine di fare evadere tale soggetto che la cartiera emette la fattura individuata come soggettivamente inesistente.
Il fatto – prosegue la difesa della ricorrente – che la COGNOME abbia agito al fine specifico di evasione di soggetti terzi, rimasti ignoti, si atteggia quindi a mer congettura non essendo confortato da alcun elemento probatorio.
Ulteriore vizio della sentenza impugnata sarebbe poi ravvisabile nell’erronea quantificazione dell’imposta evasa attraverso le condotte contestate, imposta ritenuta integrante il profitto illecito del complessivo meccanismo criminoso, ciò in quanto la considerazione unitaria del meccanismo fraudolento ipotizzato imponeva di limitare ad uno solo il soggetto passivo IVA individuato nell’ambito di ciascuna
operazione, con conseguente unica determinazione di imposta evasa. Per contro, la ricostruzione accusatoria, ascrivendo in capo alla COGNOME sia l’omesso versamento dell’IVA esposta nelle fatture emesse dalle società cartiere, sia il mancato versamento della stessa IVA da parte della M.P. rispetto alla fornitura originaria del medesimo prodotto (capi 5 e 8) ha duplicato l’importo di imposta asseritamente evasa, situazione questa che presenta anche rilevanza sul trattamento sanzionatorio irrogato all’imputata.
Vizi di motivazione riguarderebbero, poi, anche i casi di reato di omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000 atteso che, come dedotto in sede di appello, non vi sarebbe la prova in capo alla ricorrente del dolo specifico per la configurabilità di tale reato riguardante le scadenze e gli adempimenti relativi alle dichiarazioni delle società cartiere che si assumono omesse.
2.2.5. Violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento ai reati di cui agli artt. 3 e 8 d.lgs. n. 74/2000 di cui ai capi 5, 8 e 18 al 56 della rubrica delle imputazioni in relazione all’art. 1, comma 1, lett. a) e g-bis), d.lgs. n. 74/2000: erronea qualificazione delle operazioni come soggettivamente inesistenti in luogo di simulate e violazione del cd. divieto del bis in idem sostanziale.
Rileva al riguardo la difesa della ricorrente, stante il sistema di evasione IVA ricostruito dai Giudici di merito basato su di un sistema di interposizione fittizia delle società cartiere che fungono da cessionarie del deposito e cedenti verso i clienti finali, che tale triangolazione dovrebbe portare a ritenere che ci si trova i presenza di operazioni soggettivamente “simulate” – così come descritte dall’art. 1, comma 1, lett. g-bis, del d.lgs. n. 74/2000 – e non “inesistenti”, non essendo prospettabile un’equiparazione sinonimica delle due distinte nozioni legali, il che fa ricadere le condotte nell’alveo dell’art. 3 in luogo di quello di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 trovandoci in presenza di operazioni di cessione del prodotto petrolifero esistenti ma dissimulate a mezzo di transazioni intermedie apparenti con i soggetti interposti.
Da ciò ne deriverebbe che le operazioni di cessione oggetto del capo 8 della rubrica delle imputazioni, relative al primo segmento della catena di fatturazione della M.P., rileverebbero solo ai fini della violazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 74/20 contestato al capo 5, in esso dovendosi quindi ritenere già assorbite le condotte di falsa fatturazione ascritte al capo 8.
L’applicazione contestuale dei due articoli comporterebbe quindi una violazione del cd. divieto del bis in idem sostanziale.
2.2.6. Vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione ai reati contestati ai capi 88 e 89 della rubrica delle imputazioni.
Rileva la difesa della ricorrente che vi sarebbe una totale assenza di motivazione con riguardo alle violazioni in materia di accise contestate ai capi 88 e 89, essendosi limitata la Corte di appello a parafrasare quanto contestato agli imputati cumulativamente considerati nei due capi di imputazione, il che consentirebbe di qualificare detta motivazione come meramente “apparente”, ciò soprattutto in relazione alle doglianze che erano state sollevate con l’atto di appello nel quale si era contestata la natura meramente presuntiva della ricostruzione effettuata dal G.u.p. in quanto fondata su elementi probatori non acquisiti agli atti e meramente riepilogati nelle informative di P.G.
2.2.7. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in ordine agli aumenti di pena stabiliti per la continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen. e violazione degli artt. 133, 81 cpv. e 125, comma 3 cod. proc. pen. in relazione al combinato disposto degli artt. 546, comma 1, lett. e), n. 2, e 533 cpv. cod. proc. pen.
Ricorda la difesa della ricorrente che il G.u.p. ha individuato il reato più grave in quello contestato al capo 1 della rubrica delle imputazioni poi operando un aumento per la continuazione di due mesi di reclusione in ordine a ciascuno dei reati-fine contestati, omettendo tuttavia alcun riferimento ai criteri adottati ai f di una tale irrogazione sanzionatoria.
La Corte territoriale avrebbe però omesso di motivare sul punto, nonostante che la questione le sia stata sottoposta con i motivi di appello, così come richiesto dalla sentenza della Sezioni Unite n. 47127/21, tenendo in considerazione il fatto che ci si trova in presenza di una pluralità di reati caratterizzati da eterogeneità del fatto che in sede di appello è stata esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
2.2.8. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al mancato riconoscimento all’imputata delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.
Si duole la difesa della ricorrente del fatto che la motivazione sul punto adottata dalla Corte territoriale è stata “cumulativa”, senza distinguere le diverse posizioni ed i diversi ruoli degli imputati, mentre secondo costante giurisprudenza di legittimità la stessa doveva essere individualizzante con riguardo a ciascuno degli imputati.
Inoltre, la Corte di appello avrebbe adottato nella rideterminazione della pena irrogata all’imputata una soluzione deteriore rispetto a quella prospettata nel giudizio di primo grado, non solo trascurando di prendere in considerazione il riflesso dell’insussistenza della circostanza aggravante di cui all’articolo 416-bis.1 cod. pen. sul piano della gravità complessiva dei fatti accertati, ma anche
omettendo di esplicitare le ragioni per cui una simile circostanza sia del tutto irrilevante per caratterizzare i reati contestati sotto il profilo della loro gra oggettiva e per orientare diversamente la misura concreta della pena inflitta.
2.3. Ricorsi nell’interesse di NOME COGNOME (trattasi di due separati ricorsi a firma dell’avv. COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME).
2.3.1. (ricorso avv. COGNOME Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento all’art. 416 cod. pen.
Deduce la difesa della ricorrente, citando dottrina e giurisprudenza in materia, l’erronea configurazione del reato contestato al capo 1 della rubrica delle imputazioni, sostenendo che i giudici di merito avrebbero creato una non corretta commistione tra la dimensione organizzativa lecita della società RAGIONE_SOCIALE e la struttura organizzativa necessaria per la configurabilità del reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen.
La sentenza impugnata, in particolare, non avrebbe spiegato le ragioni per le quali ci si troverebbe in presenza di un reato associativo piuttosto che in presenza di un concorso di persone nel reato continuato, non bastando per configurare la fattispecie di cui all’art. 416 cod. pen. la reiterazione dei reati e neppure le sottolineate (dai Giudici di merito) modalità di spartizione degli utili. Ci troverebbe quindi – ed al più – in presenza di una pluralità di accordi destinati a rinnovarsi tra i concorrenti al prospettarsi di nuove condizioni per delinquere.
Anche quanto alla perimetrazione temporale del contestato reato associativo i Giudici di merito avrebbero definito la durata del sodalizio esattamente in funzione del tempo entro il quale si è dispiegato il comune disegno criminoso dei concorrenti, così ancora una volta sovrapponendo nella valutazione giuridica dei fatti due situazioni diverse.
2.3.2. (ricorso avv. COGNOME Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento, in particolare:
all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 anche in relazione all’art. 1, comma 1, lett g-bis, del decreto legislativo citato, con riguardo al profilo della qualificazione del operazioni intervenute con le società cd. cartiere in termini di operazioni soggettivamente inesistenti;
all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 e alle altre norme tributarie di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, relativamente al profilo che concerne l’indicazione di elementi attivi inferiori al reale, corrispondenti alle operazioni n imponibili intervenute con le cosiddette società false esportatrici abituali;
– all’art. 117, comma 1, Cost. quale norma interposta dell’art. 4, VII protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nonché dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla luce dell’interpretazione consolidata della Corte costituzionale e delle Corti europee con riguardo alle imputazioni di cui ai capi 5 e da 18 a 56 atteso che esse danno luogo alla duplice punizione del medesimo fatto nei confronti della medesima imputata.
Partendo dal presupposto che i Giudici di merito hanno rilevato che la frode all’IVA è stata strutturata sul fronte delle cessioni facendo cedere il prodotto non dal deposito stesso ma da società cartiere con l’utilizzo di soggetti cessionari, recanti un falso status di esportatore abituale, interposti tra il vero cedente ed i reali cessionari beneficiari della frode, con la conseguenza che si è proceduto ad una duplice qualificazione giuridica delle condotte in base agli articoli 3 e 8 del d.lgs. n. 74/2000, rileva la difesa della ricorrente che l’applicazione contestuale di dette norme incriminatrici in relazione al fatto accertato costituisce una manifesta violazione del divieto del bis in idem conseguita attraverso una sequenza di erronee interpretazioni delle norme penali che puniscono i reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi e di emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Osserva, in particolare, la difesa della ricorrente che nel caso in esame, sulla base del sistema di operazioni ricostruito dai Giudici di merito, ci si troverebbe non in presenza di “operazioni inesistenti”, quanto, piuttosto in presenza di “operazioni simulate” così come definite dall’art. 1, comma 1, lett. g-bis, del d.lgs. n. 74/2000 il che porterebbe alla distinzione tra le fattispecie dell’art. 2 ed 8 e quella dell’a 3 del medesimo decreto legislativo.
La difesa della ricorrente ha dato atto (pag. 23 del ricorso) dell’esistenza di tesi dottrinali e giurisprudenziali che prospettano una interpretazione in chiave sinonimica delle nozioni legali sopra citate, con la conseguenza che l’art. 2 e, corrispondentemente, l’art. 8 sarebbero così destinati a ricomprendere tutte le forme di falsità nella dichiarazione fiscale supportate dall’utilizzo di una fattura altro documento fiscale mendace indipendentemente dalla natura soggettivamente inesistente o simulata dell’operazione indicata, tuttavia segnala l’insensatezza di una simile assetto interpretativo in primo luogo perché lo stesso presuppone l’assoluta superfluità della definizione legale di operazioni simulate, poi perché l’interpretazione prospettata assume apoditticamente l’identità di fenomeni niente affatto assimilabili e, infine, perché assumere i concetti in esame come fossero fungibili si tradurrebbe nel prospettare per la fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi un ambito di applicazione residuale in ragione della clausola di riserva.
In sostanza – prosegue la difesa della ricorrente – la differenza tra le due condotte è evidente ciò in quanto l’operazione soggettivamente simulata, per interposizione fittizia implica un’intesa plurilaterale che intercorre fra tutte le pa vere del contratto e le parti apparenti, di contro l’inesistenza soggettiva dell’operazione non presuppone di regola alcuna intesa plurilaterale e si configura per il solo fatto che uno dei soggetti è diverso da quello reale. L’atto di interposizione deve invece coinvolgere tutti i soggetti simulati e apparenti.
Il concetto di simulazione soggettiva riguarderebbe, pertanto, operazioni realmente compiute che le parti stesse hanno inteso imputare e realizzare nei loro effetti a soggetti differenti da quelli apparenti: per questa ragione la simulazione deve consistere in un’intesa che coinvolga tutti i soggetti che contribuiscono dal punto di vista negoziale a creare le condizioni dell’apparenza giuridica. L’inesistenza soggettiva si traduce, invece, in una difformità materiale tra ciò che viene dichiarato (ad esempio nel documento fiscale) è ciò che è reale.
Alla luce di detti rilievi si comprenderebbe chiaramente come il concetto di operazione soggettivamente simulata designa fattispecie concrete complesse che si connotano per l’esistenza di un accordo tra almeno tre soggetti finalizzato a conferire alla realtà commerciale esistente una determinata apparenza giuridica.
Nel caso di specie – aggiunge la difesa della ricorrente – le sentenze di merito hanno accertato un fenomeno di interposizione fittizia basato su un’intesa trilaterale che investiva la società RAGIONE_SOCIALE, le società cartiere interposte e i clien finali quali soggetti interponenti. Tutte le transazioni relative alla cessione d prodotti energetici erano quindi, come è stato precisato nella sentenza di primo grado, materialmente esistenti ma la volontà delle parti dell’accordo era di creare l’apparenza di una transazione intermedia con i soggetti interposti. Ne consegue che l’intera operazione di interposizione fittizia doveva essere riqualificata in base all’art. 1, comma 1, lett. g-bis), d.lgs. n. 74/2000 così da applicare l’unica fattispecie incriminatrice giuridicamente prospettabile, cioè il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 del decreto.
Per contro i Giudici di merito hanno operato una segmentazione della fattispecie concreta di interposizione fittizia che si è risolta nella simultane applicazione dell’art. 3 e dell’art. 8 in relazione ad un fatto che le decisioni di merit hanno accertato e considerato in termini unitari.
L’esito – secondo la difesa della ricorrente – è stato quindi quello di punire NOME COGNOME più volte per il medesimo fatto prospettando ad un tempo una responsabilità penale della stessa per il delitto di dichiarazione fraudolenta e poi anche per aver concorso nelle emissioni di fatture per operazioni soggettivamente
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inesistenti che, invece, costituiscono soltanto una sequenza di una più complessa operazione di simulazione soggettiva per interposizione.
A ciò si aggiunge – prosegue parte ricorrente (v. pag. 28 e segg. del ricorso) – che l’applicazione contestuale dell’art. 3 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 (capo 5) sarebbe frutto di una contraddizione giuridica insolubile. In sostanza, poiché si assume nella contestazione dell’art. 8 che ci si trova in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, le stesse non possono essere considerate “imponibili” e quindi dare luogo ad un’imposta evasa rilevante ex art. 3 del decreto.
2.3.3. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione (ex art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento all’art. 648-ter cod. pen. (capo 2A dell’imputazione) anche con riguardo alla prova della conoscenza della matrice illecita dei proventi asseritamente reimpiegati nell’attività della società RAGIONE_SOCIALE
Sulla premessa che la Corte di appello ha confermato la statuizione di condanna della COGNOME in relazione al reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. per avere concorso nel reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1) asseritamente commesso da NOME COGNOME azione consistita nell’accettare un finanziamento di 500.000 euro da parte del COGNOME e finalizzato al pagamento di alcuni debiti della società RAGIONE_SOCIALE, rileva al riguardo la difesa della ricorrente che la mera accettazione di una somma di denaro finalizzata al pagamento di debiti assunti dalla società RAGIONE_SOCIALE esula dall’ambito di previsione dell’art. 648-ter cod. pen. che ha come presupposto il contributo concorsuale nel fatto di autoriciclaggio commesso dall’intraneus, con la conseguenza che, al più, la condotta poteva essere qualificata come violazione dell’art. 648 cod. pen.
I Giudici di merito sul punto sarebbero caduti in contraddizione sostenendo da un lato che la COGNOME era consapevole dell’appartenenza del COGNOME ad una associazione a delinquere di tipo mafioso, al punto che dal G.u.p. era stata ritenuta sussistente l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., ma tale aggravante è stata poi esclusa all’esito del giudizio di appello con una sentenza nella quale la Corte territoriale non ha tuttavia spiegato le ragioni per le quali il differen significato probatorio attribuito agli elementi acquisiti non ha prodotto alcun effetto sulla conoscenza della matrice illecita del finanziamento.
2.3.4. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen. relativamente all’omessa valutazione della collaborazione con la A.G. prestata dell’imputata.
Si duole la difesa della ricorrente del fatto che la Corte di appello nella determinazione del trattamento sanzionatorio riservato alla COGNOME si è limitata
a detrarre il segmento di pena previsto per la circostanza aggravante ex art. 416bis.1 cod. pen., che ha escluso, senza tener conto della diversa rilevanza che l’esclusione di detta circostanza aggravante presenta sulla complessiva valutazione della gravità delle condotte con conseguenti riflessi sul trattamento sanzionatorio.
Altresì, si duole parte ricorrente del fatto che i Giudici di merito non avrebbero tenuto in debita considerazione la condotta collaborativa della COGNOME che ha portato a nuove indagini della Guardia di Finanza ed all’instaurazione di un procedimento penale nei confronti di taluni funzionari dell’Agenzia delle Entrate, comportamento questo che non sarebbe stato quantomeno valutato nell’ottica di una valutazione ex art. 62-bis cod. pen.
2.3.5. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 2, 3, 8 e 5 de d.lgs. n. 74/2000 e 40 e 49 del d.lgs. n. 504/95 di cui ai capi 6, 88 e 89 delle imputazioni.
Si duole, innanzitutto, la difesa della ricorrente del fatto che la Corte di appello non avrebbe motivato sulle questioni dedotte in sede di gravame con riguardo agli elementi oggettivo e soggettivo dei reati contestati ai capi 5 e 8 della rubrica delle imputazioni, basandosi sostanzialmente su di una presunzione di consapevolezza in capo alla COGNOME, non tenendo conto che la RAGIONE_SOCIALE aveva operato nel confronti delle società ritenute “false esportatrici” tutte le necessarie verifiche ed aveva accertato che le stesse avevano ottenuto la qualifica di “esportatore abituale” previo accertamento da parte della Agenzia delle entrate con la conseguenza che, come emergerebbe dalla consulenza redatta dal dr. COGNOME, gli indici di “pericolosità” non erano percepibili nella documentazione consegnata alla società.
La stessa consulenza redatta dal dr. COGNOME avrebbe dimostrato il ruolo non meramente cartolare delle società prestatrici delle predette dichiarazioni di intento.
A ciò si aggiunge che la COGNOME intratteneva rapporti con il COGNOME esclusivamente al fine di determinare i quantitativi di carburante da cedere ed il prezzo di cessione ma non aveva alcun tipo di interlocuzione con le società che presentavano le “lettere di intento”.
I Giudici del merito avrebbero quindi formato le loro convinzioni sulla base del contenuto di conversazioni intercettate senza tuttavia tener conto delle doglianze difensive al riguardo.
Anche quanto al reato in contestazione al capo 7 la Corte di appello avrebbe omesso di indicare qualsivoglia concreto elemento dal quale desumere una
responsabilità penale della COGNOME senza tenere conto delle doglianze evidenziate nell’atto di appello.
Con riferimento, poi, ai contestati reati di cui agli artt. 5 e 8 del d.lgs. 74/2000 la Corte di appello avrebbe apoditticamente richiamato le motivazioni del G.u.p. nonostante che la difesa aveva evidenziato che non vi erano emergenze investigative che consentivano di ipotizzare relazioni particolari da parte della COGNOME con le società clienti. Era, infatti, il COGNOME – rileva la difesa de ricorrente – come emerge dalle intercettazioni, che autonomamente e ad insaputa della COGNOME intratteneva gli accordi illeciti con tali società, al punto di compier un vero e proprio raggiro nei confronti dell’odierna ricorrente, tanto è vero che la RAGIONE_SOCIALE. in alcune occasioni si vedeva costretta a notificare dei decreti ingiuntivi ad alcune delle società clienti per recuperare dei crediti nei confronti delle stesse, situazione questa asseritamente incompatibile con la consapevolezza della natura fittizia di dette società.
La difesa della ricorrente ha, poi, richiamato alle pagg. da 23 a 29 del ricorso i contenuti di alcune conversazioni intercettate dalle quali si evincerebbe il rapporto estremamente conflittuale con il COGNOME e che la COGNOME la quale non ricavava dalle operazioni accertate alcun ritorno pecuniario.
In sostanza, secondo la difesa della ricorrente, non vi sarebbe la prova di un accordo tra le parti in ordine allo svolgimento di un indefinito programma delittuoso che dovrebbe rappresentare l’indefettibile presupposto sia del reato associativo che dei reati fiscali.
Le conversazioni intercettate dopo l’inchiesta giornalistica effettuata dalla trasmissione televisiva Report (puntata del 19 novembre 2018) troverebbero, poi, una logica spiegazione in ragione del clima di allerta nel settore che il servizio televisivo aveva creato.
Anche con riguardo ai capi 6, 88 e 89 la Corte di appello avrebbe omesso di valutare le doglianze dedotte in sede di impugnazione con le quali si segnalava che la Guardia di Finanza si era limitata a riportare quanto indicato nei D.A.S. (Documenti di Accompagnamento Semplificati – ndr.) senza operare ulteriori ed imprescindibili ricognizioni sui registri di carico e scarico della società.
Sarebbero, poi, stati compiuti erronei calcoli dell’accisa asseritamente evasa il tutto come meglio illustrato alle pagg. 41 – 46 del ricorso ma anche in questo caso la Corte di appello si sarebbe erroneamente acquietata sulle considerazioni svolte dagli operanti di P.G.
2.3.6. (ricorso avv. COGNOME) Erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in relazione all’art. 416, commi 1, 2, 3 e 5, cod. pen.
Evidenza al riguardo la difesa della ricorrente:
che la nascita del presunto accordo associativo, collocabile nel gennaio 2017, sarebbe avvenuta tra soggetti fino a quel momento estranei e comunque sarebbe legata allo svolgimento di singole operazioni commerciali;
che non si ravvisa alcuna unità di intenti fra i supposti sodali;
che la COGNOME era soggetto inesperto ed in quel momento altamente vulnerabile;
che il tenore delle conversazioni intercettate confligge con la qualifica di promotrice dell’associazione attribuita alla stessa;
che si evince da altre conversazioni telefoniche l’intenzione della COGNOME di interrompere i rapporti con le società riferibili al COGNOME a causa del mancato pagamento delle forniture fatte alle stesse;
f) che risulta l’estraneità del COGNOME alle dinamiche sodali della COGNOME.
In ogni caso, prosegue la difesa della ricorrente, ci si troverebbe in presenza non di un reato associativo ma di un concorso di persone nel reato continuato secondo i principi in materia e richiamati nel ricorso (pag. 51 e segg.).
A ciò si aggiunge che non sarebbe neppure configurabile nel caso in esame il ruolo di “promotrice” dell’associazione attribuito all’imputata, persona che, a detta della difesa, non era neppure adeguata alla gestione di una società delle dimensioni della RAGIONE_SOCIALE
2.3.7. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al reato di cui all’art. 648-ter.1 di cui al capo 2A della rubrica delle imputazioni.
Nel motivo di ricorso la difesa della ricorrente deduce la non configurabilità del reato di riciclaggio contestando quanto affermato sul punto nella sentenza impugnata (pagg. 54 e 55) che sarebbe caratterizzata da genericità, non avendo la Corte territoriale indicato quali fossero le modalità non trasparenti di erogazione del denaro dal COGNOME alla COGNOME, da quali intercettazioni sarebbe stata tratta la prova delle consapevolezza dell’imputata della provenienza illecita del denaro e che la stessa fosse a conoscenza del soggetto (NOME COGNOME che aveva ceduto la provvista al COGNOME. Oltretutto le affermazioni sul punto della Corte di appello si porrebbero in contrasto con l’esclusione da parte della stessa Corte territoriale della contestata circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
2.3.8. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 81, 132 e 133 cod. pen. considerata l’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen.
Le argomentazioni contenute nel diffuso motivo di ricorso sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle contenute nel ricorso del codifensore (v. sup. par. 2.3.4) ed a quelle contenute nel ricorso presentato sul punto dalla difesa dell’imputata COGNOME (v. sup. par. 2.2.7).
2.3.9. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche anche avendo riferimento al comportamento collaborativo di NOME COGNOME.
Le argomentazioni contenute nel motivo di ricorso sono anche in questo caso sostanzialmente sovrapponibili a quella contenute nel ricorso del codifensore (v. sup. par. 2.3.4).
2.3.10. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in ordine alla quantificazione dei beni oggetto di confisca.
Dopo avere testualmente riprodotto i passaggi sul punto della sentenza impugnata, rileva la difesa della ricorrente che, sulla base di quanto evidenziato nella consulenza di parte del dr. COGNOME, emerge un’erronea quantificazione dell’imposta asseritamente evasa (per le modalità di calcolo v. pagg. da 85 a 91 del ricorso).
A ciò si aggiunge – prosegue la difesa della ricorrente – che il meccanismo unitario ipotizzato dalla Pubblica Accusa imponeva di circoscrivere l’ammontare dell’imposta evasa al solo soggetto passivo di IVA individuato in ciascuna operazione, il che porta ad escludere che vi siano due soggetti passivi IVA nell’ambito della stessa operazione di compravendita.
In sostanza, sarebbe stata effettuata un’erronea duplicazione del medesimo dato numerico e dunque, anche sotto il profilo quantitativo dell’imposta evasa, la sentenza avrebbe recepito elementi che si pongono in contrasto con le risultanze tecniche acquisite agli atti, dovendosi senz’altro evidenziare come l’indetraibilità dell’imposta non sia in alcun modo un argomento connesso con la duplicazione ai fini della confisca dell’imposta evasa, ciò perché le società cartiere, come evidenziato nella sentenza impugnata, non esistevano e, pertanto, non hanno in alcun modo detratto l’imposta in oggetto, con la conseguenza che non si può in alcun modo parlare di un duplice vantaggio che possa giustificare la duplicazione del sequestro.
2.3.11. (ricorso avv. COGNOME) Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’assenza dei supporti audio delle intercettazioni.
Segnala la difesa della ricorrente l’assenza in atti di molti dei supporti audio e dei brogliacci delle intercettazioni, situazione segnalata anche in una nota dei periti trascrittori (riportata nel ricorso), situazione che avrebbe compromesso secondo parte ricorrente una lesione del diritto di difesa.
2.3.12. Con atto datato 25 novembre 2024 (a firma dell’avv. COGNOME) il difensore della ricorrente ha presentato “motivi nuovi” deducendo:
2.3.12.1. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento, in modo particolare, al capo 2A) della rubrica delle imputazioni.
Trattasi sostanzialmente di un motivo di ricorso che sviluppa ulteriormente le doglianze già riportate ai superiori paragrafi 2.3.3 e 2.3.7 e nel quale si sostiene che dalle conversazioni intercettate non si evidenzia la consapevolezza della COGNOME circa la provenienza da delitto del denaro e si sottolinea come l’intervenuta esclusione della contestata circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen. imporrebbe una rivalutazione radicale dell’affermazione della sussistenza del predetto reato.
2.3.12.2. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e, in particolare, della norma incriminatrice di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000, nonché manifesta illogicità della motivazione, anche sub specie di travisamento relativamente all’accertamento del dolo specifico nei reati di emissione di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti contestati ai capi 8, 12, 13, da 15 a 25, da 27 a 31, da 33 a 53, 53A, e da 54 a 56.
Trattasi anche in questo caso di un motivo di ricorso che sostanzialmente sviluppa argomentazioni già affrontate nei ricorsi originari presentati nell’interesse di NOME COGNOME (v. sup. par. 2.3.5) ed anche di altra imputata (v. sup. par. 2.2.3 e 2.2.4 in relazione al ricorso di NOME COGNOME) e nel quale si denuncia un’erronea interpretazione dell’elemento finalistico del decreto legislativo citato ed il travisamento probatorio con riguardo alla consapevolezza dell’imputata (anche nell’ottica del conseguente dolo specifico richiesto per la configurabilità del reato di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000) dell’assenza del requisito di “esportatri abituali” delle società coinvolte.
2.3.13. Con memoria sottoscritta in data 26 novembre 2024 dal difensore Avv. COGNOME è stata, inoltre, effettuata una replica argomentata alle doglianze contenute nel ricorso del Procuratore generale e si sono sostanzialmente evidenziate l’inammissibilità del predetto ricorso, nel quale è stata proposta una differente lettura ed interpretazione del materiale probatorio raccolto, nonché la conseguente erronea pretesa applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
2.4. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.4.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento, in particolare, all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000 i relazione al profilo della qualificazione delle operazioni intervenute con la società c.d. cartiere in termini di operazioni “soggettivamente inesistenti”, nonché con riferimento all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 e alle altre norme di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, relativamente al profilo che concerne l’omessa dichiarazione dei redditi da parte della società RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo alla ricorrente in relazione ai reati contestati.
Sulla premessa che l’affermazione della penale responsabilità della ricorrente riguarda i reati di cui ai capi 12, 13 e 85A della rubrica delle imputazioni, rileva l difesa della ricorrente che la sentenza impugnata ha chiarito che, sulla base di quanto emerso dalle conversazioni intercettate, gli amministratori “di fatto” della predetta società sono stati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME – quindi soggetti diversi da NOME COGNOME – e detta situazione renderebbe quindi immotivata e contraddittoria l’affermazione della penale responsabilità di quest’ultima.
2.4.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000 ed al ruolo di amministratore di fatto di NOME COGNOME all’interno della RAGIONE_SOCIALE
Rileva la difesa della ricorrente che, pur non essendo, come detto, NOME COGNOME considerata amministratrice di fatto della predetta società, gli unici elementi a carico della stessa sono quelli indicati a pag. 73 della sentenza impugnata, peraltro condensati in apodittiche affermazioni che non tengono conto che l’imputata era solo una dipendente amministrativa della società ed era priva di potere gestorio.
Rileva, ancora, la difesa della ricorrente che dal contenuto delle conversazioni intercettate e richiamate sempre a pag. 73 della sentenza impugnata non si evince mai un espresso riferimento alla RAGIONE_SOCIALE da parte di NOME COGNOME con riguardo alla posizione della sorella NOME COGNOME.
2.4.3. Violazione di legge in riferimento all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 per insussistenza dell’elemento perfezionativo del reato costituito dall’omessa dichiarazione IVA per l’anno di imposta 2018 così come contestato al capo 85A ed omesso esame di un motivo di appello.
Rileva, al riguardo, la difesa della ricorrente che la Corte di appello avrebbe totalmente omesso la trattazione della posizione di NOME COGNOME e degli altri coimputati in ordine al reato oggetto di contestazione nel capo indicato.
In ogni caso, aggiunge la difesa della ricorrente, difetterebbe in capo alla COGNOME l’elemento soggettivo (dolo specifico) necessario per la configurabilità del reato ivi contestato atteso che, come netto, la stessa non rivestiva il ruolo di amministratrice di fatto della predetta società.
2.4.4. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. proc. pen.
Si duole la difesa della ricorrente del fatto che nella determinazione del trattamento sanzionatorio irrogato alla stessa non si è adeguatamente tenuto conto del ruolo assolutamente marginale rivestito dalla stessa, della sua incensuratezza e della giovane età, avendo la Corte di appello immotivatamente disatteso le argomentazioni difensive sul punto e quindi erroneamente deciso di non riconoscere alla stessa le circostanze attenuanti generiche.
2.4.5. Con atto datato 25 novembre 2024, intestato “motivi nuovi”, la difesa della ricorrente ha dedotto violazione di legge e vizi di motivazione in relazione all’applicazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 con riguardo all’accertamento del dolo specifico richiesto per la configurabilità dei reati di cui ai capi 12 e 13 dell rubrica delle imputazioni.
L’atto contiene lo sviluppo argomentato di questioni già esposte nei primi tre motivi di ricorso sopra riassunti e presentati nell’interesse dell’imputata. Si ribadisce nel documento che la società RAGIONE_SOCIALE era amministrata di fatto da soggetti diversi dalla ricorrente la quale rivestiva in seno alla stessa mere funzioni amministrative e che vi sarebbe stato un travisamento del contenuto delle conversazioni intercettate.
2.5. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.5.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento al capo 1 della rubrica delle imputazioni in relazione all’art. 416 cod. pen.
Si duole, innanzitutto, la difesa del ricorrente del fatto che la Corte di appello non avrebbe prodotto una motivazione adeguata rispetto alle argomentazioni difensive prospettate in sede di gravame.
Ricorda, in particolare, la difesa del ricorrente di aver sottoposto alla Corte di appello e ribadisce in questa sede:
che difetterebbero nel caso in esame i tratti distintivi di necessari per la configurabilità del reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen. essendo tutte le attività compiute strettamente finalizzate alla commissione delle singole condotte criminose contestate, ancorché sotto un’unica regia, ma non alla realizzazione di
un programma criminoso indeterminato che va al di là della consumazione dei singoli reati-fine;
che difetterebbero altresì una struttura associativa autosufficiente, un vincolo stabile e permanente tra gli associati ed un programma criminoso astratto;
che il profilo organizzativo delle attività delittuose si era di fatto ridotto binomio NOME COGNOME/NOME COGNOME al quale sarebbero rimasti estranei gli altri asseriti sodali;
che il fatto che NOME COGNOME pur essendo la figura centrale attorno alla quale ruotava il sodalizio, non è stato riconnpreso tra i soggetti ai quali è stato contestato il reato associativo, farebbe venir meno la configurabilità del reato stesso;
che il fatto che NOME COGNOME si avvaleva per il compimento delle attività di membri della propria famiglia avrebbe richiesto un maggiore supporto argomentativo per la configurabilità del reato associativo;
che non vi era un rapporto tra tutti i sodali essendo COGNOME, COGNOME, COGNOME e Lione legati ad autonomi rapporti solo con il COGNOME ed il COGNOME;
che difettava in ogni caso l’elemento soggettivo richiesto dalla legge per la configurabilità del reato de quo.
La Corte di appello non si sarebbe quindi confrontata con i sopra indicati elementi dedotti dalla difesa.
2.5.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per erronea applicazione nel caso di specie dell’art. 416 cod. pen. e alla qualifica di organizzatore allo stesso attribuita.
Si duole, al riguardo, la difesa del ricorrente del ruolo attribuito all’imputat in seno all’associazione contestata rappresentando che in sede di appello aveva evidenziato:
che l’attività dell’odierno ricorrente si era limitata alla commercializzazione di gasolio per autotrazione camuffato da gasolio agricolo, nonché alla partecipazione ad alcune riunioni con i pretesi sodali;
che il predetto era stato assunto dalla M.P. nel 2018 ma che la realizzazione del pactum sceleris era collocata in epoca precedente (2017) con la conseguenza che il COGNOME non poteva aver preso parte alla costituzione del sodalizio e non poteva considerarsi come membro stabile del sodalizio stesso;
che lo stesso non aveva mai svolto l’attività di coordinamento degli altri soda li.
Anche in relazione a detti profili, sostiene la difesa del ricorrente, la Corte d appello nella sentenza impugnata non si sarebbe confrontata con le predette argomentazioni difensive.
2.5.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento al capo 4 della rubrica delle imputazioni in relazione al contestato reato di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen.
Sulla premessa che nel capo di imputazione indicato si contesta al COGNOME il reato di autoriciclaggio per avere impiegato nell’attività imprenditoriale di ristorazione della RAGIONE_SOCIALE la somma di 420.000 euro asseritamente proveniente dalla consumazione di reati fiscali e tributari, così da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, rileva la difesa del ricorrente che nel caso in esame difetterebbe la compiuta individuazione del reato presupposto non potendo la contestazione tradursi in una inversione dell’onere della prova imponendo all’imputato di documentare l’origine dei propri investimenti.
Rappresenta altresì la difesa dell’imputato che la prova della consumazione di tale reato è stata dedotta dal Giudici di merito dal contenuto di conversazioni intercettate dalle quali non emerge con sicurezza che il COGNOME avrebbe utilizzato per la ristrutturazione del locale (anch’essa non provata) proprio il denaro derivante da attività illecita.
2.5.4. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento ai capi 5 e 8 della rubrica delle imputazioni per erronea applicazione degli artt. 3 e 8 del d.lgs. n. 74/2000.
Il motivo di ricorso è sostanzialmente fondato sull’assenza di prova della consapevolezza in capo al COGNOME della fittizietà di quanto dichiarato dalle società cartiere in relazione ai propri requisiti per beneficiare del regime fiscale agevolato nonché della falsità delle lettere di intento, trattandosi di verifiche meramente formali eseguite per di più in presenza di un nulla osta dell’Agenzia delle Entrate.
Anche dalla consulenza tecnica di parte a firma del dr. COGNOME era stato evidenziato come gli “indici di pericolosità” delle società asseritamente esportatrici abituali non erano percettibili a seguito di controlli da parte della M.P., essendo la documentazione di dette società in linea con la normativa regolatrice di settore.
Osserva sul punto la difesa del ricorrente che la Corte di appello si è limitata a recepire acriticamente la ricostruzione delle vicende in parola, non svolgendo alcun passaggio logico, né tantonneno motivazionale, in relazione al giudizio di colpevolezza formulato nei confronti non solo di NOME COGNOME ma di tutti gli imputati pretesi concorrenti nei reati di cui ai capi 5 e 8.
2.5.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. Con riferimento ai capi 7, 13, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 51, 52, 53, 53A, 54, 55, 56, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83 e 89 dell’imputazione.
/..—2,——.’
Sulla premessa che i reati elencati hanno ad oggetto l’emissione di fatture soggettivamente inesistenti, nonché le infedeli o omesse dichiarazioni da parte delle società ipotizzate cartiere, le quali, dopo aver acquistato il prodotto dalla M.P. lo rivendevano ai destinatari finali senza versare l’IVA a questi addebitata sulla cessione e che le fattispecie contestate risultano complessivamente ascritte oltre che in capo ai rappresentanti di diritto delle società di volta in volta interessate anche al COGNOME quale sodale, che avrebbe assicurato con il lavoro svolto l’approvvigionamento del prodotto e l’incasso di profitti illeciti nell consapevolezza della loro provenienza da soggetto interposto, ovvero gestore del prodotto energetico di apparente proprietà delle società depositante ma in realtà immesso in consumo dalla M.P. nonché, ancora, sodale che ha concretamente assicurato sino alla fase di fatturazione e seguito con il proprio lavoro l’organizzazione della vendita del prodotto della M.P. per il tramite di società false esportatrici abituali, rileva la difesa del ricorrente che anche in questo caso non vi è prova:
delle illiceità delle operazioni;
della effettiva interferenza dell’imputato nelle operazioni stesse.
Conclude, pertanto, la difesa del ricorrente, che le doglianze difensive al riguardo non hanno trovato risposta da parte della Corte di appello.
2.5.6. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riguardo ai parametri di dosimetria della pena di cui all’art. 133 cod. pen. nonché per avere escluso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Il motivo di ricorso contiene sostanzialmente le medesime argomentazioni di altri ricorsi sul punto sopra menzionati (v. superiori paragrafi 2.2.7, 2.2.8, 2.3.4, 2.3.5 e 2.4.4).
2.6. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.6.1. Violazione di legge in relazione all’art. 129 cod. proc. pen. per non avere la Corte di appello compiuto la necessaria doverosa valutazione in ordine alla presenza di cause di non punibilità ai sensi del citato art. 129 cod. proc. pen.
2.7. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.7.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 110 e 416-bis cod. pen.
Sulla premessa che la condotta ascritta al Mercadante si sarebbe estrinsecata nell’ambito del reato associativo nella gestione di cinque società cartiere (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE) mentre
poi sono state contestate all’imputato le violazioni di cui al d.lgs. n. 74/2000 con riferimento alle sole società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, rilevano i difensori del ricorrente che si sarebbe resa necessaria un più attenta e scrupolosa motivazione sul punto da parte dei Giudici di merito.
Contesta, poi, la difesa del ricorrente, anche attraverso richiami della giurisprudenza in materia, la carenza dei requisiti per ritenere sussistente il vincolo associativo e per distinguerlo dal concorso di persone nel reato continuato e rileva che la mera eventuale partecipazione a reati-fine da parte del COGNOME, al quale era stato affidato il compito delimitato e circoscritto della gestione operativa esterna della società RAGIONE_SOCIALE, non consente ex se di ritenerlo concorrente nel reato associativo.
Il COGNOME non avrebbe, poi, partecipato alle riunioni indicate dai Giudici di merito ed aventi contenuto organizzativo del programma delittuoso ed anche le stesse modalità di ripartizione degli utili sarebbero circostanze dimostrative della estraneità dell’imputato al sodalizio criminale.
A ciò si aggiunge che, a fronte di un sodalizio contestato come avente origine nel gennaio 2017, il Mercadante vi avrebbe fatto ingresso solo il 6 novembre 2017 e vi avrebbe preso parte solo fino al 16 maggio 2018 epoca in cui la società RAGIONE_SOCIALE è stata chiusa.
2.7.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione ai delitti di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/2 contestati ai capi 12, 13 e 85A.
Rileva, innanzitutto, la difesa del ricorrente la contraddittorietà della motivazione contenuta nella sentenza impugnata (pagg. da 71 a 73) nella quale, a fronte di un addebito che vede il COGNOME quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, nella sentenza si afferma che lo stesso era deputato alla esecuzione delle disposizioni ricevute da altri coimputati in relazione ai rapporti con la clientela, situazione che si porrebbe in un rapporto di incompatibilità logica, prima ancora che giuridica, con il ruolo di “amministratore di fatto” attribuito allo stesso.
La sentenza impugnata avrebbe, inoltre, omesso di considerare due aspetti segnalati dalla difesa:
la comparsa del Mercadante nelle vicende solo a far tempo dal giorno 6 novembre 2017 allorquando la società RAGIONE_SOCIALE risultava essere già operativa (fin dal 7 ottobre 2017) nel settore dello stoccaggio e della nazionalizzazione del prodotto gasolio per autotrazione che la vedeva contrattualmente legata alla M.P.;
b) il fatto che, a seguito degli accordi intervenuti con la M.P., il COGNOME aveva individuato, prima dell’intervento del COGNOME, nel Vivese il soggetto di sua fiducia che avrebbe dovuto gestire tali rapporti.
2.7.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione alla prova del delitto di cui all’art. 5 del d.l n. 74/2000 contestato al capo 85A della rubrica delle imputazioni.
Rileva la difesa del ricorrente che secondo la giurisprudenza il delitto de quo può essere commesso solo da chi, secondo la legislazione fiscale, è obbligato a compiere i relativi adempimenti, potendosi ravvisare il concorso di altri soggetti solo qualora gli stessi abbiano istigato l’autore materiale della condotta o ne abbiano rafforzato il proposito criminoso, condotte queste che non risulta che il COGNOME abbia tenuto.
2.7.4. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione alla prova del delitto di cui all’art. 8 del d.l n. 74/2000 contestato all’imputato al capo 50 della rubrica delle imputazioni.
Sulla premessa che detto reato è stato ascritto all’imputato quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, rileva la difesa del ricorrente:
che non soso stati debitamente esplicitati nella sentenza impugnata gli elementi dai quali desumere che il Mercadante rivestiva tale ruolo in seno alla predetta società;
che l’unico elemento evidenziato sul punto dai Giudici di merito consiste nel richiamo al contenuto di una conversazione intercettata il giorno 5 novembre 2018 ma che non risulta dalle conversazioni registrate che il COGNOME sia intervenuto nei dialoghi captati interloquendo in ordine agli argomenti affrontati e concernenti l’indicata società, né lo stesso risulta essere stato evocato quale soggetto al quale richiedere informazioni in merito alla società stessa ed alle relative operazioni di fatturazione;
che, di conseguenza, non sarebbe dato comprendere sulla base di quali elementi i Giudici di merito hanno trovato conferma dell’ipotesi accusatoria.
2.7.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62-bis, 81 e 133 cod. pen.
Il motivo di ricorso vertente sul trattamento sanzionatorio riservato all’imputato, sul mancato riconoscimento allo stesso delle circostanze attenuanti generiche e sulle modalità di determinazione della pena in applicazione dell’art. 81, comma 2, cod. pen. è sostanzialmente sovrapponibile a quelli vertenti sulle medesime materie già richiamati in altri ricorsi (v. superiori paragrafi 2.2.7, 2.2.8, 2.3.4, 2.3.5, 2.4.4 e 2.5.6).
2.8. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.8.1. Violazione di legge con riferimento alla partecipazione dell’imputato al sodalizio oggetto di contestazione.
Rileva la difesa dell’imputato di avere evidenziato in sede di motivi di appello:
che l’NOME è comparso nella vicenda solo il giorno 6 novembre 2017 allorquando fu tenuta una riunione con il Vivese ed ha terminato la propria attività nei primi mesi del 2018;
il fatto che lo stesso è stato coinvolto nei fatti esclusivamente in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE società peraltro costituita anteriormente all’ingresso del ricorrente e chiusa il 16 maggio 2018;
che l’NOME deteneva solo una piccola parte (13%) del capitale della predetta società;
che l’imputato aveva poteri gestionali ridotti ed era esecutore delle direttive impartite da NOME COGNOME e da NOME COGNOME.
La Corte territoriale non avrebbe però dato risposta alle argomentazioni difensive alla stessa sottoposte, trattando argomenti che non afferiscono alla posizione del ricorrente, trascurando che l’imputato non ha avuto rapporti con la RAGIONE_SOCIALE e con il gruppo della stessa in Roma, non ha immesso capitali nella RAGIONE_SOCIALE o nella RAGIONE_SOCIALE, non ha partecipato alla creazione o alla gestione delle società che successivamente hanno preso il posto della RAGIONE_SOCIALE nella vicenda e che è uscito di scena nel febbraio/marzo 2018 mentre le attività asseritamente illecite sono proseguite sino al luglio 2019.
A nulla rileverebbe, poi, il fatto che il COGNOME ed il COGNOME hanno parlato nel corso di una conversazione intercettata del fatto che all’NOME sarebbe spettato uno “stipendio” di 8.000 euro, somma derivante dall’utile della vendita del carburante e non dalle false fatture inviate alla M.P.
2.8.2. Erronea applicazione della norma penale con riferimento al capo 85A e manifesta contraddittorietà interna della motivazione.
Rileva la difesa del ricorrente che la Corte territoriale non ha tenuto conto che il reato in contestazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000 si è consumato alla scadenza del termine per l’invio della dichiarazione da parte dell’amministratore della società (29 luglio 2019) mentre l’RAGIONE_SOCIALE aveva cessato ogni contatto con la compagine societaria a far tempo dal febbraio/marzo 2018.
2.8.3. Vizi di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio.
Il motivo di ricorso vertente sul trattamento sanzionatorio riservato all’imputato, al di là delle precisazioni riguardanti il modesto arco temporale dell’agito e lo scarso utile percepito rispetto a quanto complessivamente indicato dai Giudici del merito, nonché sul mancato riconoscimento allo stesso delle circostanze attenuanti generiche, è sostanzialmente sovrapponibile in via generale a quelli vertenti sulle medesime materie già richiamati in altri ricorsi (v. superior paragrafi 2.2.7, 2.2.8, 2.3.4, 2.3.5, 2.4.4, 2.5.6 e 2.7.5).
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2.9. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.9.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al reato di cui all’art. 416 cod. pen. contestato al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
La prima parte del motivo di ricorso ricalca sostanzialmente quanto già evidenziato da altri ricorrenti ed in particolare nel ricorso formulato nell’interesse della coimputata NOME COGNOME circa il mancato coinvolgimento del COGNOME nella imputazione associativa e circa il fatto che, contrariamente a quanto affermato dai Giudici di merito, il COGNOME è stato chiamato in altro procedimento prendente innanzi al Tribunale di Napoli a rispondere di una associazione diversa rispetto a quella oggetto del presente procedimento.
Analogamente è a dirsi di quanto ribadito nel ricorso con riguardo all’originario rapporto tra il COGNOME e la COGNOME circa gli accordi bilaterali tra gli stessi interco che comunque riguardavano una sola operazione in fase di pianificazione e non il meccanismo della frode fiscale posto in essere degli associati, altresì con riguardo alla mancata rinnovazione probatoria ex art. 603 cod. proc. pen. finalizzata ad ottenere la deposizione del Lgt. COGNOME e, più in generale, alla ricorrenza degli elementi necessari per la configurabilità del reato associativo in luogo di un concorso di persone nel reato continuato.
2.9.2. Vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione al ruolo di partecipe al ritenuto sodalizio criminoso contestato a NOME COGNOME al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
Sulla premessa che a NOME COGNOME è contestato il ruolo di tesoriere dell’associazione, rileva la difesa del ricorrente che i Giudici del merito hanno valorizzato emergenze investigative prive di valenza dimostrativa di tale ruolo, così di fatto creando un “automatismo” tra il ruolo dallo stesso svolto in seno all’impresa familiare e quello di partecipe all’associazione per delinquere.
Non si comprenderebbe, poi, come la mera gestione dei ricavi percepiti dal deposito in ragione delle attività commerciali variamente in essere possa assimilarsi automaticamente ed in toto alla spartizione degli asseriti proventi illeciti del sodalizio.
Né si potrebbe sostenere che l’ingente ammontare di denaro contante movimentato era proveniente dalle consorterie criminali cui si assumeva legato NOME COGNOME atteso che è intervenuta l’esclusione della contestata aggravante dell’agevolazione mafiosa.
2.9.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 5, 7 e 8 della rubrica del
imputazioni con riguardo all’integrazione dell’elemento soggettivo dei predetti reati nonché, in relazione al reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 contestato a capo 5, erronea applicazione della legge penale anche in ordine alla ritenuta indicazione di elementi attivi inferiori al reale, corrispondenti alle operazioni non imponibili intervenute con le c.d. società false esportatrici abituali.
Rileva la difesa del ricorrente che nei confronti dello COGNOME non risulta alcun elemento probatorio indicativo di un contributo materiale o morale dello stesso al compimento delle contestate condotte criminose. Né può essere confuso il ruolo attribuito allo stesso nel contesto associativo con il concorso nei reati-fine.
Illogico sarebbe, poi, il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale che non ha tenuto conto del fatto che il ricorrente avrebbe partecipato alle condotte contestate quando le stesse si erano già naturalisticamente concluse essendo quindi l’imputato estraneo alla struttura tipica dei reati de quibus in quanto intervenuto in un momento successivo.
Prosegue, poi, la difesa del ricorrente nel rilevare che ancorché non sia ritenuta condivisibile la tesi dell’estraneità dello Strina alle condotte in esame, non vi sarebbe comunque prova della consapevolezza dell’imputato della falsità delle lettere di intento rilasciate al deposito fiscale dalle società clienti. Infatti, la di appello si sarebbe impegnata nella ricostruzione del regime normativo di interesse, peraltro afferente non alla M.P. ma alle società cartiere, ma non avrebbe affrontato la problematica dedotta dalla difesa legata alla consapevolezza in capo alla Strina della falsità dei predetti documenti, elemento essenziale per la configurabilità del reato anche in capo allo stesso, così incorrendo nei medesimi errori logici e motivazionali che sono stati già evidenziati nell’analoga situazione dedotta nel ricorso formulato nell’interesse della coimputata COGNOME.
Ancora, contesta anche in questo caso la difesa del ricorrente, la contestuale applicazione degli artt. 3 e 8 del d.lgs. n. 74/2000 richiamando argomentazioni analoghe e sovrapponibili a quelle già evidenziate nel ricorso formulato nell’interesse della Di COGNOME.
2.9.4. Violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento ai reati di cui agli artt. 3 e 8 d.lgs. n. 74/2000 di cui ai capi 5 e 8 d rubrica delle imputazioni in relazione all’art. 1, comma 1, lett. a) e g-bis), de predetto decreto legislativo per erronea qualificazione delle operazioni di cessione come “soggettivamente inesistenti” in luogo di “simulate” con violazione del divieto del c.d. bis in idem sostanziale.
Il motivo di ricorso è sovrapponibile a quello analogo formulato nell’interesse dell’imputata COGNOME (v. sup. par. 2.2.5).
2.9.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in ordine agli aumenti di pena stabiliti per la continuazione ex art. 81, comma 2, cod. pen. e violazione degli artt. 133, 81 cpv. e 125, comma 3 cod. proc. pen. in relazione al combinato disposto degli artt. 546, comma 1, lett. e), n. 2, e 533 cpv. cod. proc. pen.
2.9.6. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al mancato riconoscimento all’imputata delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.
I due motivi di ricorso da ultimo indicati sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli in materia formulati nell’interesse della ricorrente COGNOME (v. sup. par. 2.2.7 e 2.2.8).
2.10. Ricorso nell’interesse di NOME COGNOME.
2.10.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 110 e 416-bis cod. pen.
Il motivo di ricorso, quanto alle questioni giuridiche prospettate, ricalca quello presentato nell’interesse dell’imputato NOME COGNOME di cui al superiore par. 2.7.1.
In più, la difesa del ricorrente rileva che l’ingresso dell’imputato all’interno de sodalizio criminoso, come emerge dalla sentenza impugnata, sarebbe avvenuto il 6 novembre 2017, tuttavia lo COGNOME il 18 novembre 2017 si rendeva latitante ed il 24 gennaio 2018 lo stesso veniva tratto in arresto.
Ne consegue che l’imputato, secondo la difesa del ricorrente, avrebbe preso parte all’eventuale piano criminoso solo per 12 giorni.
A ciò si aggiunge che non risulta in alcun modo provato e comunque motivato nella sentenza impugnata che lo COGNOME ha fornito un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita del sodalizio contestato.
2.10.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al delitto di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/2 contestato al capo 12 .
Sulla premessa che si contesta allo COGNOME di avere rivestito la qualità di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE mentre allo stesso erano state conferite solo mansioni pratiche ed operative, rileva la difesa del ricorrente:
a) che non vi sono elementi emergenti dalle conversazioni intercettate per ritenere che l’imputato ha esercitato poteri di direzione, organizzazione e gestione
della predetta società, nonché che sia possibile ricondurre al predetto l’utenza telefonica della società o, ancora, che lo stesso ha ricevuto deleghe per operare sui relativi conti correnti;
b) che l’ingresso dello COGNOME nelle vicende è emerso solo il giorno 6 novembre 2017 allorquando la società RAGIONE_SOCIALE risultava essere già operativa (fin dal 7 ottobre 2017) nel settore dello stoccaggio e della nazionalizzazione del prodotto gasolio per autotrazione che la vedeva contrattualmente legata alla M.P.;
che a seguito degli accordi intervenuti con la M.P. il COGNOME, prima dell’intervento dello COGNOME, si era già accordato con altri per la gestione di tali rapporti;
d) che lo COGNOME avrebbe percepito solo una quota parte dei guadagni della RAGIONE_SOCIALE in misura pari a quella degli altri imputati e del COGNOME.
2.10.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione al delitto di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/20 contestato al capo 12 .
Sulla premessa che il reato di cui al capo 12 è contestato con riferimento alle fatture emesse dal 12 ottobre al 30 dicembre 2017 e quello di cui al capo 13 è contestato con riferimento alle fatture emesse dal 2 gennaio 2018 al 26 novembre 2018, ribadisce la difesa del ricorrente che l’imputato è stato tratto in arresto il 24 gennaio 2018 e che, comunque, lo stesso si era leso latitante già dal 18 novembre 2017 con la conseguenza che le contestazioni di cui ai predetti capi sarebbero infondate non essendo neppure provato che lo COGNOME nel periodo di latitanza ha fornito un contributo operativo alle vicenda della società RAGIONE_SOCIALE
2.10.4. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62-bis, 81 e 133 cod. pen.
Il motivo di ricorso vertente sul trattamento sanzionatorio riservato all’imputato, sul mancato riconoscimento allo stesso delle circostanze attenuanti generiche e sulle modalità di determinazione della pena in applicazione dell’art. 81, comma 2, cod. pen. è sostanzialmente sovrapponibile a quelli vertenti sulle medesime materie già richiamati in altri ricorsi (v. superiori paragrafi 2.2.7, 2.2.8, 2.3.4, 2.3.5, 2.4.4’2.5.6, 2.7.5, 2.8.3, 2.9.5 e 2.9.6).
2.10.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 99 cod. pen.
Sulla premessa che la Corte di appello (pag. 79) ha ritenuto configurabile ed applicabile la contestata recidiva sulla base dei precedenti penali dell’imputato,
rileva la difesa che lo COGNOME risulta gravato da soli due precedenti penali e che mai in precedenza detta circostanza aggravante era stata contestata allo stesso.
In ogni caso, prosegue la difesa del ricorrente, non sarebbe stato spiegato dai Giudici di merito il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedent condanne, né la concreta incidenza che i nuovi reati siano indicativi di un accresciuto indice di pericolosità dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Appare, innanzitutto, doveroso, in presenza di così ampi motivi di ricorso, ricordare i limiti decisionali in materia della Corte di cassazione in quanto gli stessi si riflettono sulla ammissibilità e valutazione dei motivi stessi. Il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo de provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di atti del processo non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.
Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nei loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.
Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice.
Al Giudice di legittimità è quindi preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudic del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti
sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatori del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214).
La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, COGNOME; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, COGNOME, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che, a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME, Rv. 243838).
A ciò si aggiunge che in materia di ricorso per Cassazione, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (cfr. con riferimento a massime di esperienza alternative, Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054) dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non ad elementi meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260409).
Del resto in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Moro, Rv. 215745; Sez. 2, n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Modesto, Rv. 196955), ciò perché la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.
Ancora, come si andrà meglio ad approfondire in seguito, alcuni dei ricorrenti propongono, peraltro in via ipotetica, una ricostruzione alternativa a quella operata dai giudici di merito, ma, in materia di ricorso per Cassazione, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza.
Deve, poi, anche ricordarsi che «In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per censurare l’omessa o erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti all’ammissibilità dell doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., nella parte in cu consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità» (Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012 – dep. 2012, COGNOME e altri, Rv. 254274).
A ciò si aggiunge che «In tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione» (Sez. 2, n. 9242 del 8/2/2013, Reggio, Rv. 254988).
Inoltre – al fine di dare immediata e complessiva risposta a tutte le doglianze contenute nei ricorsi sopra riassunti nelle parti in cui si lamenta la omessa risposta da parte della Corte di appello a questioni dedotte in sede di gravame – va
ricordato che, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, nella motivazione della sentenza, il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. (in questo senso v. Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, COGNOME, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24.10.2005, dep. 2006, COGNOME, Rv 233187).
Del resto, questa Corte ha chiarito che in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicché, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione. (Sez. 2, n. 29434 del 19.5.2004, COGNOME, Rv. 229220; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, dep. 2014, Cento, Rv. 259643).
Quanto detto vale anche per le memorie difensive ex art. 121 cod. proc. pen. depositate in sede di giudizio di merito atteso che «L’omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità, ma può influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive» (Sez. 1, n. 26536 del 24/06/2020, Cilio, Rv. 279578).
Con riguardo, poi, agli esiti delle attività di intercettazione, fermo restando che «In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità» (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar,
Rv. 263715 – 01), va anche ricordato che «In materia di intercettazioni telefoniche , costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (ex ceteris: Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337 – 01).
Occorre, infine, fin da subito ricordare (anche se poi si ritornerà più specificamente sulla problematica) che quasi tutti i ricorsi in esame vedono come argomento di contestazione “trasversale” la indinnostrata prova in capo agli imputati dell’elemento soggettivo dei reati agli stessi rispettivamente in contestazione.
Sul punto, come ha già avuto modo di precisare già in tempi remoti questa Corte Suprema, «ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente, essendo la volontà ed i moti dell’anima interni al soggetto, essi non sono dall’interprete desumibili che attraverso le loro manifestazioni, ossia attraverso gli elementi esteriorizzati e sintomatici della condotta. … Ne deriva che i singoli elementi e quindi anche quelli soggettivi attraverso cui si estrinseca l’azione, inerenti al fatto storico oggetto del giudizio, impongono una loro analisi la quale, essendo pertinente ad elementi di fatto, costituiscono appannaggio del giudizio di merito, non di quello della legittimità che può solo verificare la inesistenza di vizi logici, la correttezza e la compiutezza della motivazione, l’assenza di errori sul piano del diritto, così escludendosi in tale sede un terzo riapprezzamento del merito» (Sez. 1, n. 12726 del 28/09/1988, dep. 1989, Alberto, Rv. 182105).
Del resto, considerato che, come rilevato in dottrina, la «doloscopia» non è stata ancora inventata, e che quindi il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, appare evidente che le forme esteriori della condotta sono elementi che ben possono essere utilizzati dal giudicante come prova logica per la qualificazione dell’elemento soggettivo della condotta stessa costituendo indici sintomatici della volontà dell’agente.
Sulla base dei principi sopra esposti vanno dunque esaminati gli odierni ricorsi non prima di aver doverosamente dato atto che la sentenza della Corte di appello contiene anche legittimi richiami alla sentenza di primo grado in conformità al consolidato orientamento di questa Corte che ritiene che la motivazione per relattonem sia legittima «quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;
fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione». (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216664).
Da ciò ne consegue che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione» (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595), da cui ne deriva che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima, sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazion delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale» (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 – 01).
Tutto ciò doverosamente premesso, al fine di affrontare compiutamente le questioni dedotte nei ricorsi innanzi a questa Corte di legittimità, occorre altresì brevemente inquadrare nello loro sviluppo storico e procedimentale le vicende che hanno portato all’elevazione delle imputazioni nei confronti degli odierni ricorrenti.
Come ricostruito dai Giudici di merito il presente procedimento trae origine da un’indagine condotta dalla DDA di Ancona (oltre che da altri Uffici Giudiziari inquirenti) in cui si evidenziavano contatti fra i soggetti interessati ad effettuar transazioni sospette aventi come oggetto il commercio di carburante.
Dalle captazioni telefoniche emergeva il nome della società romana RAGIONE_SOCIALE che avrebbe dovuto fungere da base di carico e che operava in qualità di deposito fiscale ai fini accisa, ossia soggetto autorizzato a ricevere, detenere e spedire merce in regime di sospensione dei diritti di accisa, quindi, senza avervi ancora pagato tale imposta.
Dalle indagini emergeva che la RAGIONE_SOCIALE, dal mese di giugno 2017, aveva effettuato rilevanti versamenti di accise a fronte di quasi una totale assenza di versamenti IVA, lasciando dedurre che nelle operazioni con il cliente finale venissero interposte altre società.
Inoltre, l’agenzia delle Dogane e dei Monopoli sottolineava come la capacità del deposito fosse troppo esigua per rivendere il gasolio oggetto delle transazioni, circostanza che, considerata unitamente alla precedente, faceva pensare ad una schermatura delle effettive operazioni.
Gli atti venivano quindi trasmessi alla Procura della Repubblica di Roma per competenza.
Nel frattempo, nel corso delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Napoli sul clan COGNOME emergevano gli interessi di NOME COGNOME nel settore petrolifero; in particolare, emergevano gli investimenti di quest’ultimo in depositi commerciali, e poi fiscali, fra i quali quello della M.P., per farvi transita carburante in violazione delle norme in materia di IVA e accise.
Nel corso delle proprie attività, il COGNOME risultava coadiuvato da NOME COGNOME il quale curava, unitamente ad altri uomini di fiducia come il nipote e l’odierno imputato NOME COGNOME, le diverse trattative di acquisto dei depositi, rapportandosi al primo ogni volta in cui vi erano decisioni da prendere.
Dalle intercettazioni, emergevano, inoltre, i costanti contatti del COGNOME con membri notoriamente appartenenti alle famiglie camorristiche dei territori campani e calabresi, fra le quali i COGNOME, i COGNOME, i COGNOME, i COGNOME ed i COGNOME, originari di Locri ma operanti su Roma.
I rapporti fra il COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE, in particolare con NOME COGNOME (che aveva preso le redini dell’azienda in grave crisi di liquidità dopo la scomparsa del marito), iniziavano nel gennaio del 2017.
Dopo un primo contatto avvenuto su Facebook, la COGNOME chiedeva una fornitura di prodotto e si incontrava con il COGNOME presso il deposito della RAGIONE_SOCIALE
Emergeva altresì dalle attività di intercettazione che il COGNOME aveva proposto alla COGNOME di costituire una società di fatto, situazione che ha trovato conferma negli esiti di successive intercettazioni che confermavano un’intensa collaborazione tra i due al punto che il COGNOME, in una conversazione intercettata in data 11 febbraio 2017, riferiva a tale NOME COGNOME di avere acquisito il deposito della COGNOME assieme al COGNOME, che poi incontrava ad Afragola aggiornandolo su l’affare.
Sin dai primi mesi del 2017 la M.P. – sempre per come è emerso da conversazioni intercettate – veniva quindi utilizzata come deposito di carburante.
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Emergeva, poi, dalle successive conversazioni intercorse tra la COGNOME ed il COGNOME la tipologia di attività da svolgere al fine di realizzare un sistema di frode fiscale “carosello” assieme all’originario coimputato COGNOME, con il COGNOME interessato a ricevere aggiornamenti sul rilascio della licenza di deposito fiscale che aveva richiesto, insieme alla COGNOME, presso l’ufficio delle Dogane.
Il “deposito fiscale” è un deposito fisico ed è, nel contempo, un regime fiscale rivolto alla custodia di beni nazionali, comunitari ed extracomunitari. Lo scopo del deposito fiscale è quello di poter posticipare l’assolvimento dell’imposta al momento del prelievo dei beni dal deposito per la loro vendita nel mercato di riferimento
Dopo i primo accordi, la licenza di riconoscimento della M.P. come “deposito fiscale” veniva ottenuta nel maggio 2017 ed il deposito era quindi autorizzato a ricevere, detenere e spedire merce in regime di sospensione dei diritti di IVA e accisa, quindi senza avervi ancora pagato tale imposta.
Da conversazioni intercettate nel gennaio 2018 fra il COGNOME e tale NOME COGNOME emergevano anche i problemi finanziari della COGNOME prima dell’ingresso nella società del primo che sosteneva di aver erogato alla società romana 500.000 euro provenienti dal “cugino” NOMECOGNOME e di avere invitato la predetta a rifiutare ulteriori offerte, essendo in grado di versare altra liquidità nel deposi grazie al COGNOME.
Tale finanziamento veniva poi accertato anche in virtù di ulteriori conversazioni intercettate in data 14 febbraio 2018 e in data 10 marzo 2018 della COGNOME con lo stesso COGNOME, COGNOME e NOME COGNOME, conversazioni dalle quali emergeva la riconoscenza della donna nei confronti del COGNOME per avere risolto i problemi finanziari della società.
Le successive captazioni dimostravano anche che il deposito non aveva goduto soltanto di ulteriori finanziamenti dal clan COGNOME tramite la figura di COGNOME ma anche della protezione degli interessi di altri clan (si faceva riferimento a “calabresi” e Casamonica).
Le indagini proseguivano anche mediante intercettazioni ambientali indirizzate sul deposito fiscale della M.P., le società cartiere e le false esportatric abituali, dalle quali emergeva il ruolo centrale rivestito dalla società romana (della quale rappresentante legale era NOME COGNOME mentre procuratrice speciale ed amministratrice di fatto era NOME COGNOME) nei complessi meccanismi di frode fiscale che consentivano l’acquisizione di vertiginosi profitti.
In particolare, fra il 10 gennaio 2017 ed il 31 gennaio 2018, il deposito veniva utilizzato sia come serbatoio di appoggio da parte di altre società depositanti,
gestite da soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, che stipulavano con la M.P. contratti di conto deposito fittizi il tutto:
mediante l’utilizzo di società cartiere interposte nell’acquisto da fornitori esterni che non adempivano agli obblighi fiscali dato che, ad importare e vendere il petrolio era la M.P. che, tramite l’emissione di fatture false da parte delle cartier non risultava tenuta al versamento dell’IVA;
b) al fine di acquisire dall’estero carburante da non rivendere ai veri clienti finali ma interponendo a valle altre società cartiere che fornivano false dichiarazioni di intento, pur non avendo la qualifica di esportatori abituali.
A quel punto interveniva una modifica normativa – rilevante per i fatti-reato in contestazione dal 1° febbraio 2018 al giugno 2019 – in forza della quale il gestore del deposito diveniva solidalmente responsabile del versamento dell’imposta.
A seguito di tale modifica normativa la M.P. decideva di acquistare carburante in regime intracomunitario (quindi caratterizzato da neutralità ai fini di imposizione IVA) tramite l’utilizzo a monte sia di “counduit companies” (società che non soddisfano i requisiti di beneficiario effettivo dei proventi che percepiscono, in quanto, li retrocedono ad altre società, al solo scopo di ottenere vantaggi fiscali altrimenti indebiti) all’estero, sia di società filtro nazionali.
La RAGIONE_SOCIALE immetteva poi il carburante nel mercato a prezzi vantaggiosi, facendolo solo formalmente vendere da società cartiere che acquistavano il carburante con transazioni non imponibili IVA, grazie alla presentazione di false dichiarazioni di intento, fingendo di avere la qualifica di “esportatrici abituali”.
Infatti, secondo la normativa di settore (art. 8, comma 2 del decreto IVA nonché artt. da 1 a 5 del dl. 29 dicembre 1983, n. 746, conv. nella I. n. 17/1984), l’acquisto dei beni senza imposta è permesso anche ai cd. “esportatori abituali” cioè a soggetti che, in un dato periodo di tempo, hanno effettuato esportazioni per almeno il 10% del loro volume di affari. A tali soggetti viene concesso il diritto di acquistare, nell’anno successivo, la stessa quantità di beni senza il pagamento di IVA. La norma è fondata sulla presunzione che vi sia continuità nelle esportazioni di una impresa ed il regime di “non imponibilità” può riguardare dunque, oltre che le esportazioni, anche le cessioni interne agli esportatori abituali.
Va detto fin da subito, dato che la situazione è rilevante in relazione a quanto sarà oggetto di successiva trattazione, che gli esportatori abituali che intendono acquistare o importare senza l’applicazione dell’IVA debbono trasmettere telematicamente all’Agenzia delle Entrate la cosiddetta dichiarazione di intento, che, unitamente alla ricevuta di presentazione rilasciata dalla stessa Agenzia delle Entrate, deve essere, poi, consegnata al fornitore o prestatore oppure in dogana.
L’esportatore può avvalersi di tale facoltà nei limiti del plafond. Ciò, tuttavia, non lo obbliga ad esportare il bene acquistato senza imposta. Se il bene è esportato, l’acquisto in Italia senza pagamento di imposta equivale a definitiva non tassazione di quel bene. Se invece il bene viene rivenduto in Italia, l’imposta sarà applicata sulla rivendita nel mercato interno.
Il meccanismo sopra astrattamente descritto si presta, come vedremo, ad operazioni fraudolente da parte di chi, sedicente esportatore abituale, acquista dei beni senza IVA, esibendo al fornitore o addirittura – come accertato nel caso in esame – concordando con lo stesso l’utilizzazione di una dichiarazione di intento falsa si pone nella condizione di rivendere i beni applicando VIVA ma omettendo di versarla al fisco.
Nel caso in esame è, infatti, emerso che ci si trovava di società definibili come “cartiere” che cedevano, solo formalmente, il carburante a terzi, e non versavano, poi, all’Erario l’IVA che veniva spartita fra tutti i soggetti coinvolti.
A fornire le società cartiere e le false esportatrici abituali erano il COGNOME e il COGNOME, il quale, come emerso in diverse intercettazioni – fra cui quella con il commercialista NOME COGNOME – aveva accesso ad utenze delle società cartiere, senza però figurarvi ufficialmente nei quadri.
Il COGNOME intratteneva rapporti anche con NOME COGNOME che incontrava il 18 aprile 2019 a Roma, assicurandole di essere in grado di fornire all’organizzazione un indefinito numero di società ed informandola sui prezzi vantaggiosi – da platts -30 a platts -50 – a cui i clienti finali sarebbero riusci acquistare il prodotto.
Tra le società interposte venivano individuate la RAGIONE_SOCIALE nel ruolo di falsa depositante e la RAGIONE_SOCIALE con il ruolo di falsa esportatrice abituale.
Di dette società si dirà meglio in seguito ma deve comunque essere fin da subito ricordato che, come ricordato dai Giudici di merito, dalle indagini era emerso che in particolare la RAGIONE_SOCIALE era riconducibile alle persone degli odierni ricorrenti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME che durante le conversazioni intercorse con il COGNOME sulle utenze telefoniche della società utilizzavano degli alias.
A curare gli interessi di COGNOME – emerge sempre dalle sentenze di merito un ruolo di particolare rilevanza veniva svolto sul territorio romano da NOME COGNOME
In contemporanea veniva anche posto in essere un meccanismo di frode dell’accisa dovuta sul carburante venduto indebitamente come gasolio agricolo.
Infatti, nel giugno del 2017 la M.P. era stata autorizzata ad effettuare l’immissione in consumo di gasolio per uso agricolo. Tuttavia, dall’esame della documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza emergeva l’immissione sul mercato di un quantitativo superiore a quello annotato nei registri della società che veniva di fatto sottratto al tributo.
Emergeva, in particolare, che il gasolio trasportato era stato fatto apparire come gasolio agricolo quando invece era per autotrazione, così consentendo ai soggetti agenti di lucrare per effetto delle aliquote agevolate riconosciute al primo tipo di carburante.
Dal materiale probatorio – hanno osservato i Giudici di merito – si ricava anche che le società emetteva dei DRAGIONE_SOCIALE in bianco dichiarando la quantità di gasolio solo nel caso di controllo.
Altro sistema utilizzato era, altresì, quello di predisporre sul camion di trasporto del gasolio un pulsante che consentiva all’autista, se veniva fermato per un controllo, di procedere alla colorazione del carburante dal giallo al verde (colore quest’ultimo del gasolio agricolo).
Così ricostruite o, in estrema sintesi e sulla base del contenuto delle conformi (al riguardo) sentenze di merito, le vicende che hanno dato luogo alle principali imputazioni, occorre ora passare all’analisi dei ricorsi.
Osserva l’odierno Collegio che il ricorso del Procuratore generale (in relazione al quale è stata presentata una memoria di replica da parte della difesa dell’imputata NOME COGNOME) nel quale si lamenta l’intervenuta esclusione della circostanza aggravante della “agevolazione mafiosa” (così testualmente indicata: «con l’aggravante di avere agito il sodalizio anche al fine di agevolare con le condotte illecite perpetrate organizzazioni criminali di stampo mafioso e segnatamente il clan di camorra COGNOME, il clan COGNOME ed il clan dei Casalesi») di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., contestata sia in relazione al reato associativo di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni, sia in relazione ad alcuni dei reatifine, è fondato.
Il G.u.p., nell’affermare la sussistenza della predetta circostanza aggravante (v. pagg. 134-148 della relativa sentenza) – tuttavia non in relazione al clan COGNOME – aveva, in sintesi, evidenziato quanto segue:
che i profitti illeciti delle attività compiuti dagli odierni imputati e da a venivano divisi all’interno del sodalizio tra tutti coloro che agivano e vi partecipavano;
per quanto riguarda il clan COGNOME (la cui esistenza è stata accertata da numerose sentenze definitive) dalle indagini è emerso pacificamente che NOME COGNOME muoveva i capitali del clan, con cui operava in stretto contatto, investendo nell’economia legale capitali provenienti dal predetto clan, di cui NOME COGNOME era figura di vertice e, comunque, colui che decideva le scelte economiche e militari del clan, pur essendo particolarmente accorto a comparire il meno possibile;
che le somme utilizzate per il perfezionamento del piano criminoso fossero provenienti dal clan COGNOME appare indubbio, avuto riguardo non solo agli accertati interessi del clan COGNOME nel settore dei carburanti, ma anche dalla circostanza che, dal complesso delle indagini svolte dalle diverse Procure Distrettuali, NOME COGNOME non risulta essersi mai distaccato dalla sua famiglia di origine, né dal clan che da quest’ultima è scaturito; inoltre, lo stesso non risulta avere mai svolto alcuna attività lavorativa e, ciononostante, nelle intercettazioni non solo NOME COGNOME ma anche tutti gli altri soggetti captati, lo descrivono come titolare di grandissime disponibilità economiche, individuate quasi come illimitate dai colloquianti,
che è emerso, attraverso una serie di dialoghi intercettati (richiamati nella sentenza) che NOME COGNOME era espressione del clan del cugino NOME COGNOME ed operava per conto e nell’interesse di NOME COGNOME avendo a disposizione i relativi capitali e che era stata fornita “protezione” al deposito della M.P., allontanando i Casamonica e i “calabresi” proprio a seguito dell’intervento del clan campanoi
che quanto al clan dei “casalesi” gli elementi acquisiti sulla base delle intercettazioni non pongono dubbi in ordine al fatto che NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME erano entrati in affari come referenti delle consorterie criminali di riferimento e muovevano ingenti capitali partecipando al sodalizio come espressione della loro consorteria criminale;
che l’apporto di capitali dei clan mafiosi nel sodalizio gestito tramite la RAGIONE_SOCIALE. ha portato ad impennate di profitti che hanno garantito importanti guadagni ai partecipanti al sodalizio stesso che dunque, a loro volta, a cascata, avevano
aumentato la potenza economica e dunque agevolato in senso criminale i clan dei quali alcuni degli stessi imputati erano espressione;
che la presenza dei clan non era una presenza silente ma era elemento vistoso che aveva irrimediabilmente cambiato le sorti dell’azienda, diventata strumento per “macinare illecito”, consentendo ai capitali criminali di infilarsi nelle maglie dell’economica lecita, alterandone irrimediabilmente i connotati.
La Corte di appello (pag. da 51 a 54 della relativa sentenza), per contro, ha evidenziato di non condividere quanto affermato dal G.u.p. in ordine alla ricorrenza della predetta circostanza aggravante e, al riguardo, ha evidenziato:
che non sono emerse nel processo prove in merito al fine di agevolazione di associazioni di stampo mafioso quali il clan dei “casalesi” ed il clan “COGNOME” (quest’ultimo, come detto, già escluso anche dal G.u.p.) e che gli imputati risultano avere agito al solo fine di ottenere vantaggi economici personali;
che anche se dalle conversazioni intercettate è emerso che la COGNOME, preoccupata dai controlli delle forze dell’ordine, cogliendo il suggerimento di NOME COGNOME, si era detta disposta ad inserire nel consiglio di amministrazione della M.P. anche “una personalità indicata dai casalesi” dimostra al più l’esistenza di contatti della stessa con soggetti riconducibili alla criminalità organizzata ma non la realizzazione di una condotta di agevolazione richiesta dall’art. 416-bis.1 cod. peri.;
che è emerso da una conversazione intercettata tra il COGNOME e la COGNOME che il primo ha escluso di essersi mai rivolto al cugino (NOME COGNOME;
che anche in relazione ai rapporti tra il COGNOME e tale NOME COGNOME soggetto asseritamente vicino al clan COGNOME, non sono stati acquisiti elementi probatori certi dai quali evincere il collegamento e l’agevolazione del clan di appartenenza del COGNOME da parte degli imputati;
che anche una conversazione intercettata richiamata dal G.u.p. ed intercorsa tra NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME a fondamento della configurabilità della circostanza aggravante de qua può ben essere letta in senso opposto a quello indicato dal primo Giudice.
Osserva l’odierno Collegio che nel caso in esame ci si trova in presenza di due contrapposte valutazioni di merito del materiale probatorio da parte del G.u.p. e della Corte di appello.
Non compete certo a questa Corte di legittimità stabilire quale delle contrapposte valutazioni di merito sia la più corretta essendo il compito devoluto alla Corte esclusivamente quello di verificare se possano ravvisarsi nel caso in esame eventuali vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Va detto subito che le difese di alcuni dei ricorrenti hanno sostenuto (anche nella discussione orale in udienza), che in base ai principi di diritto che sono stati sopra richiamati al superiore par. 1, il ricorso del Procuratore generale dovrebbe essere dichiarato inammissibile in quanto proponente una diversa lettura degli elementi probatori (in particolare le conversazioni intercettate).
Rileva la Corte che le doglianze difensive sarebbero certamente da ritenersi fondate qualora la parte ricorrente avesse cercato di accreditare o quantomeno di proporre una lettura degli atti diversa rispetto a quella sulla quale i Giudici di entrambi i gradi di merito hanno concordato.
La situazione qui in esame è, invece, del tutto diversa atteso che il Procuratore generale con il ricorso de quo sostanzialmente finisce per fare propria la tesi del primo Giudice dolendosi, poi, dei vizi di motivazione nei quali ha ritenuto che la Corte di appello sia incorsa.
Ecco che allora compete all’odierno Collegio la verifica del rispetto dei principi di diritto in relazione alla congruità della motivazione adottata dalla Corte di appello nel momento in cui ha operato un overturning della decisione del G.u.p. poiché il contrasto di valutazione non trova il suo fondamento nella dissonanza di lettura degli atti tra la posizione di una parte processuale e quella del Giudice di merito, quanto piuttosto in quella della dissonanza di valutazioni tra i due Giudici di merito.
Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di chiarire, con un principio logicamente applicabile anche al caso in esame, che « Il giudice d’appello, in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, non è obbligato alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, ma è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte» (Sez. 3, n. 29253 del 05/05/2017, COGNOME, Rv. 270149 – 01).
In sostanza, può ritenersi principio immanente desumibile fin dai tempi della decisione delle Sezioni Unite “Musumeci” (Sez. U. n. 6682, del 4/2/1992, Rv. 191229) quello secondo il quale nel caso in cui per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e/o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può allora egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado delle notazioni critiche di dissenso in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni tra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini “integralmente” il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo
grado e consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni.
Ritiene l’odierno Collegio che tale principio non sia stato rispettato dalla Corte di appello la quale, come si evince ictu ocull dalla sentenza impugnata, non ha preso in esame tutti i corposi elementi indicati nella sentenza di primo grado in ordine alla ritenuta configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen. ma si è limitata a fare riferimento solo ad alcuni di essi, superandone immotivatamente altri.
Il vulnus ravvisabile nella motivazione della sentenza impugnata, porta pertanto a ritenere fondato il ricorso del Procuratore generale ed impone l’annullamento della sentenza stessa, limitatamente all’esclusione della circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per un nuovo giudizio su detto punto.
4. Il reato associativo: in generale.
4.1. Al capo 1 della rubrica delle imputazioni è contestato agli odierni ricorrenti NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (e ad altri giudicati separatamente) il reato di cui all’art. 416 cod. pen.
Si è già detto sopra del modus operandi del predetto sodalizio criminale.
Entrambe le sentenze di merito, con motivazioni congrue, che si integrano tra loro, non manifestamente illogiche e tantomeno contraddittorie, hanno ritenuto sussistente il predetto reato.
I Giudici del merito (v. pagg. da 86 a 134 della sentenza di primo grado e pagg. da 32 a 51 della sentenza di appello) risultano, infatti, avere attentamente esaminato il compendio probatorio relativo al contestato reato, intrecciando le emergenze degli atti di P.G. con i contenuti delle conversazioni intercettate ed operando una doverosa valutazione complessiva di detto materiale, nonché avere correttamente applicato i principi di diritto che governano la materia ed adeguatamente fornito risposta alle argomentazioni difensive dedotte in sede di appello e sostanzialmente riproposte anche in questa sede.
I motivi di ricorso sopra riassunti finiscono per condensarsi in due principali filoni.
Il primo dei quali (v. motivi di ricorso di cui ai superiori par. 2.2.1 – 2.5.1 2.9.1) è relativo al fatto che NOME COGNOME che è emerso essere il soggetto che ha intrapreso l’iniziativa delittuosa assumendo accordi con NOME COGNOME non è imputato nel presente procedimento.
Si sostiene dai ricorrenti che non sarebbe corretta l’affermazione che nei confronti dello stesso “si procede separatamente” in quanto si evidenzia che il COGNOME risulta chiamato a rispondere innanzi ai giudici di Napoli di una diversa associazione (di tipo mafioso), con diverso programma delittuoso e che comunque si sarebbe accordato con la COGNOME per la realizzazione di una singola iniziativa imprenditoriale e non per organizzare il programma delittuoso che ha dato luogo alla contestazione del reato di cui all’art. 416 cod. pen. di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
La Corte di appello (v. pag. 37 della sentenza impugnata) ha, innanzitutto, dato adeguata risposta all’assunto difensivo evidenziando come la mancata presenza del COGNOME nel presente processo non esclude la sussistenza del reato associativo perché non solo trattasi di scelta discrezionale dell’organo inquirente ma anche perché ciò che rileva è la contestazione del ruolo dal medesimo assunto nell’ambito del procedimento penale de quo nonché della condotta allo stesso contestata nell’imputazione.
Ritiene l’odierno Collegio che detta affermazione sia assolutamente corretta. Del resto, non si vede come l’iniziativa del Pubblico Ministero di procedere separatamente nei confronti del COGNOME – non importa se nel richiamato procedimento in corso a Napoli o altrove – possa incidere sulla configurabilità del reato associativo in contestazione. La decisione di non esercitare l’azione penale nel presente procedimento nei confronti del COGNOME non assumerebbe rilievo neppure nel caso in cui il predetto imputato non fosse (ancora) stato sottoposto a processo per i fatti de quibus non assumendo rilievo le scelte del Pubblico Ministero sulla valutazione dei fatti qui in esame.
La manifesta infondatezza delle doglianze difensive sul punto è, poi, anche rilevabile nell’assunto secondo il quale l’originario accordo tra il COGNOME e la COGNOME era finalizzato al compimento di una singola iniziativa imprenditoriale.
Detto assunto è infatti categoricamente smentito dalla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito e supportata da un granitico materiale accusatorio che ha consentito di verificare non solo l’estensione nel tempo delle iniziative delittuose intraprese, ma anche il fatto che il COGNOME, con la sua costante presenza (realizzata anche attraverso la delega di attività a persone di sua fiducia) e attraverso il procacciamento di società cartiere strumentali al perseguimento delle finalità illecite è risultato essere uno dei principali motori delle inizia stesse.
Il secondo filone di doglianze (v. motivi di ricorso di cui ai superiori par. 2.2.1 – 2.3.1 – 2.3.6 – 2.5.1 – 2.7.1 – 2.10.1) è sostanzialmente compendiato nel sostenere che nel caso in esame non ci si troverebbe in presenza di una
associazione per delinquere ma, ai più, di un concorso di persone nel reato continuato.
A sostegno di tale affermazione le difese dei ricorrenti hanno dedotto che erroneamente sono stati ritenuti sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 416 cod. pen. non essendo sufficiente per la configurazione di tale reato la mera reiterazione dei delitti-fine, non essendovi prova di una proiezione nel futuro di un programma delittuoso che va al di là del momento consumativo dei delitti-fine (si è sottolineato sul punto come il tempus commissi delicti del reato associativo coincide con quello della realizzazione dei reati-fine) e, ancora, che non vi era un comune accordo tra tutti i sodali dato che i coimputati COGNOME COGNOME e COGNOME (oltre a Lione) erano legati ad autonomi rapporti di interesse solo con il COGNOME ed il COGNOME e non anche con i componenti del nucleo familiare COGNOME/COGNOME.
Si sostiene, infine, che i Giudici di merito avrebbero operato un non corretto parallelismo tra i rapporti di cooperazione tra i componenti del medesimo nucleo familiare operanti in seno alla M.P. e quelli che invece debbono essere provati tra i componenti del sodalizio delittuoso.
Ritiene l’odierno Collegio la manifesta infondatezza di tali doglianze.
E’, innanzitutto, appena il caso di ricordare che come indicato fin da tempi remoti da questa Corte di legittimità (Sez. 1, n. 10107 del 14/07/1998, COGNOME, Rv. 211403 – 01; Sez. 6, n. 11413 del 14/06/1995, COGNOME, Rv. 203642 – 01) il reato associativo si caratterizza per tre elementi fondamentali:
un vincolo associativo, tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati;
una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira;
l’indeterminatezza del programma criminoso.
Come è, poi, noto il criterio distintivo tra il reato associativo ed il concorso d persone nel reato continuato va individuato nel carattere dell’accordo criminoso, che nell’ipotesi di concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati -anche nell’ambito del medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente ed al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati.
L’associazione per delinquere si sostanzia, quindi, in un accordo qualificato, che deve assumere il carattere di stabilità collegata ad un dato strutturale, anche minimale, sì da costituire il nucleo di un fatto che è esso stesso reato (anche lessicalmente l’accento è posto sul patto associativo finalizzato: “tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti”).
Questa Corte di legittimità ha, inoltre, affermato in numerose pronunce che non è necessario che l’associazione ex art. 416 cod. pen. sia costituita in maniera formale e/o sia dotata di una struttura particolarmente articolata, essendo sufficiente che siano comprovate la sussistenza della c.d. “affectio” (da intendere come consapevolezza, in capo a ciascun sodale, di far parte di una compagine criminosa più vasta e di agire per il perseguimento dei fini illeciti ad essa afferenti indipendentemente dall’esistenza di rapporti diretti con gli altri membri), nonché l’esistenza di un’organizzazione anche rudimentale, con suddivisione di ruoli tra i partecipi, sovente desumibile dalle stesse modalità di commissione dei reati-fine.
Sempre questa Corte ha, altresì, evidenziato che il requisito dell’indeterminatezza del programma criminoso non viene meno per il solo fatto che l’associazione sia finalizzata esclusivamente alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti identici o di analoga natura, giacché esso attiene al numero, alle modalità, ai tempi e agli obiettivi dei delitti progettati, che possono perciò anche integrare violazioni di un’unica disposizione di legge, senza che ciò incida sulla configurabilità del delitto associativo (v. Sez. 3, n. 2039 de 02/02/2018, dep. 2029, Papini, Rv. 274816 – 01).
Quanto, poi, ai fini probatori – come ricordato anche dal Giudice di primo grado – la sussistenza del delitto associativo può altresì desumersi dalle modalità esecutive dei reati-scopo (molte decine nella vicenda in esame), dalla loro ripetizione, dai contatti fra gli autori e dall’uniformità delle condotte, specie protratte, come nel caso di specie, per un tempo apprezzabile.
Costante al riguardo è l’affermazione secondo cui, in tema di associazione per delinquere, è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (così Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, COGNOME, Rv, 218376-01, nonché, più di recente, Sez. 2, n. 33580 del 06/07/2023, Santagata, Rv. 285126 – 02 e Sez. 2, n. 19435 del 31/03/2016, Ficara, Rv. 266670-01).
Ancora, è stato ripetutamente ribadito da questa Corte che un elemento fortemente indiziante, anche se non necessario, ai fini della dimostrazione dell’adesione del singolo ad una associazione per delinquere, e, quindi della sua
coscienza e volontà di partecipare al gruppo criminale, è costituito dalla commissione di reati conformi al piano associativo (v., ad esempio, Sez. 2, n. 35141 del 13/06/2019, COGNOME, Rv. 276740-01, e Sez. 6, n. 9117 del 16/12/2011, dep. 2012, Tedesco, Rv. 252388-01).
In tempi ancor più recenti, questa Corte di legittimità ha ulteriormente ribadito che «Nel concorso di persone nel reato continuato l’accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto volto alla sola commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, mentre le condotte di partecipazione e promozione dell’associazione per delinquere presentano i requisiti della stabilità del vincolo associativo e dell’indeterminatezza del programma criminoso, elementi che possono essere provati anche attraverso la valutazione dei reati scopo, ove indicativi di un’organizzazione stabile e autonoma, nonché di una capacità progettuale che si aggiunge e persiste oltre la consumazione dei medesimi» (Sez. 2, n. 22906 del 08/03/2023, COGNOME, Rv. 284724 – 01).
Con particolare riguardo alla materia dei reati fiscali, si è altresì evidenziato che integra la condotta di partecipazione ad un’associazione finalizzata alla commissione di reati di emissione e di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti il costante e continuo ricorso alla copertura fiscale assicurata dal rilascio di fattur per operazioni inesistenti da parte di società cartiere costituite e organizzate da un’associazione per delinquere, trattandosi di condotta che determina uno stabile affidamento del gruppo sulla disponibilità all’utilizzo del pianificato meccanismo fraudolento, mediante la costituzione di un vincolo reciproco durevole, che supera la soglia del rapporto sinallagnnatico contrattuale delle singole operazioni e si trasforma nell’adesione dell’acquirente al programma criminoso (in tal senso Sez. 3, n. 8472 del 17/01/2023, COGNOME, Rv. 284201 – 01).
Quanto, poi, alla proiezione nel tempo delle condotte delittuose ordite dagli associati appare sufficiente ricordare che la stessa emerge dalle conversazioni intercettate in una delle quali – a mero titolo di esempio – il commercialista COGNOME sostanzialmente prospetta la possibilità di rinvenire altre società cartiere.
A ciò si aggiunge, ancora, – per rispondere fin da subito alla ventilata differenza di scopi personali tra gli associati anche verso soggetti terzi che emerge dai ricorsi in esame, se non addirittura con riguardo a momenti di contrasto insorti tra gli stessi – che in tema di associazione per delinquere, la diversità di scopo personale non è ostativa alla realizzazione del fine comune, in quanto l’associazione criminosa non è esclusa dalla diversità dell’utile che i singoli partecipi si propongono di ricavare (v. Sez. 2, n. 11957 del 27/01/2023, COGNOME, Rv. 284445 – 02) e tantomeno dalla contrapposizione degli scopi personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano esclusivamente come motivi a
delinquere (v. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816 02).
Infine, deve essere anche ricordato che «In tema di associazione per delinquere, la costituzione del sodalizio criminoso non è esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più intorno a componenti della stessa famiglia perché, al contrario, i rapporti parentali o coniugali, sommandosi al vincolo associativo, lo rendono ancora più pericoloso» (Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, lussi, Rv. 261426 – 01).
Osserva l’odierno Collegio che tutti i principi legati alla corretta configurazione del contestato reato di associazione per delinquere risultano pienamente rispettati dai Giudici di merito.
Nel caso in esame i Giudici del merito hanno, infatti,S -nfatfrevidenziato, rispondendo in tal modo alle doglianze difensive, una corposa serie di elementi, esposti con motivazione adeguata e logica, tali da ritenere provato al di là di ogni ragionevole dubbio che gli imputati nel presente procedimento (ed altri soggetti nei quali si è proceduto separatamente per effetto delle scelte relative al rito) erano «legati in un vincolo di reciproca e mutua assistenza, avendo gli stessi operato sistematicamente e continuativamente per anni in modo coordinato nella gestione del commercio dei prodotti petroliferi e nella programmazione e realizzazione delle condotte illecite per realizzare ingentissimi profitti attraverso l rilevante evasione fiscale realizzata nonché una forte turbativa del mercato mediante la sleale concorrenza».
I Giudici hanno evidenziato elementi eloquenti sul momento della nascita del sodalizio, sui rapporti costantemente tenuti tra gli imputati, sulla natura illeci degli stessi (sempre riferiti al commercio dei prodotti petroliferi mediante diversi meccanismi di frode adottati utilizzando società artatamente create), sulla continuità dell’attività illecita e sulla attuata ripartizione di ruoli, risulta straordinaria chiarezza come la struttura organizzativa del sodalizio si è sovrapposta alla struttura societaria, anche con riferimento ai ruoli ed alle funzioni attribuite a ciascuno dei sodali.
Il G.u.p., ripercorrendo nel dettaglio tutti gli elementi acquisiti, si è c testualmente, quanto adeguatamente, espresso: «… non si è trattato infatti di una struttura statica, bensì di una vera e propria rete che fungeva da catalizzatore dell’affectio societatis, rete creata progressivamente dai gestori della RAGIONE_SOCIALE e dai loro collaboratori, piegando il deposito a fini illeciti con uomini di fiduci legati ad associazioni mafiose, tutti collegati dal comune progetto criminoso. Dai plurimi elementi acquisiti nel corso delle complesse e minuziose indagini espletate emerge l’esistenza di una compagine criminosa, ben strutturata sul territorio, che
ha operato per anni e durante tutto il tempo in cui sono state attive le intercettazioni, in maniera sistematica, per la realizzazione di un numero indeterminato di reati di frode fiscale, sempre con le medesime modalità e rivestendo i soggetti sempre i medesimi ruoli, continuando a cooperare tra loro anche dopo la consumazione dei singoli reati scopo concordando insieme anche modalità più sicure per evitare intralci al loro programma criminoso».
Sono stati nei provvedimenti di merito e, in particolare, nella sentenza del G.u.p., attraverso l’analisi della nascita dell’associazione (pag. 93 e segg.), del ruolo centrale rivestito dalla M.P. nei meccanismi di frode (pag. 99 e segg.), degli accordi intercorsi tra NOME COGNOME, il COGNOME ed il COGNOME (pag. 100 e segg.), di quanto emerso negli incontri tra i sodali oggetto di intercettazioni (pag. 104 e segg.), dei collegamenti con i funzionari infedeli (pag. 111 e segg.), nonché della ripartizione dei profitti (pag. 113 e segg.) motivati gli elementi che hanno portato a ritenere accertata:
la struttura gerarchica dell’associazione;
la rigida ripartizione dei ruoli tra i consociati, che si tenevano in costante contatto tra di loro e cooperavano al raggiungimento dei medesimi obiettivi, prestandosi assistenza reciproca in caso di necessità;
l’uniformità e serialità delle condotte e le modalità operative tese a ridurre il minimo rischio di essere scoperti;
la pervicacia e la capacità della compagine di operare anche dopo gli interventi repressivi dell’Autorità Giudiziaria: nessun evento sopravvenuto – né il cambio della normativa di settore, né gli arresti di COGNOME e COGNOME e i plurimi interventi della Guardia di Finanza, i fermi dei camion con gasolio contraffatto, gli accessi dell’Agenzia delle Dogane – ha portato all’interruzione dell’attività delittuosa che nel tempo si è, invece, perfezionata;
la gestione contabile unitaria;
la consapevolezza da parte di ciascun associato dei meccanismi di frode assolutamente consolidati e collaudati e del modus operandi dell’organizzazione.
La Corte di appello ha, a sua volta, fatto propri gli elementi evidenziati dal G.u.p., integrandoli e ulteriormente specificandoli, ove possibile, in tal modo adeguatamente rispondendo esplicitamente o implicitamente (nel momento in cui ha ricostruito le vicende ed ha effettuato affermazioni incompatibili con le tesi difensive) ai relativi motivi di gravame sul punto.
Nell’ottica della configurabilità del reato associativo si inseriscono poi anche le doglianze difensive riassunte ai punti b) e c) del motivo di ricorso di cui a
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superiore paragrafo 2.2.1 formulato nell’interesse dell’imputata NOME COGNOME laddove, con riferimento alla sentenza impugnata:
da un lato si contesta che un vizio di travisamento probatorio sarebbe riscontrabile in relazione alla nascita del ritenuto pactum sceleris tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME che la Corte territoriale avrebbe individuato nei primi contatti tra i due soggetti ed in particolare sulla base di intercettazioni telefonich intercorse tra i due il 24 ed il 25 gennaio 2017, avendo i Giudici trascurato che le mire espansionistiche esternate dal COGNOME sono state da questi manifestate nelle conversazioni captate tra il COGNOME e soggetti diversi dalla COGNOME;
dall’altro si evidenzia una carenza motivazionale della sentenza impugnata emergente dal richiamo ad una conversazione ambientale del 5 maggio 2017 tra il COGNOME e la COGNOME nella quale secondo la Corte territoriale emergerebbe che la donna decideva i termini della spartizione dei profitti illeciti, essendo per contr evidente come la conversazione appare vertere su una singola iniziativa imprenditoriale riguardante un’attività da compiere totalmente all’estero mentre tutte le operazioni commerciali contestate nel presente procedimento come reatifine prevedevano la circolazione del prodotto acquistato a livello comunitario esclusivamente sul territorio nazionale.
Osserva l’odierno Collegio che le due doglianze sopra riportate, ancorché ipoteticamente fondate, sono caratterizzate da genericità.
Infatti, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenta travisamento di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’asserito travisamento sulla decisione finale, in quanto gli elementi di prova eventualmente travisati diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione o la loro corretta lettur o interpretazione, le residue risultanze probatorie risultino sufficienti a giustificar l’identico convincimento del Giudice.
Nel caso in esame i due profili di ricorso sopra evidenziati non consentono, come detto, di superare la valutazione di genericità non essendo stato debitamente illustrato dalla parte ricorrente, nel doveroso raffronto con tutti gli altri elementi probatori, come i travisamenti illustrati integrano vizi idonei stravolgere la tenuta del complessivo impianto accusatorio nei confronti della ricorrente.
A ciò si aggiunge che ancorché le contestate conversazioni del 24 e 25 gennaio 2017 siano intercorse non abbiano visto come parte la COGNOME, il materiale probatorio raccolto nei confronti della stessa così come emergente dalle sentenze di merito assume un tale spessore da non incidere minimamente sulla corretta configurazione del reato associativo.
6. Sempre nell’ottica della configurabilità del reato associativo e con particolare riguardo alla contestazione di quanto affermato dalla Corte di appello a pag. 35 della propria sentenza nella parte in cui ha sostanzialmente asserito che a seguito della realizzazione di frodi al fisco ci si trova in presenza di un evidente ingresso di capitali illeciti nella M.P., grazie ai quali era possibile acquistare vendere carburante realizzando importanti volumi di affari, nei motivi di ricorso formulati nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME (riassunti ai superiori paragrafi 2.2.1 e 2.9.1) si contesta che la Corte di appello non ha dato risposta a quanto rilevato dalla difesa in ordine al fatto che l’impennata di proventi non era legata a profitti illeciti quanto piuttosto al conseguimento della licenza di deposito fiscale da parte della M.P. nonché alle intervenute modifiche della normativa in materia, situazioni che avrebbero ben potuto essere illustrate dal Lgt. Montanari della Guardia di Finanza del quale era stata avanzata richiesta di audizione ex art. 603 cod. proc. pen. non accolta dalla Corte di appello in quanto sostanzialmente ritenuta superflua.
Al riguardo – osserva l’odierno Collegio – fermo restando che l’accertamento del fatto che l’impennata dei proventi della società poteva essere ragionevolmente (anche) legata agli elementi indicati dalle difese, non è di certo elemento idoneo a scardinare l’evidenziata impalcatura accusatoria che si fonda su ben altri e più solidi elementi, deve rilevarsi che i giudici di merito nel respingere l’istanza ex art 603 cod. proc. pen., hanno rilevato che l’audizione del Lgt. Montanari della Guardia di Finanza non si presentava come decisiva e che – aggiunge l’odierno Collegio trovandoci in sede di giudizio abbreviato, «In tema di ricorso per cassazione, può essere censurata la mancata assunzione in appello, a seguito di giudizio abbreviato non condizionato, di prove richieste dalla parte solo nel caso in cui si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o di manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello» (ex ceteris: Sez. 3, n. 3028 del 15/12/2023, dep. 2024, D., Rv. 285745 – 01), situazione, come detto non ravvisabile nel caso in esame il che rende manifestamente infondato anche tale profilo di ricorso.
7. Il reato associativo: le condotte ed i ruoli dei partecipanti.
Occorre, innanzitutto, fare una premessa di carattere generale, ad integrazione di quanto si è già evidenziato al superiore par. 1, che intende rispondere alle contestazioni accomunate dall’asserita assenza di prova della
ricorrenza dell’elemento soggettivo necessario per essere considerati partecipi al sodalizio di cui all’art. 416 cod. pen.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, già chiarito che, in tema di associazione per delinquere, la esplicita manifestazione di una volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione (Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, COGNOME, Rv. 279589; Sez. 3, n. 20921 del 14/03/2013, Conte, Rv. 255776).
7.1. Non fondato è il motivo di ricorso – riassunto al superiore par. 2.2.2 nel quale si contesta la partecipazione dell’imputata NOME COGNOME al sodalizio di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni e, in particolare, il ruolo “promotrice” od “organizzatrice” alla stessa attribuito.
In sintesi, sostiene la difesa della ricorrente che avrebbe errato la Corte di appello allorquando ha affermato che il ruolo rivestito dalla COGNOME (figlia di NOME COGNOME) quale amministratrice delegata della M.P. non può essere ricondotto a quello di mera “testa di legno” in quanto non si può ritenere che, solo perché si riveste il ruolo di amministratore di una società coinvolta nelle attività illecite, per ciò solo si assume il ruolo di promotore del sodalizio criminale in ta modo acriticamente affermando una sovrapposizione tra struttura societaria e realtà associativa.
In sostanza, sempre secondo la difesa della ricorrente, dalle conversazioni richiamate dai Giudici di merito emergerebbe solo il contributo gestionale della COGNOME nelle operazioni commerciali realizzate dalla M.P. e non si è tenuto conto che la partecipazione della COGNOME a diverse riunioni, svolte presso la società, si colloca nei primi mesi del 2019, quindi in epoca successiva alla data di consumazione dei reati-fine e distante dalla presunta origine del sodalizio.
La Corte territoriale non avrebbe quindi – secondo la tesi difensiva – spiegato in modo logico le ragioni che l’hanno determinata ad affermare il contestato ruolo della Di Cesare.
Osserva l’odierno Collegio che il ruolo della COGNOME nella associazione di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni è ampiamente delineato sia nella sentenza del G.u.p. che in quella della Corte di appello, decisioni che, come detto, si integrano reciprocamente così da costituire un unico corpo argomentativo.
Non risulta innanzitutto fondato l’assunto difensivo che tende a ricondurre la posizione della COGNOME a quella di un soggetto che riveste una mera carica formale nell’amministrazione (lecita) della RAGIONE_SOCIALE, società attorno alla quale, invece, ruotava l’intero meccanismo delle numerosissime frodi oggetto di contestazione,
così come non è condivisibile la doglianza secondo la quale i Giudici di merito le avrebbero attribuito un ruolo di vertice in seno al sodalizio operando una indebita ed automatica sovrapposizione tra il ruolo formale di amministratrice rivestito dall’imputata nell’ambito societario e quello rivestito nel sodalizio criminale.
Partendo da quest’ultimo profilo è sufficiente analizzare l’esatta contestazione che le viene fatta nel capo 1 della rubrica delle imputazioni: “promuoveva, costituiva ed organizzava il sodalizio”, alla quale è seguita l’indicazione di una serie di condotte che nella ricostruzione in fatto operata dai Giudici di merito (quindi non sindacabile in questa sede in quanto corrispondente e comunque non in contrasto od oggetto di travisamento rispetto agli elementi probatori dagli stessi indicati) ha trovato perfetta sovrapponibilità con il contenuto dell’imputazione stessa.
In punto di diritto deve essere ricordato che il ruolo di “promotore” di una associazione per delinquere non può essere attribuito solo a colui che si fa iniziatore dell’associazione enunciandone il programma, ma anche a chi contribuisce alla potenzialità pericolosa del gruppo associativo già costituito mentre “organizzatore” – qualità contestata anch’essa nell’imputazione e che certamente, più di ogni altra, si attaglia alla figura dell’imputata qui in esame colui che coordina l’attività degli associati per assicurare sviluppo e piena efficienza all’associazione stessa, coordina e specifica i compiti assegnati ai singoli membri, in sostanza un soggetto che sovrintende alla complessiva gestione del sodalizio, assume funzioni decisionali, esplica con autonomia, pur nell’ambito di direttive da altri impartite (nel caso di specie ed in principalità la madre coimputata NOME COGNOME), la funzione di curare il coordinamento dell’attività di altri aderent nonché l’impiego razionale di strutture e risorse associative e/o reperire i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso.
Ciò detto è appena il caso di richiamare un’infinita serie di passaggi debitamente motivati e contenuti nelle decisioni del G.u.p. e della Corte di appello (v. in particolare, ma non solo, pagg. 26, 39, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 70, 71, 72, 120 e ss. della sentenza di primo grado, nonché pagg. 10, 11, 40, 41, 42, 64 della sentenza di secondo grado), non scalfiti dalle doglianze difensive sostanzialmente riproposte anche in questa sede e che tendono ad una inammissibile rivalutazione degli elementi già esaminati, per ritenere che il ruolo attribuito alla Di Cesare, risulta corrispondere a quello della stessa indicato nell’imputazione.
In particolare, è stato evidenziato:
a) che nella primavera/estate del 2017 – proprio in concomitanza del rilascio (11 maggio 2017) della licenza che consentiva a RAGIONE_SOCIALE di operare come deposito
fiscale ai fini accisa, ossia come impianto autorizzato dall’amministrazione finanziaria a detenere, ricevere o spedire merci in regime di sospensione di accisa e Iva, ossia senza ancora aver pagato l’imposta su tali prodotti, le leve del comando societario passavano ad NOME COGNOME ed alla COGNOME e la società, pur muovendosi nel proprio ambito tradizionale (e cioè quello della vendita di prodotti petroliferi), sperimentava “nuove strategie di gestione” che l’avvicinavano a contesti criminali di spicco, circostanza che portava ad un vistoso cambiamento della stessa azienda;
che da una serie di conversazioni intercettate dopo l’inchiesta giornalistica riportata nella trasmissione televisiva “Report” (puntata del 19.11.2018 intitolata “Nero come il petrolio”) che aveva messo in luce i meccanismi di frode fiscale si è avuta la conferma che tutti i soggetti coinvolti nella vicenda erano consapevoli della frode e che, in particolare, la stessa COGNOME, dopo il disvelamento del meccanismo delittuoso, ha ammesso di aver inizialmente deciso di abbandonare l’utilizzo esclusivo della lettera di intento per poi essere gli imputati nuovamente costretti a ricorrervi dalla difficile situazione economica creatasi, in quanto solo 45 clienti assolutamente non competitivi e redditizi a cui vendere prodotto ad un prezzo con platt +45 non bastavano al deposito per rimanere sul mercato;
che con riguardo alla falsità delle lettere d’intento utilizzate dalla M.P. è risultata discutere anche la COGNOME in una riunione avvenuta il 9 aprile 2019 presso il deposito della M.P.;
che è stata sempre la COGNOME nell’ambito di una conversazione intercettata il 23 aprile 2019 a mostrare la sua piena consapevolezza in ordine ai meccanismi di frode adottati ed alla falsità delle lettere di intento utilizzate e ch la stessa ha addirittura avanzato una proposta della nomina nel consiglio di amministrazione della società di un noto esperto di economia (proposta poi bocciata nel corso della riunione) confidando nel fatto che, essendo stata nominata lei legale rappresentante (di soli 25 anni) nessuno avrebbe pensato che potesse essere a conoscenza dei meccanismi di frode adottati;
che sempre la COGNOME nel corso di altra intercettazione dell’aprile 2019 è risultata lamentarsi con NOME COGNOME della madre (NOME COGNOME) che a suo dire – avrebbe dovuto remunerarla in misura maggiore in quanto come legale rappresentante della società era quella che rischiava di più nel caso in cui fosse stato scoperto il sistema illecito sistematicamente adottato e attraverso il quale venivano immesse in consumo 20 autobotti “sporche” al giorno;
che sempre la COGNOME, in conversazioni intercettate il 29 ed il 30 aprile 2019, è risultata discutere con NOME COGNOME degli acquisti fatti e degli
investimenti effettuati per far sparire e comunque gestire agevolmente il denaro provento delle frodi.
Si sono citate solo alcune delle conversazioni richiamate nelle sentenze di merito che consentono di ben delineare il ruolo dell’imputata NOME COGNOME, di ritenere logicamente accertato come nei dialoghi intercettati l’imputata ed i suoi interlocutori hanno fatto chiaro riferimento sia ai diversi meccanismi di frode IVA e accise che all’utilizzo di società “cartiere” del “gruppo RAGIONE_SOCIALE“, alla spartizione degli ingenti profitti derivanti dalle molteplici frodi, concordando modalità per sottrarsi alle indagini e mettersi al riparo da possibili arresti o sequestri di ben elementi che non pongono dubbi in ordine alla consapevole partecipazione dell’odierna ricorrente al sodalizio criminale ed ai reati fiscali a lei contestati.
In sostanza i Giudici di merito risultano avere adeguatamente evidenziato come NOME COGNOME è tutt’altro che da ritenersi una “testa di legno” all’interno della M.P., quanto piuttosto è soggetto che ha partecipato a pieno titolo e con proposte alle riunioni strategiche nella quali sono state assunte decisioni fondamentali per l’organizzazione, il compimento e la prosecuzione degli illeciti de quibus.
In tale prospettiva e con particolare riguardo al ruolo di “organizzatore” alla stessa attribuito non risulta quindi assumere un ruolo decisivo il fatto, sottolineato dalla difesa della ricorrente, che la figura della COGNOME è emersa nelle investigazioni (in particolare negli esiti delle intercettazioni) solo in un momento successivo (2019) a quello in cui alcune delle attività delittuose erano già state preordinate, fermo restando che non appare certo un caso che la stessa risulta avere assunto il ruolo di amministratore della RAGIONE_SOCIALE proprio in epoca prossima (2017) all’acquisizione della predetta società della licenza che consentiva alla RAGIONE_SOCIALE di operare come deposito fiscale, momento divenuto essenziale per la realizzazione delle frodi come sopra descritte.
A ciò si aggiunge, poi – e questa osservazione vale anche per gli altri ricorrenti che hanno formulato il medesimo rilievo – che il fatto che un soggetto “compare” con ruolo attivo nelle intercettazioni solo in un momento nel quale vari reati-fine sono stati realizzati non può essere considerato come un dato a sé stante ma deve essere equiparato con gli esiti dell’analisi delle intere emergenze investigative che hanno consentito ai Giudici di merito di trarre la prova logica di una consapevole partecipazione dell’imputata all’intero disegno criminoso.
7.2. Manifestamente infondati sono altresì i motivi di ricorso formulati nell’interesse dell’imputata NOME COGNOME (sopra riassunti ai paragrafi 2.3.5 e 2.3.6) nei quali la difesa dell’imputata, al fine di escludere l’assunzione del ruolo
che alla COGNOME è stato attribuito in seno al sodalizio di cui al capo 1 della rubric delle imputazioni, ha sostanzialmente dedotto che la ricorrente, (asseritannente) non consapevole della falsità delle lettere di intento delle società che operavano in regime di esportatrici abituali:
intratteneva rapporti con il COGNOME esclusivamente al fine di determinare i quantitativi di carburante da cedere ed il prezzo di cessione ma non aveva alcun tipo di interlocuzione con le società che presentavano dette “lettere di intento”;
che non vi sono emergenze investigative che consentono di ipotizzare relazioni particolari da parte della COGNOME con le società clienti essendo gli accordi illeciti con tali società intrattenuti dal solo COGNOME al punto che la M.P. sarebbe da ritenersi vittima di un raggiro e financo costretta a notificare dei decreti ingiunti ad alcune delle società clienti per recuperare dei crediti nei confronti delle stesse, situazione questa asseritamente incompatibile con la consapevolezza della natura fittizia di dette società;
che la COGNOME avrebbe avuto un rapporto conflittuale con il COGNOME e non avrebbe ricavato dalle operazioni alcun ritorno pecuniario;
che la COGNOME era soggetto inesperto ed in quel momento altamente vulnerabile;
che il tenore delle conversazioni intercettate confligge con la qualifica di promotrice dell’associazione attribuita alla stessa;
che risulta l’estraneità della COGNOME alle dinamiche sodali del COGNOME.
Fermo restando che della corretta configurabilità in fatto ed in diritto della contestata associazione ex art. 416 cod. pen. si è già detto sopra e che anche l’evidenziata insorgenza di temporanei disaccordi tra la COGNOME ed il COGNOME non è ostativa alla realizzazione del fine delittuoso comune protrattosi per un importante arco temporale e palesemente emergente dagli elementi evidenziati nelle sentenze di merito, osserva l’odierno Collegio che anche in questo caso la difesa della ricorrente tende inammissibilmente a richiedere a questa Corte di legittimità una rivisitazione del materiale processuale attraverso asseriti, quanto inesistenti, vizi di motivazione.
Il materiale probatorio richiamato nelle sentenze di merito a carico della COGNOME è a dir poco imponente, è contenuto in decine di pagine di motivazioni delle sentenze caratterizzate da un analitico esame degli elementi raccolti e permea di fatto l’intera impalcatura motivazionale delle stesse.
Le motivazioni adottate dai Giudici di merito, ampie, non manifestamente illogiche e tantomeno contraddittorie non consentono di porre in dubbio il ruolo di vertice ricoperto da NOME COGNOME nell’ambito dell’associazione di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
Come compiutamente osservato dai Giudici di merito, NOME COGNOME al di là delle qualifiche formali ricoperte nella M.P., ha promosso, costituito ed organizzato l’attività illecita, utilizzando mezzi ed il personale della società, ricoprendo u indubbio ruolo gestionale nella stessa e, per l’effetto, nel sodalizio criminale che vi ruotava attorno, anche decidendo le scelte illegali dalle quali ricavava cospicui vantaggi economici.
E’ lo stesso G.u.p. (v. pagg. 118 e segg. della relativa sentenza) – con una valutazione poi sostanzialmente fatta propria anche dalla Corte di appello – che sulla base del materiale probatorio ha così affermato: «Nulla si muove senza il suo assenso; è lei che stringe accordi con COGNOME NOME e NOME COGNOME per la commercializzazione di ingenti quantità di prodotto energetico in regime di non imponibilità IVA o con accisa ribassata e, tramite COGNOME, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attività illecita, recandosi personalmente anche a Napoli (a casa del COGNOME ristretto ai domiciliari) per ottenere la consegna di una somma di denaro, remunera adeguatamente gli investimenti fatti da costoro. E’ COGNOME NOME che prende accordi con COGNOME NOME per la costituzione di società cartiere da utilizzare per le frodi IVA e riesce a mantenere saldamente nelle mani della propria famiglia il deposito della MAXPETROLI (poi MADE PETROL), resistendo senza difficoltà alle pressioni di COGNOME che, anche forte della provvista di denaro a lui messa a disposizione dal clan COGNOME, cerca di insinuarsi nel deposito romano acquisendo una forma di partecipazione societaria che la COGNOME prontamente respinge, mantenendo nelle proprie mani le redini del comando, occupandosi anche della raccolta, distribuzione ai sodali e reinvestimento dei proventi illeciti. COGNOME NOME, insieme a COGNOME NOME e COGNOME NOME, decide quotidianamente quali società devono caricare prodotto energetico dai depositi della MAXPETROLI, pianificando in riunioni ed incontri tra questi e gli altri sodali le condotte necessari per la consumazione delle frodi IVA e accise, perfettamente consapevole del sistema di frode alla base delle compravendite. È sempre l’imputata che decide gli ulteriori sistemi di frode da attuare all’indomani delle modifiche normative, che portavano al vorticoso utilizzo delle false esportatrici abituali e che in poco tempo consentivano un’impennata vistosa dei profitti, nonché le strategie da adottare dopo l’arresto di COGNOME e COGNOME, dopo le plurime ispezioni ed i controlli subiti, mantenendo le relazioni con funzionari infedeli di cui si era avvalsa anche in passato, dando le direttive per eludere i controlli e le indagini». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Osserva, ancora, l’odierno Collegio come a nulla rileva ai fini della attribuzione del ruolo rivestito dalla COGNOME nel sodalizio di cui al capo 1 della rubrica dell imputazioni il fatto, asserito dalla difesa della ricorrente che era il COGNOME a
procurare le società cartiere ed a mantenere gli accordi con le stesse, perché trattasi di una situazione che ben può far parte della diversa ripartizione dei ruoli assunti dai partecipi ai fini del perfezionamento del complessivo piano criminoso.
Del resto, nell’ambito di una associazione per delinquere non è necessario che un promotore ed organizzatore abbia contatti con tutti gli altri partecipi ben essendo possibile che ciò non avvenga proprio per i preordinati e diversi compiti attribuiti a ciascuno. E’ ciò che di fatto risulta essere avvenuto nel caso in esame dove, fermo restando il comune proposito delittuoso, certe attività sono state poste in essere dalla COGNOME e dai componenti del suo nucleo familiare nella gestione del ruolo della M.P. ed altre dal COGNOME e dai soggetti allo stesso collegati che si sono invece occupati del procacciamento delle società cartiere e di quelle che falsamente attestavano di essere esportatrici abituali.
D’altro canto, facendo seguito a quanto più sopra già illustrato in sede di trattazione della configurabilità del reato di cui all’art. 416 cod. pen., è sta evidenziato dai Giudici di merito che anche la COGNOME personalmente ha intrapreso una collaborazione con il COGNOME per il procacciamento di cartiere come emerso dall’incontro – indicato dai Giudici – avvenuto tra i due il 18 aprile 2019 all’Hote INDIRIZZO di Roma nel corso del quale il COGNOME ha mostrato di essere in grado di mettere a disposizione dell’associazione un numero indefinito di società da utilizzare per la presentazione di false dichiarazioni di intento.
Quanto, poi, alla consapevolezza in capo non solo alla COGNOME ma anche degli altri correi, non solo della falsità delle dichiarazioni di intento ma anche della non operatività di fatto delle società cartiere, la stessa si evince dal complessivo compendio motivazionale delle sentenze di merito e dal contenuto delle conversazioni intercettate che, sempre come sottolineato dai Giudici di merito, hanno evidenziato che le società “RAGIONE_SOCIALE” sono state direttamente gestite anche all’interno di RAGIONE_SOCIALE, tanto che i clienti finali che acquistavano dalle finte esportatri abituali si rivolgevano direttamente al deposito ed ai suoi referenti per i pagamenti in favore delle stesse o per mettersi in contatto con loro.
Quanto, poi, alla affermata (dalle difese di alcuni di ricorrenti) inconsapevolezza della falsità della documentazione attestante i ruoli di esportatore abituale rivestiti dalle società risultate coinvolte nel piano criminoso ha dato atto il G.u.p. che la Guardia di Finanza, nel corso della verifica fiscale avviata presso il deposito della M.P., ha acquisito la documentazione afferente agli esportatori abituali, richiesta dal contribuente a sostegno dell’applicazione del citato regime agevolativo IVA. In ogni faldone/cartellina afferente ai clienti esportatori abituali è stata, non a caso, individuata la stampa di un articolo tratto da “Fiscalfocus.it ” inerente a “Frodi IVA”.
Ha altresì dato atto il G.u.p. che la M.P., per fornire un’apparenza di buona fede ed allinearsi con le citate linee guida, ha, con solo apparente diligenza, richiesto ai suoi clienti a mezzo e-mail una documentazione attestante la loro esistenza e la loro posizione fiscale e contestualmente ha provveduto, tramite interrogazione al sito https://telematici.agenziaentrate.gov.it , alla verifica della corretta trasmissione della lettera d’intento ricevuta.
Tuttavia, è stato ancora osservato che, sebbene la società si sia adoperata per il ricevimento di documentazione idonea a giustificare la richiesta di cessioni ex art. 8 comma 1, lett. c del d.p.r. 633/72, è evidente che quest’ultima non è stata adeguatamente visionata, in quanto emergono elementi di contrasto facilmente individuabili, soprattutto per soggetti esperti nel settore imprenditoriale, attraverso anche mediante solo una mera lettura della medesima. Così si legge nella sentenza di primo grado: «Tutti i clienti della RAGIONE_SOCIALE recavano gravi indizi di pericolosità fiscale, ed in alcuni casi, son palesemente soggetti missing trader. Nello specifico, appare già di per sé oltremodo anomalo che non abbiano suscitato nel soggetto preposto all’esame nemmeno un lecito sospetto i valori dei ricavi indicati in bilancio nettamente inferiori al volume d’affari presentato ovvero volumi d’affari dichiarati coincidenti esattamente con il volume delle operazioni che concorrono alla formazione del plafond o l’assenza di documentazione attestante una cessione intracomunitaria o all’esportazione. E’ assai inconsueto che tali sintomaticità non abbiano indotto a richiedere spiegazioni idonee a dirimere tali incongruenze. … Sulla base di tali elementi, già a livello documentale, considerata la presenza di vistose anomalie contabili riscontrate sulla documentazione giustificativa a sostegno dell’applicazione del regime di IVA di non imponibilità, può ritenersi provata in capo alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e ai soggetti che la gestiscono la piena consapevolezza dell’artificiosità della documentazione contabile acquisita dalle cartiere finte esportatrici abituali ed il suo coinvolgimento nell’ambito di una importante frode IVA». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto evidenziato rende inammissibili i rilievi difensivi che, anche sulla base del contenuto della consulenza di parte a firma del dr. COGNOME tendono ad accreditare la presenza di una tale regolarità documentale delle società esportatrici abituali da rendere inconsapevoli gli imputati che si trattasse di mere cartiere.
A tali considerazioni si sono aggiunte anche le seguenti: «La piena consapevolezza del meccanismo di frode attuato mediante le false lettere di intento da parte degli imputati, oltre che dalla notevole entità del volume di affari formato da operazioni non imponibili – rispetto al volume di affari della società emerge, inoltre, in maniera evidente dalle numerosissime interlocuzioni avvenute
tra tutti gli imputati, tutte descritte nell’ informativa finale, nella richiesta di m cautelare e nell’ordinanza cautelare, e quelle di volta in volta registrate tra COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Felice ed i loro collaboratori, ma anche dalle conversazioni intercettate con COGNOME NOME (legale del gruppo, legato sentimentalmente ad una figlia della COGNOME ed ampiamente inserito nella pianificazione delle attività anche illecite che venivano realizzate attraverso la compagine sociale), COGNOME NOME (nipote di NOME COGNOME, presente presso i locali del deposito), COGNOME NOME (figlio di NOME COGNOME) che danno conto di come gli imputati, che sfruttano e governano il deposito capitolino, sono pienamente consapevoli dell’esistenza meramente cartolare dei propri soggetti clienti esportatori abituali, gestiti di fatto da vari sodali che preparano loro stes le lettere di intento o comunque danno input alle società emittenti tramite COGNOME NOME, confidando nel tempo che impiegherà l’autorità finanziaria a scoprirne la falsità».
Ritenute al riguardo significative dai Giudici di merito sono poi la conversazione intercettata in data 16 gennaio 2019 tra NOME COGNOME ed un dipendente della M.P. nel corso della quale l’imputata ha dato disposizioni al dipendente per preparare loro le lettere d’intento, nonché la conversazione intercorsa tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME dalla quale emerge che la COGNOME rivendica anche una percentuale di profitto sulle lettere di intento ricevute.
Sempre nelle sentenze di merito si legge che la conferma che tutti i soggetti coinvolti erano consapevoli della frode emerge altresì dalle conversazioni intercettate dopo l’inchiesta giornalistica riportata nella già menzionata trasmissione televisiva Report in quanto gli imputati, temendo verifiche e controlli della Guardia di Finanza nonché l’avvio di attività investigative da parte dell’Autorità Giudiziaria, decidevano di contenere il ricorso alle lettere di intento e che, in particolare – giova ribadirlo – è la stessa COGNOME, dopo il disvelamento del meccanismo nell’inchiesta della trasmissione televisiva, ad ammettere di aver inizialmente deciso di abbandonare l’utilizzo elusivo delle lettere di intento per poi essere nuovamente costretta a ricorrervi dalla difficile situazione economica creatasi.
In punto di diritto i Giudici del merito hanno, quindi, logicamente spiegato le ragioni per le quali hanno ritenuto provata la sussistenza degli elementi soggettivi dei reati associativo e fiscali in contestazione non solo in capo alla COGNOME ma anche in capo agli altri imputati che ne sono chiamati a rispondere.
7.3. Manifestamente infondato è altresì il motivo di ricorso formulato nell’interesse dell’imputato NOME COGNOME (sopra riassunto al par. 2.5.2)
nel quale la difesa del ricorrente si duole del ruolo attribuito all’imputato in sen all’associazione contestata, rappresentando che in sede di appello aveva evidenziato:
che l’attività dell’odierno ricorrente si era limitata alla commercializzazione di gasolio per autotrazione camuffato da gasolio agricolo nonché alla partecipazione ad alcune riunioni con i pretesi sodali;
che il predetto era stato assunto della società RAGIONE_SOCIALE nel 2018 ma che la realizzazione del pactum sceleris era collocata in epoca precedente (2017) con la conseguenza che il COGNOME non poteva aver preso parte alla costituzione del sodalizio e non poteva considerarsi come membro stabile del sodalizio stesso;
che lo stesso non aveva mai svolto l’attività di coordinamento degli altri sodali.
Ritiene l’odierno Collegio che, anche in questo caso, ci si trova in presenza di un complesso motivazionale (si vedano, a mero titolo di esempio, pagg. 8, 42, 43, 44, 46, 63 della sentenza di appello e pagg. 35, 61, 62, 63, 65, 66, 68, 69, 72, 73, 121 e ss. sent. G.u.p.) che ben ha delineato la figura ed il ruolo del COGNOME in seno alla compagine associativa e di fatto ha dato congrua e logica risposta alle doglianze difensive.
E’ appena il caso di ricordare che nell’ambito della contestazione di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni il ruolo attribuito al COGNOME è principalmente quello specifico di «organizzare il sodalizio sovraintendendo alla consumazione delle frodi relative alle accise perpetrate con la vendita di gasolio per autotrazione spacciato per gasolio denaturato per uso agricolo».
Basta quindi detta contestazione, qualora accertata, aggiunta al fatto di avere coordinato in tale attività il sodale NOME COGNOME per attribuirgli in base a giurisprudenza di questa Corte (v. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274816 – 03) il ruolo di “organizzatore”.
Il fatto poi, che al COGNOME siano contestate nel medesimo capo di imputazione anche altre attività svolte nell’abito del sodalizio ne conferma altresì anche il carattere di partecipe.
La Corte di appello (v. in particolare pagg. 43 e segg. della relativa sentenza) ha debitamente indicato gli elementi (prevalentemente conversazioni intercettate) in base ai quali si è ritenuto che fu proprio il COGNOME a pianificare la c.d. “tr del denaturato agricolo” e che fu lui ad imporre dopo l’avvenuto controllo delle forze dell’ordine alle autobotti, che fosse installato sui veicoli destinati al traspo di gasolio denaturato per uso agricolo il dispositivo chiamato “paletta” che consentiva la colorazione del prodotto energetico in caso di necessità e che, ancora, teneva i rapporti con chi collaborava alla distribuzione di tale prodotto.
A ciò si aggiunge che anche il coinvolgimento del COGNOME nelle ulteriori e parallele attività delittuose portate avanti dal sodalizio è stato debitamente evidenziato dai Giudici di entrambi i gradi di merito attraverso l’indicazione delle conversazioni intercettate dalle quali è emerso che lo stesso nel 2019 si occupava anche delle società cartiere, consapevole della loro esistenza e del loro utilizzo, parlando di “carosello”, gestiva i rapporti commerciali della RAGIONE_SOCIALE e ne suggeriva le modalità operative, raccoglieva il denaro provento delle frodi e si occupava anche di occultarlo.
Si tratta quindi di condotte, motivatamente ritenute accertate che, come detto, lo collocano al vertice quantomeno di uno dei settori delle attività delittuose programmate dal sodalizio, nonché al servizio del sodalizio medesimo anche per le altre parallele attività delittuose programmate e portate a compimento.
Corretto è quindi, anche in punto di diritto il ruolo alla stesso attribuito nell contestazione di cui al capo 1 della rubrica dele imputazioni.
7.4. Meritevoli di trattazione congiunta per una certa sovrapponibilità dei motivi che li riguardano e dei ruoli rivestiti nell’ambito del contestato reato associativo sono poi i motivi di ricorso formulati nell’interesse degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME come rispettivamente riassunti ai superiori paragrafi 2.7.1, 2.8.1 e 2.10.1.
I difensori dei tre imputati contestano, come detto, la ritenuta partecipazione degli stessi al sodalizio di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
La difesa del COGNOME, in estrema sintesi, si duole del fatto che la mera eventuale partecipazione alla consumazione dei reati-fine da parte dell’imputato non può essere considerata alla stregua di affiliazione al sodalizio criminale ed evidenzia che al COGNOME era stato affidato il compito delimitato e circoscritto della gestione operativa esterna della società RAGIONE_SOCIALE, che lo stesso non ha mai partecipato alle riunioni operative che, a seguito delle attività investigative, è emerso il suo coinvolgimento nelle attività di cui è processo solo il 6 novembre 2017 e la presenza dello stesso sarebbe stata verificata solo fino al 16 maggio 2018 epoca in cui la società RAGIONE_SOCIALE è stata chiusa.
Analogamente la difesa dell’NOME rileva che è emerso il coinvolgimento del proprio assistito nelle vicende solo il 6 novembre 2017 e la presenza dello stesso sarebbe stata verificata solo fino al 16 maggio 2018 epoca in cui la società RAGIONE_SOCIALE è stata chiusa, aggiungendo che l’imputato deteneva solo una piccola parte (13%) del capitale della RAGIONE_SOCIALE società peraltro costituita anteriormente all’ingresso del ricorrente, che aveva poteri gestionali ridotti, che era mero
esecutore delle direttive impartite da NOME COGNOME e da NOME COGNOME e che non ha mai intrattenuto rapporti con NOME COGNOME.
Infine, anche la difesa dello COGNOME colloca la comparsa del proprio assistito nello scenario delle investigazioni a far tempo dal 6 novembre 2017, con l’ulteriore precisazione che l’imputato il 18 novembre 2017 si era reso latitante (per altra causa) ed il 24 gennaio 2018 era, poi, stato tratto in arresto con la conseguenza che l’eventuale partecipazione dello stesso al sodalizio criminale sarebbe stata di brevissima durata senza che siano stati raccolti elementi tale da poter ritenere provato un reale contributo del ricorrente alle attività del sodalizio stesso.
In tutti è tre i ricorsi si lamentano quindi vizi di motivazione della sentenza impugnata in ordine a quanto appena evidenziato.
Rileva preliminarmente l’odierno Collegio che il reato associativo di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni accomuna i ruoli dei tre imputati indicandoli come partecipi al sodalizio del quale erano intervenuti a far parte per il tramite del coimputato NOME COGNOME.
Si contesta agli stessi – indicati anche nelle sentenze come “i casalesi” – la partecipazione all’organizzazione dei meccanismi di frodi sull’IVA e sulle accise attraverso la gestione di società cartiere (RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE) messe a loro disposizione da NOME COGNOME e la conseguente partecipazione in percentuale ai proventi illeciti dell’organizzazione sulla quota derivante dalle frodi perpetrate attraverso dette società cartiere.
Della posizione dei tre imputati si sono motivatamente occupate entrambe le sentenze di merito.
Il G.u.p. (v. pagg. 36 e segg. della propria sentenza) ha evidenziato che tra le molteplici società fittizie messe a disposizione del gruppo per realizzare il meccanismo di frode sono state individuate la RAGIONE_SOCIALE (falsa depositante) e la RAGIONE_SOCIALE (falsa esportatrice abituale) risultate essere mere società schermo, interposte nelle vendite di prodotti petroliferi al solo fine di consentire che sulla RAGIONE_SOCIALE (che materialmente procedeva alla vendita rispetto al cliente finale) non gravassero i relativi debiti fiscali, consentendo pertanto l’evasione dell’IVA che non veniva mai riversata all’Erario (e veniva portata in detrazione o anche compensata dal cliente finale).
Ha, poi, sottolineato che, in particolare la società RAGIONE_SOCIALE che in data 7 ottobre 2017 ha sottoscritto con la M.P. un contratto di prestazione di servizi per lo stoccaggio e la nazionalizzazione del prodotto gasolio per autotrazione (con
validità fino al 30 ottobre 2018), è risultata chiaramente riconducibile a Mercadante, COGNOME e COGNOME.
I Giudici di entrambi i gradi del merito hanno, inoltre richiamato elementi probatori dai quali si evince la presenza dei tre ricorrenti qui in esame a riunioni, tenutesi 31 ottobre 2017 presso gli uffici del Coppola a Napoli ed in data 6 novembre 2017 presso il garage del Coppola nel corso delle quali si trattava delle attività in essere, delle forniture da effettuare, dei costi dei trasporti e de restituzioni (storni sull’IVA indicata in fattura).
Emerge poi dalle sentenze impugnate (v. intercettazione in data 9 ottobre 2017) che:
COGNOME aveva concordato con COGNOME e COGNOME le concrete modalità di gestione della RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, le operazioni da effettuare per procacciarsi denaro in contanti da utilizzare per la restituzione ai clienti di parte dell’IVA e che i conversanti risultano aver anche concordato l’acquisto di telefoni cellulare da utilizzare per le comunicazioni relative alla società RAGIONE_SOCIALE;
NOME e NOME quando conversavano per telefono utilizzavano nomi diversi da quelli reali;
COGNOME aveva la disponibilità della password per accedere alla contabilità della RAGIONE_SOCIALE ed ha dettato ai complici le coordinate bancarie ed il nominativo del soggetto titolare di un conto corrente sul quale effettuare il bonifico per ottenere denaro in contanti;
il ruolo apicale dei cosiddetti “casalesi” era stato assunto dallo COGNOME al quale era affidata la gestione delle attività, dei conti correnti, dei rapporti co clienti dell’RAGIONE_SOCIALE, mentre la gestione operativa esterna della società era affidata ad COGNOME e COGNOME (oltre a Vivese) che avevano il compito di attuare le disposizioni impartite dal COGNOME e dallo COGNOME e cioè contattare i clienti e i fornitori ed assicurarsi dell’arrivo a destinazione di quanto ordinato controllare la fatturazione con l’applicazione in fattura del platt corretto nonché gestire la contabilità parallela dove venivano annotate e quantificate le restituzioni ai clienti di parte dell’IVA;
i dialoghi registrati dimostrano che COGNOME NOME e COGNOME, durante il periodo di osservazione investigativa, pur non avendo alcun titolo nelle società, frequentavano stabilmente gli uffici del Coppola, ove era la “base operativa” di quel ramo delle attività illecite.
ulteriori dialoghi registrati (v. pagg. 41 e segg. sent. G.u.p.) confermano come gli imputati parlavano diffusamente tra loro delle attività di frode gestite in quel momento storico con il sodalizio che aveva come base la RAGIONE_SOCIALE. facendo riferimento a plurime società ed anche della restituzione ai clienti di parte dell’IVA
– indicata in fattura e mai versata dalla RAGIONE_SOCIALE e della quota spettante anche alla COGNOME.
il comune interessamento degli imputati ad una pluralità di società sostanzialmente inesistenti – tra cui vi era anche la RAGIONE_SOCIALE oltre alla RAGIONE_SOCIALE – emerge anche dalle conversazioni in cui gli stessi imputati, a dimostrazione della totale fittizietà delle stesse società, confondevano anche i nomi e le sigle delle stesse;
h) vi sono poi numerosi altri dialoghi che confermano che la reale proprietà ed amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE era degli imputati COGNOME e COGNOME, non già degli inesistenti amministratori di diritto come NOME COGNOME, mero prestanome, etero-diretta da NOME, che in molti dialoghi le impartiva disposizioni (v. telefonate del 16 marzo 2018, del 28 marzo 2018, del 30 marzo 2018 e del 9 aprile 2018 richiamate dai Giudici di merito);
i) vi sono, infine, conversazioni registrate tra il COGNOME ed il COGNOME dalle quali emerge il giro vorticoso di denaro che conseguiva alle frodi fiscali e nelle quali si parla di conteggi e di considerevoli somme di denaro oltre che di incastri societari e si fa espresso riferimento all’accordo stretto con i “casalesi” in ordine alle modalità di suddivisione delle percentuali dei profitti.
Osserva l’odierno Collegio come nel caso in esame ci si trova, anche in questo caso, in presenza di un ponderoso materiale investigativo e che le motivazioni congrue e logiche contenute al riguardo nelle sentenze di merito forniscono un quadro estremamente chiaro di come anche gli imputati COGNOME ed NOME erano attivamente e consapevolmente partecipi al sistema fraudolento che animava la vita del sodalizio – anche in riferimento alle cartiere a loro riferibili – tanto che, infatti, percepivano profitti predeterminati secon prefissate percentuali, conseguentemente, gestendo società costituite per essere utilizzate come “cartiere” in un meccanismo fraudolento volto ad evadere il versamento dell’IVA.
Nessun dubbio, poi, che gli stessi rivestivano la qualità di soci di fatto ed al contempo di amministratori di fatto delle predette società.
A nulla rileva, pertanto, in relazione agli elementi probatori sopra richiamati, la circostanza che i tre ricorrenti (ed in particolare lo COGNOME) risultano avere partecipato al sodalizio per un delimitato arco temporale inferiore alla complessiva durata dello stesso (COGNOME sulla base delle intercettazioni richiamate nelle sentenze risulta comunque ancora “attivo” nel settembre 2018) in quanto deve osservarsi che costituisce principio generale, più volte ribadito, che, ai fini dell configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere (comune o di tipo mafioso), non è sempre necessario che il vincolo si instauri nella
prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell’organizzazione stessa, ben potendo, al contrario, assumere rilievo forme di partecipazione destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest’ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell’ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della rilevanza penale (cfr., per tutte, Sez. 2, n. 52005 del 24/11/2016, COGNOME, Rv. 268767-01, e Sez. 2, n. 46989 del 08/11/2013, COGNOME, Rv. 257607-01).
Nessun dubbio, infine, anche in relazione alla sussistenza in capo ai ricorrenti qui in esame dell’elemento soggettivo del reato in contestazione emergendo chiaramente dagli elementi indicati nelle sentenze di merito la consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e la volontà di rendersi disponibile a cooperare per l’attuazione del comune programma delinquenziale.
Alla luce di quanto esposto con motivazioni congrue, logiche e non contraddittorie dai Giudici di entrambi i gradi di merito, ritiene, pertanto, l’odiern Collegio l’infondatezza dei motivi di ricorso esaminati nel presente paragrafo.
7.5. Anche la difesa del ricorrente NOME COGNOME (figlio della COGNOME), con il motivo di ricorso riassunto al superiore paragrafo 2.9.2, si duole della intervenuta affermazione della penale responsabilità dell’imputato in relazione al reato associativo di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni nel quale gli si contesta di avere svolto l’attività di «cassiere che teneva il computo dei profitti illec ricevuti da COGNOME e COGNOME per i propri familiari e si adoperava per nascondere il profitto illecito per prevenire perquisizioni e/o sequestri disposti dalla A. G.».
La difesa dell’imputato si duole sostanzialmente di un vizio di motivazione della sentenza impugnata osservando:
che i Giudici del merito hanno valorizzato emergenze investigative prive di valenza dimostrativa di un ruolo all’interno del sodalizio, di fatto trasponendo il ruolo dallo stesso rivestito in seno all’impresa familiare in quello di partecipe all’associazione per delinquere;
b) che non si comprenderebbe, poi, come la mera gestione dei ricavi percepiti dalla M.P. in ragione delle attività commerciali variamente in essere possa assimilarsi automaticamente ed in toto alla spartizione degli asseriti proventi illeciti del sodalizio;
c) che non è possibile sostenere che l’ingente ammontare di denaro contante movimentato era proveniente dalle consorterie criminali cui si assumeva legato NOME COGNOME atteso che è intervenuta l’esclusione della contestata aggravante dell’agevolazione mafiosa.
Giova, innanzitutto, evidenziare che il ruolo dell’imputato COGNOME nelle vicende in esame è stato compiutamente ricostruito nelle motivazioni di entrambe le sentenze di merito (v. in particolare pagg. 11, 44, 45, 46 e 63 della sentenza di appello nonché pagg. 56, 60, 68, 72, 113, 114 e 122 e segg. della sentenza del G.u.p.).
E’ stato, infatti, debitamente evidenziato attraverso richiami a conversazioni intercettate dalle quali è anche emerso che gli imputati disponevano di informazioni riservate sulle indagini in corso, che lo Strina:
partecipava alle strategie per eludere le indagini ed aveva intensi rapporti con i vertici del gruppo in relazione agli affari illeciti, mostrando di essere sempre disponibile ad eseguire le direttive da questi impartite;
provvedeva all’occultamento dell’enorme liquidità generata dalle plurime frodi;
gestiva la “cassa” del sodalizio tanto che veniva convocato “al bisogno” dalla COGNOME;
era anche consapevole delle regalie che venivano fatte ai dipendenti della Agenzia delle Dogane: significativa è al riguardo una conversazione intercettata in data 18 aprile 2019 (v. pag. 113 sent. G.u.p.) nella quale NOME COGNOME, visto l’avvicinarsi della Pasqua, concorda con il COGNOME e con lo Strina di mettere all’interno delle uova di Pasqua o nelle colombe pasquali gli orologi di elevato valore da regalare agli appartenenti dell’Agenzia delle Dogane in modo da non incorrere in situazioni pericolose visti i recenti arresti di dodici persone circostanze non meglio specificate.
NOME COGNOME è poi risultato ben consapevole anche del meccanismo delle frodi sulle accise riguardanti il gasolio denaturato per uso agricolo (v. pag. 56 della sentenza del G.u.p.). Risulta, infatti, che a seguito di controlli operati dalla Guardia di Finanza, un meccanismo finalizzato a consentire il cambiamento della colorazione del carburante trasportato, simile a quello descritto nelle conversazioni intercettate, veniva effettivamente rinvenuto su di un automezzo fermato (che veniva sequestrato); in tale circostanza lo COGNOME, parlando con COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME proponeva di redigere una perizia attestante la difettosità del meccanismo, “perizia” che effettivamente veniva allegata alla richiesta di dissequestro del mezzo.
Così come lo COGNOME ha altresì mostrato di essere coinvolto e ben consapevole dei meccanismi di frode adottati attraverso l’ingresso del Coppola nell’organizzazione (v. pag. 68 della sentenza del G.u.p. con riferimento al sequestro della società Astidea).
In sostanza, da un lato, i Giudici di entrambi i gradi di merito con motivazioni congrue, logiche e non contraddittorie hanno evidenziato che risulta di tutta evidenza la solida compenetrazione dello Strina nel tessuto organizzativo del sodalizio ricoprendo lo stesso prevalentemente il ruolo di “cassiere del gruppo”.
Dall’altro hanno anche evidenziato che risultano integralmente sconfessate le tesi difensive che tendono a collocare l’imputato in una posizione assolutamente marginale sostenendo che lo stesso si occupava di personale e di contabilità, gestendo modeste liquidità, solo per spese di famiglia.
Sempre i Giudici di merito hanno evidenziato, anche a conforto della ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni, che la vertiginosa impennata di profitti della M.P. all’indomani dell’ingresso di COGNOME e COGNOME (ed anche dei casalesi) quasi per la totalità riferibile al meccanismo delle frodi IVA e accise, era talmente vistosa da non poter passare inosservata ad una persona che, come lo COGNOME, si occupava anche della contabilità dell’azienda: la vendita di petrolio avveniva quasi per la totalità tramite società fantasma, fintamente interposte al cliente finale, società che – si ricorda non erano esportatrici abituali e rispetto alle quali, in contabilità, si omettev qualunque seria verifica al riguardo (si richiamano le precedenti considerazioni quanto alla assenza di documentazione che attestasse le vendite intracomunitarie che avrebbero legittimato il loro status).
L’apporto delle cartiere al sistema di vendita della M.P. e le frodi nel settore del carburante per uso “agricolo” erano, pertanto, di totale evidenza da non poter essere seriamente non rilevate, così come non poteva non essere considerato (ed inteso nel suo senso effettivo: cioè la provenienza illecita) l’immenso fiume di denaro che ruotava intorno alla società e che passava (anche se ovviamente non in senso formale vista la natura illecita) in contabilità.
In sostanza, hanno sempre evidenziato i Giudici di merito, con motivazione congrua e logica, dal complesso degli elementi probatori raccolti, è emerso, quanto allo COGNOME, un ruolo non certo marginale comprovante la sua totale intraneità alle dinamiche del sodalizio e la sua perfetta conoscenza del meccanismo a raggiera che legava le cartiere alla M.P., essendo l’imputato in grado di discutere tranquillamente delle vicende che ruotavano intorno agli affari del sodalizio con le cartiere e con COGNOME, dimostrando perfetta consapevolezza da parte sua dei meccanismi illeciti.
Rimane solo da osservare che è privo di rilevanza l’asserto difensivo secondo il quale l’ingente ammontare di denaro contante movimentato dallo COGNOME non poteva essere proveniente dalle consorterie criminali cui si assumeva legato NOME COGNOME dato che è intervenuta l’esclusione della contestata aggravante dell’agevolazione mafiosa, nel momento in cui è emerso che il ricorrente qui in esame movimentava altresì denaro frutto delle frodi fiscali e tributarie, denaro, comunque di consapevole provenienza illecita in quanto – secondo stringente logica – non vi sarebbero state ragioni per attivarsi per l’occultamento dello stesso.
Quanto detto – osserva l’odierno Collegio – rende infondati i motivi di ricorso esaminati nel presente paragrafo.
Le questioni relative alla configurabilità ed alla qualificazione giuridica dei reati-satellite.
8.1. Occorre innanzitutto ricordare che i reati concernenti le violazioni finanziarie oggetto di contestazione sono stati ripartiti in sede di formulazione delle imputazioni in quattro tipologie, rispettivamente quelli di cui:
all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 (capo 7): laddove si contesta agli imputati di essersi avvalsi nelle dichiarazioni IVA della M.P. di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (società bulgare aventi rappresentanza in Italia di fatto inesistenti);
all’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 (capo 5): laddove si contesta agli imputati di avere indicato nelle dichiarazioni IVA della M.P. operazioni imponibili da sottoporre a tassazione inferiori al reale utilizzando il mezzo fraudolento consistito nell’avvalersi indebitamente all’atto della fatturazione del regime di non imponibilità dell’IVA (ex art. 8. Lett. c), del d.P.R. n. 603/72) grazie a dichiarazion di intento ricevute da società in realtà prive dei requisiti per essere considerate esportatori abituali, verso le quali effettuavano cessioni non imponibili;
all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 (capi da 74 a 83, 85A e 86): laddove si contesta agli imputati, in relazione alle società false esportatrici abituali di volta in vo indicate, al fine di evadere le imposte, omesso di presentare le dichiarazioni IVA negli anni di interesse;
all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000 (capi 12, 13, 15, 16, da 18 a 25, da 27 a 31, da 33 a 48 e da 51 a 56): laddove si contesta agli imputati di avere emesso, in relazione alle società di volta in volta indicate, fatture per operazion soggettivamente inesistenti, al fine di consentire a terzi (sempre di volta in volta indicati) di evadere il fisco detraendo VIVA addebitata alla vendita ed alla M.P. di occultare la sua reale natura di soggetto passivo d’IVA.
E’ appena il caso di ricordare che:
il citato art. 2 punisce chi al fine di evadere le imposte, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti indica nelle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi;
il citato art. 3 punisce chi (fuori dei casi previsti dall’art. 2), al fi evadere le imposte, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi …;
il citato art. 5 punisce chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte …
il citato art. 8 punisce chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
8.2. Con una serie di motivi di ricorso, ancorché parzialmente diversi ma tutti tra loro interdipendenti (sopra riassunti ai paragrafi 2.2.3, 2.2.4, 2.2.5, 2.3.2 2.4.1, 2.9.3 e 2.9.4) i difensori degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno dedotto:
il fatto che si sarebbe erroneamente proceduto nell’applicare agli imputati sia il reato di cui all’art. 3 che quello di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 riguardo ai capi 5 e 8 della rubrica delle imputazioni, atteso che la qualificazione di tali operazioni ai fini della fattispecie di cui all’art. 3 in termini di operazioni imponibili risulterebbe, materialmente e giuridicamente, incompatibile con la contestuale contestazione ex art. 8;
b) l’erronea qualificazione delle operazioni come soggettivamente “inesistenti” in luogo di “simulate” con conseguente asserita violazione del cd. divieto del bis in idem sostanziale; ciò in quanto ci troverebbe in presenza di operazioni soggettivamente “simulate” – così come descritte dall’art. 1, comma 1, lett. g-bis, del d.lgs. n. 74/2000 e non “inesistenti” (quindi ricadenti sotto il disposto dell’ar 3 e non dell’art. 2 d.lgs. n. 74/2000) con la conseguenza che le condotte di falsa fatturazione ascritte ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 (capo 8 della rubrica delle imputazioni) devono ritenersi già assorbite in quella di cui all’art. 3; la differenz tra le due condotte sarebbe, secondo le difese, evidente zi.ò in quanto l’operazione soggettivamente simulata, per interposizione fittizia implica un’intesa plurilaterale che intercorre fra le parti vere del contratto e le parti apparenti, di contr
l’inesistenza soggettiva dell’operazione non presuppone di regola alcuna intesa plurilaterale e si configura per il solo fatto che uno dei soggetti sia diverso da quello reale, il tutto considerando che nel caso in esame le operazioni sarebbero esistenti e fondate su di un’intesa trilaterale finalizzata a creare l’apparenza;
vi sarebbe comunque contraddizione intrinseca nelle contestazioni perché se le operazioni sono soggettivamente “inesistenti” le stesse non possono essere considerate “imponibili” e quindi dare luogo ad un’imposta evasa rilevante ex art. 3 del decreto;
dato che le false fatturazioni alle società cartiere sono già contestate alla M.P. le stesse non possono rilevare autonomamente anche per le società cartiere, pena un bis in idem sostanziale, ciò in quanto i successivi reati di falsa fatturazione avrebbero dovuto perseguire, per ritenersi integrati, una finalità elusiva ulteriore in favore dei soggetti distinti dall’emittente, nella specie i distributori finali ma tale dato non v’è alcuna traccia.
8.2.1. Al fine di inquadrare correttamente le questioni dedotte è necessario prendere le mosse dalla ricostruzione del meccanismo delle frodi IVA operata dai Giudici di merito ricordando, ancora una volta, che al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 5/05/2011, COGNOME, Rv. 250362). Ne consegue che, quando i Giudici di merito abbiano motivato – come nel caso in esame – alla stregua di un percorso argomentativo scevro da profili di illogicità, le ragioni di fatto poste a fondamento della propria decisione, al Giudice di legittimità non è consentito censurarne, sul piano della ricostruzione dei fatti, le scelte compiute accedendo ad ipotesi alternative, ove anche dotate di un maggiore grado di persuasività.
Occorre, ai fini di chiarezza, fare una breve premessa sulla regolamentazione normativa della materia.
Il trasferimento di beni all’interno dell’Unione Europea non è soggetto a controlli fiscali e alla tassazione doganale. Gli scambi intracomunitari non sono importazioni ed esportazioni in senso tecnico ma acquisti intracomunitari e cessioni intracomunitarie soggetti ad uno specifico regime.
Tale regime è fondato sul principio di “tassazione nel paese di destinazione”, per cui le vendite tra soggetti passivi IVA all’interno dell’Unione non sono tassate
7%”`–
nello Stato di origine a carico del cedente ma in quello di destinazione, a carico del cessionario.
Altro è, invece, il regime vigente quando uno dei due soggetti è un consumatore finale.
Prima di effettuare operazioni intraconnunitarie, i soggetti passivi IVA devono risultare iscritti in appositi elenchi, dopodiché devono emettere fattura senza addebito d’imposta.
Il cessionario deve numerare e integrare la fattura ricevuta indicando in essa il corrispettivo. La fattura deve, poi, essere annotata sia nel registro delle vendite (registro dell’IVA a debito), sia nel registro degli acquisti (registro dell’IVA credito).
In tal modo VIVA a debito, che deve essere annotata nel registro delle vendite è neutralizzata dall’IVA detraibile annotata nel registro degli acquisti.
La disciplina in esame ha tuttavia per oggetto gli acquisti fatti da soggetti passivi IVA, nel caso invece in cui l’acquirente sia un consumatore finale (o come anche si suol dire un “privato”) l’operazione è imponibile a carico del venditore e quindi nel Paese del cedente come se l’operazione avvenisse all’interno di quel mercato.
E’ chiaro che nell’ambito dello svolgimento di un regolare meccanismo fiscale come quello sopra descritto, VIVA che – come è noto – è una cd. “imposta a cascata”, in quanto l’imposizione colpisce il maggior valore che ciascuna fase della catena produttivo/commerciale aggiunge al bene, finisce per gravare sul consumatore finale in quanto, come già evidenziato, i soggetti intermedi sostanzialmente provvedono a neutralizzare in tutto o in parte l’imposta attraverso il sistema delle cd. compensazioni.
E’ però altrettanto evidente che detta concatenazione fiscale si interrompe se una società (la cosiddetta “interposta”), dopo avere acquistato beni o servizi da un fornitore straniero intracomunitario e quindi in esenzione di IVA, li rivende ad una società italiana (la cosiddetta “interponente”) applicando VIVA che in questo caso è dovuta ed è posta a carico dell’acquirente e poi si eclissa senza versare l’imposta incassata che invece l’interponente può detrarre, detta situazione crea un doppio danno perché non solo all’Erario non perviene VIVA incassata dall’interposto ma l’interponente la può portare in detrazione.
Sul piano concreto, in un contesto caratterizzato da liceità e trasparenza, se la M.P. avesse regolarmente acquistato il carburante da un venditore intracomunitario, alla luce della normativa in materia avrebbe dovuto emettere fattura senza l’esposizione dell’IVA ricevuta dall’operatore comunitario, indi avrebbe dovuto portare in detrazione dell’imposta per pari importo. Tale sistema
avrebbe garantito l’effetto pratico di “neutralizzare” VIVA (dato che IVA a debito e IVA in detrazione si compensavano, annullandosi) per la M.P., la quale sarebbe divenuta effettiva debitrice d’imposta solo al momento della successiva rivendita del carburante sul territorio nazionale con contestuale emissione di fattura comprensiva di IVA. Detto modus operandi avrebbe però consentito di offrire agli acquirenti finali un prodotto con prezzo sostanzialmente allineato a quelli di mercato (platts) così limitando i guadagni dell’azienda.
Da qui, al fine di moltiplicare a dismisura gli utili, la necessità sul fronte deg acquisti di utilizzare conduit companies estere e/o cartiere nazionali da interporre ai reali fornitori di prodotto e, sul fronte delle cessioni, facendo formalmente cedere il prodotto non dalla M.P. ma da società cartiere con l’utilizzo di soggetti cessionari recanti un falso status di esportatore abituale, interposti tra il vero cedente (la M.P.) ed i reali cessionari beneficiari della frode.
Attraverso l’interposizione nella filiera della distribuzione si erano pertanto individuati soggetti che, rilasciando apposite dichiarazioni d’intento, acquistavano fittiziamente il prodotto senza IVA per rivenderlo successivamente con IVA generando un duplice risultato:
l’interposto incassava VIVA sulle successive transazioni effettuate con i clienti (reali) finali che però non versava all’Erario;
il cliente finale acquistava un prodotto sottocosto portandosi anche in detrazione la relativa IVA.
In pratica, l’interposizione di soggetti denominati nella prassi missing traders, ha costituito il fulcro della frode: gli stessi hanno (formalmente) acquistato il bene senza sostenere l’esborso finanziario legato all’imposta sul valore aggiunto e lo hanno rivenduto con applicazione di IVA nazionale, di cui hanno omesso il versamento all’Erario, il che ha consentito la vendita sul mercato nazionale di beni a prezzi particolarmente competitivi: chi acquista dal missing trader, infatti, grazie all’evasione d’imposta realizzata a monte, sfrutta il vantaggio concorrenziale dell’acquisto “sottocosto”, approvvigionandosi a prezzi sensibilmente inferiori rispetto a quelli praticati dagli altri operatori.
L’impresa irregolare o “cartiera”, esistente sotto il profilo formale, in quanto titolare di partita IVA e iscritta alla Camera di Commercio, ma gestita da prestanomi nullatenenti ed inattiva (se non addirittura già cessata) da un punto di vista sostanziale, difettando di una struttura operativa idonea alla cessione di beni è quindi utilizzata per emettere documentazione fiscale attestante forniture di beni in realtà effettuate tra soggetti diversi, con conseguente integrazione del reato previsto dall’art. 8 d.lgs. 74/2000.
L’impresa “utilizzatrice” cliente finale, effettivamente esistente e di norma operante in contabilità ordinaria, posta nelle condizioni di commettere la violazione di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 attraverso l’utilizzo di tali fatture emesse da “cartiera” per operazioni soggettivamente inesistenti, lucra come detto un prezzo di acquisto più basso perché gode del risparmio dell’IVA, mai versata dal cedente, portando in deduzione dal proprio reddito costi effettivamente sostenuti e può così detrarre VIVA corrisposta all’atto dell’acquisto, sebbene a soggetti diversi da quelli ai quali doveva in realtà essere versata.
Alla luce di quanto evidenziato è stato accertato in fatto che:
a) nella prima fase, tra il 1° gennaio 2017 ed il 10 febbraio 2018, la M.P. ha immesso in consumo prodotto petrolifero sia di sua proprietà, sia di proprietà di società che avevano stipulato un contratto di conto deposito con la medesima. In tali casi le società depositanti riconoscevano alla M.P. solo una provvigione sui litri stoccati per loro conto e nazionalizzati, provvedendo a rivendere il prodotto al cliente finale direttamente e/o tramite ulteriore società cartiere interposte. E’ stat tuttavia accertato che il cedente indicato nella fattura di vendita era falso, perché chi importava e rivendeva il petrolio, in realtà era la M.P. nel cui deposito i prodotto era anche fisicamente stoccato. I soggetti depositanti, infatti, sono risultati essere gestiti da appartenenti al sodalizio ed emettevano fatture soggettivamente false, da un lato per far evadere il reale acquirente nazionale, che non avrebbe potuto, pertanto, detrarre VIVA relativa alla transazione di acquisto e, dall’altro, per non far nascere in capo alla M.P. l’obbligo di versare all’Erario VIVA che avrebbe dovuto essere a lui corrisposta dagli acquirenti. I (falsi) interponenti, per poter (apparentemente) vendere a prezzi fuori mercato, commettevano poi, come detto, anche il reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 omettendo di compilare le dichiarazioni annuali IVA così da non dover versare alcuna imposta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Per quanto concerne il ciclo di commercializzazione del prodotto di proprietà della stessa M.P., dagli accertamenti compiuti è emerso – come detto – che, nelle situazioni sopra descritte venivano usati dalla M.P., quali destinatari apparenti del prodotto, soggetti cessionari recanti il falso status di esportatore abituale, che fornivano al deposito false dichiarazioni d’intento ex art. 8, lett. c, del D.P.R 633/72 per rendere non imponibile la vendita, così da far esporre VIVA solo nella successiva fattura di rivendita del prodotto. Anche in tal caso l’imposta non veniva mai riversata all’Erario dal rivenditore, ma spartita tra i partecipi alla frode.
b) in una seconda fase, per il periodo dal 10 febbraio 2018 al giugno 2019, l’organizzazione è risultata avere interposto ulteriori filtri per allontanare da sé sospetti di connivenze in caso di verifiche fiscali. Al momento dell’acquisto dai
fornitori, infatti, la RAGIONE_SOCIALE. si è avvalsa di società conduit residenti all’estero per acquistare carburanti presso depositi italiani ubicati a Genova, nonché esteri ubicati in Slovenia, e, in taluni casi, ha anche interposto tra sé e le conduit ulteriori società “filtro” nazionali – create con lo scopo di apparentemente rivendere il prodotto al reale acquirente M.P. – con una transazione imponibile ai fini IVA, grazie alla quale quest’ultima società otteneva persino la maturazione di un credito IVA, così massimizzando il beneficio della frode.
Dal quadro sopra descritto dai Giudici di merito è emerso quindi un dato che può essere ritenuto consolidato: la M.P. era la reale acquirente del prodotto petrolifero che poi rivendeva direttamente agli utilizzatori finali mentre tutto resto (interposizioni a monte ed interposizioni a valle rispetto alla stessa) era integralmente frutto di una apparenza preordinata e concretamente realizzata attraverso l’emissione di false lettere di intento e di fatture per operazion soggettivamente inesistenti.
Se la RAGIONE_SOCIALE avesse venduto il prodotto ad un normale cliente nazionale privo della qualità di esportatore abituale avrebbe dovuto emettere una fattura attiva di vendita esponendo anche VIVA e, poi, sarebbe stata obbligata a riversarla all’Erario.
Invece, attraverso il descritto modus operandi, la società ha anche potuto indicare nelle dichiarazioni IVA richiamate al capo 5 della rubrica delle imputazioni elementi attivi inferiori a quelli reali, in tal modo integrando il contestato reato cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000.
8.2.2. Assodato quanto sopra e richiamati altresì tutti agli altri elementi (già indicati o che saranno indicati nel prosieguo) che consentono di ritenere accertato che ci si trova in presenza di attività illecite poste in essere attraverso una precisa catena di condotte in esecuzione di un articolato disegno criminoso al quale tutti gli imputati per i quali è intervenuta condanna sono risultati (con ruoli different ma sinergici) coinvolti, nella piena consapevolezza degli intenti delittuosi realizzati e della falsità degli strumenti documentali utilizzati, si deve ora affrontare la prima delle questioni poste dalle difese dei ricorrenti, cioè quella della compatibilità ne contesto descritto di una contestazione agli imputati sia della fattispecie di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000 che di quella di cui all’art. 8 del medesimo decreto legislativo.
Osserva l’odierno Collegio che nell’impianto del Decreto legislativo n. 74/2000, il Legislatore, in omaggio alla delega contenuta nella I. 25 giugno 1999, n. 205, non solo ha concentrato la propria attenzione sulla dichiarazione annuale dei redditi o sul valore aggiunto, quale momento nel quale si realizza, dal lato del
contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione di imposta (come è il caso delle previsioni di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 74/2000) ma ha anche autonomamente incriminato con l’art. 8 la mera emissione di fatture per operazioni inesistenti in considerazione della «spiccata pericolosità, rappresentata da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul mercato documentazione volta a supportare l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come “cartiere”)».
Risulta poi del tutto evidente la differenza strutturale, ontologica ed anche cronologica tra il reato di cui all’art. 3 che è un tipico reato “di danno” legato a una dichiarazione fraudolenta, e quello di cui all’art. 8 che invece configura un reato di “pericolo presunto” che punisce, in quanto tale, la condotta preparatoria della evasione, consistente nella mera emissione di documenti fittizi da usare nelle dichiarazioni tributarie di terzi, condotta considerata tipicamente idonea a mettere in pericolo l’interesse fiscale.
Ne consegue che il reato di cui all’art. 3 e quello di cui all’art. 8 del d.lgs. 74/2000, ben possono tra loro materialmente concorrere ancorché inseriti in una predeterminata catena di azioni delittuose, asservendo a finalità differenti.
Né nel caso in esame potrebbe rendersi applicabile il disposto dell’art. 9 del d.lgs. n. 74/2000 che espressamente dispone che «In deroga all’articolo 110 del codice penale: a) l’emittente di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 2; b) chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesisten e chi concorre con il medesimo non è punibile a titolo di concorso nel reato previsto dall’articolo 8».
Non sfugge, infatti, che la norma di cui all’art. 9 espressamente si riferisce solo all’art. 2 e non anche all’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000.
La ratio che sorregge la norma appena ricordata di cui all’art. 9, infatti, riposa nella esigenza di evitare che la sola circostanza di utilizzazione, da parte del destinatario, delle fatture per operazioni inesistenti possa integrare anche il concorso nella emissione delle stesse così come, all’inverso, il solo fatto dell’emissione possa integrare il concorso nella utilizzazione, da parte del destinatario che abbia ad indicarle in dichiarazione, delle medesime; in altri termini, la norma de qua ha inteso evitare la sostanziale sottoposizione per due volte a sanzione penale dello stesso soggetto per lo stesso fatto giacché l’emissione trova la sua naturale conseguenza nella utilizzazione mentre l’utilizzazione trova il suo naturale antecedente nell’emissione: né la emissione, né la utilizzazione sono, dunque, fini a se stesse sicché, ove l’emissione integrasse anche il concorso nella utilizzazione così come l’utilizzazione integrasse anche il
concorso nella emissione, il risultato sarebbe quello di una sostanziale violazione del divieto di bis in idem, che la norma ha dunque inteso scongiurare.
E’ però di tutta evidenza che il disposto dell’art. 9 riguarda il rapporto eventualmente esistente tra l’emittente la fattura (in ipotesi la società cartiera) e l’utilizzatore della fattura (in ipotesi il destinatario finale della merce).
La situazione qui in esame è invece del tutto diversa.
Bisogna, tuttavia, porre per un momento l’attenzione sul rapporto tra la contestazione della violazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000 (capo 5 della rubrica delle imputazioni) e quella di cui all’art. 8 del medesimo corpo normativo (capo 8 della rubrica delle imputazioni) rispetto a tutte le altre contestazioni relativ sempre alla violazione dell’art. 8 (capi 12, 13, 15, 16, da 18 a 25, da 27 a 31, da 33 a 48 e da 51 a 56).
Non a caso le attente difese dei ricorrenti hanno rivolto le loro principali doglianze proprio sui rapporti tra la condotta contestata al capo 5 della rubrica delle imputazioni e quella di cui al capo 8.
Ponendo, infatti, ancora una volta l’attenzione sul contenuto delle contestazioni riportate nei capi di imputazione che tracciano i confini del thema decidendum, emerge che:
nel capo 5 si contesta agli imputati – in relazione alla M.P. ed al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto – di essersi avvalsi «indebitamente, all’atto della fatturazione, del regime di non imponibilità dell’IVA ex art. 8, lett. c), d d.P.R. n. 633/72 grazie a dichiarazioni di intento ricevute da società in realtà prive dei requisiti per essere considerate esportatori abituali», mentre al capo 8 si contesta di avere «materialmente assicurato la vendita del prodotto a società cartiere fittiziamente interposte prive dei requisiti per essere considerate esportatori abituali che fornivano al deposito indebite dichiarazioni di intento»;
b) nei capi 12, 13, 15, 16, da 18 a 25, da 27 a 31, da 33 a 48 e da 51 a 56 si contesta invece agli imputati di avere concorso con gli amministratori delle società ivi indicate al fine – anche – di «consentire ai propri clienti finali» (pure indica appositi elenchi) di evadere il fisco detraendosi indebitamente VIVA addebitata alla vendita.
E’;i<quindi di tutta evidenza la parziale differenza tra le due condotte: mentre nel caso sub. a), sulla base della ricostruzione dei fatti, gli imputati hanno concorso (materialmente o moralmente) nella produzione delle false lettere di intento ("altri documenti") finalizzate alla frode fiscale (art. 8 di cui al capo 8) e che poi hanno anche utilizzato per effettuare la dichiarazione fraudolenta (art. 3 di cui al capo 5), nel caso sub. b), invece, l'azione ha avuto una finalità diversa, consistente nella
emissione di fatture per operazioni inesistenti finalizzate a consentire ai propri clienti finali di evadere il fisco.
E' allora legittimo domandarsi se, fermo restando il concorso materiale tra il reato di cui al capo 5 della rubrica delle imputazioni e quelli di cui ai capi 12, 13 15, 16, da 18 a 25, da 27 a 31, da 33 a 48 e da 51 a 56, sia possibile ravvisare un concorso formale, in luogo di un assorbimento, tra il reato contestato al capo 5 e quello contestato al capo 8.
A tale domanda ritiene però il Collegio di dare una risposta negativa atteso che, se è ben vero che la condotta di cui al capo 8 ha rappresentato il presupposto per la consumazione del reato di cui al capo 5, e se è altrettanto vero che l'art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 punisce chi emette o rilascia fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire «a terzi» l'evasione di imposta, mentre nel caso in esame l'operazione ha posto la condizione per consentire anche alla stessa M.P. l'evasione di imposta, è altrettanto vero che la condotta come descritta nell'imputazione di cui al capo 8 (accertata in fatto dai Giudici di merito) è altresì stata finalizzata consentire l'evasione di imposta anche alle società cartiere ivi indicate.
Alla luce di quanto esposto non è quindi fondata la doglianza difensiva secondo la quale, dato che le false fatturazioni alle società cartiere sono già contestate alla M.P. le stesse non potrebbero rilevare autonomamente anche per le società cartiere, pena un bis in idem sostanziale, ciò in quanto i successivi reati di falsa fatturazione avrebbero dovuto perseguire – secondo parte ricorrente – una finalità elusiva ulteriore in favore dei soggetti distinti dall'emittente, nella spe gli utilizzatori finali, essendo per contro evidente la sostanziale differenza tra l false fatturazioni caratterizzate da finalità elusiva nell'interesse della M.P. e quell caratterizzate da finalità elusiva verso terzi.
8.2.3. Ritiene, poi, l'odierno Collegio, al fine di rispondere alle argomentazioni nelle quali si è sostenuto che nella presente vicenda processuale mancherebbe il tassello finale costituito dall'uso da parte dei clienti finali (utilizzatori del prod delle false fatturazioni in sede di dichiarazioni, di evidenziare che l'assenza di quest'ultimo accertamento non rileva in quanto, essendo, come detto, il delitto di cui all'art. 8 un reato di pericolo presunto, il verificarsi dell'evento presentazione della dichiarazione fiscale da parte dei clienti finali) non è elemento costitutivo della fattispecie bastando l'idoneità della falsa documentazione a realizzare il fine decettivo indicato dalla norma.
Non ha quindi alcuna rilevanza accertare se un'evasione di imposta da parte del terzo destinatario della fattura si sia poi in concreto verificata.
Invero, come ripetutamente precisato da questa Corte di legittimità, l'evasione d'imposta non è elemento costitutivo del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ma caratterizza il dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell'agente, essendo necessario che l'emittente delle fatture si proponga il fine di consentire a terzi l'evasione dell imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo realizzi effettivamente l'illecito intento (così Sez. F, n. 31142 del 11/08/2022, COGNOME, Rv. 283708-01, e Sez. 3, n. 39359 del 24/09/2008, COGNOME Rv. 241040-01).
Quanto, poi, al dolo specifico richiesto per la consumazione di tale reato lo stesso è implicito nel sistema descritto dove tutto l'articolato sistema del falso come ricostruito era per l'appunto finalizzato proprio a quell'evasione fiscale che, incidendo sul valore finale del bene e quindi anche sull'IVA rapportata a tale valore finiva per beneficiare tutti i soggetti coinvolti nella catena commerciale.
Non fondate sono quindi da ritenersi le doglianze difensive sul punto.
8.2.4. Ritiene, altresì, la Corte di non ritenere fondate le argomentazioni difensive nelle quali è stata dedotta l'erronea qualificazione delle operazioni accertate come soggettivamente "inesistenti" in luogo di "simulate", con conseguente asserita violazione del cd. divieto del bis in idem sostanziale dato che, secondo la tesi proposta, ci si troverebbe in presenza della situazione descritta dall'art. 1, comma 1, lett. g-bis, del d.lgs. n. 74/2000 (quindi ricadente sotto i disposto dell'art. 3 e non dell'art. 2 d.lgs. n. 74/2000) con la conseguenza che le condotte di falsa fatturazione ascritte ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 (capo 8 della rubrica delle imputazioni) dovrebbero ritenersi già assorbite poiché la differenza tra le due condotte consisterebbe nel fatto che mentre l'operazione soggettivamente simulata, per interposizione fittizia, implica un'intesa plurilaterale che intercorre fra le parti vere del contratto e le parti apparenti, di contr l'inesistenza soggettiva dell'operazione non presuppone di regola alcuna intesa plurilaterale e si configura per il solo fatto che uno dei soggetti sia diverso da quello reale. Da ciò – secondo le difese – nel caso in esame le operazioni sarebbero esistenti e fondate su di un'intesa trilaterale finalizzata a creare un'apparenza diversa dalla realtà con tutte le conseguenze in punto di diritto che ne derivano.
Fermo restando che la questione non risulta neppure posta alla Corte di appello nei termini sopra descritti e che il sindacato sulla "bilateralità" o "pluralit di soggetti realmente coinvolti nelle operazioni impone una valutazione di fatto (non operabile in questa sede) che deve precedere la conseguente valutazione in diritto, il che ne determinerebbe tout court la declaratoria di inammissibilità ai sensi dell'art. 606, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen., ritiene comunque
l'odierno Collegio di ricordare che questa Corte di legittimità ha già avuto modo reiteratamente di chiarire che «In tema di reati tributari, il delitto di emissione fatture o altri documenti per operazioni "inesistenti" è configurabile anche nel caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, in cui l'operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita e non vi sia, tuttavia, corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nella fattura o altro documento fiscalmente rilevante e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione, in quanto, anche in tal caso, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma, ovvero consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto» (In motivazione, la Corte ha precisato che il delitto si configura anche nel caso in cui non sia stato individuato il soggetto che abbia erogato la prestazione e in quello in cui non sia stato accertato che si sia concretamente verificata un'evasione d'imposta) (Sez. 3, n. 16576 del 01/03/2023, COGNOME, Rv. 284494 – 01; Sez. 3, n. 24307 del 19/01/2017, Cortella, Rv. 269986 – 01; Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, COGNOME, Rv. 247110 – 01; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, dep. 2008, COGNOME e altri, Rv. 239658 – 01).
Ad avviso dell'odierno Collegio, il principio secondo cui il delitto di emissione di fatture od altri documenti per operazioni "inesistenti" è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa deve trovare continuità.
Questa Corte ha, infatti, come detto, reiteratamente chiarito che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorre, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell'impresa utilizzatrice delle fatture (in questo caso gli utilizzatori finali) e, dall'altro la sussista l'elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell'imposizione, da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l'abbia effettivamente erogata.
Tale interpretazione, infatti, è consentita, innanzitutto, sia dall'argomento testuale, fondato sull'ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad "operazioni inesistenti"; sia dall'argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecit indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 74/2000 stabilisce che "per "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie,
emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi" ed è proprio quest'ultima la situazione accertata nel caso in esame.
Giova altresì precisare che ben si comprende l'osservazione proposta dalle difese degli imputati COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME allorquando, attraverso l'introduzione con il d.lgs. n. 158/2015 della lett. g-bis dell'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 74/2000, hanno rilevato che il legislatore ha inteso concettualmente chiarire la differenza tra "operazioni inesistenti" – indicate, tra l'altro, testualmente come «quelle che riferiscono l'operazione a soggetti in tutto o in parte diversi da quelli effettivi» e quindi soggettivamente inesistent (lett. a, ultima parte) – e "operazioni simulate", definite invece come «operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti» (lett. g-bis).
Tuttavia, tale distinzione può essere al più utile per tracciare il discrimine tra l'art. 2 e l'art. 3 del d.lgs. n. 74/2000 costituito dall'efficacia probatoria, in alle norme tributarie, del documento (la fattura o altro documento) utilizzato per la dichiarazione fraudolenta ex art. 2 rispetto ai "documenti falsi" o agli "altri mezzi fraudolenti" indicati nel successivo art. 3. In sostanza l'elemento specializzante tra le due norme è l'utilizzazione (art. 2) o meno (art. 3) di fatture o altri document ad esse parificati, costruendo il range di applicazione normativa nell'uno e nell'altro caso.
Diverso è però il rapporto tra l'art. 3 (contestato nel caso in esame al capo 5 della rubrica delle imputazioni) la cui configurabilità in luogo dell'art 2 non contestata (v. in particolare il ricorso nell'interesse di NOME COGNOME) e l'art. (contestato ai capi 8, 12, 13, 15, 16, da 18 a 25, da 27 a 31, da 33 a 48 e da 51 a 56).
Anche se, infatti, quanto alla contestazione di cui al capo 5 della rubrica delle imputazioni ci si trova in presenza di operazioni simulate coinvolgenti più di due soggetti (nella specie oltre alla M.P. anche le false società esportatrici abituali) e realizzate avvalendosi di documenti falsi (le lettere di intento), permane comunque l'ulteriore e ben distinta azione dell'emissione di fatture tra le cartiere e sogget terzi (indicati negli allegati richiamati da ogni capo di imputazione) finalizzate consentire a questi ultimi di evadere il fisco detraendosi indebitamente VIVA addebitata alla vendita.
Il fatto che reati diversi (nella specie quello di cui all'art. 3 e quello di all'art. 8) siano stati programmati e consumati in esecuzione di un unitario disegno
criminoso, ancorché coinvolgente più soggetti, non è di certo elemento per ritenere l'assorbimento di uno nell'altro e quindi per sostenere che l'intervenuta condanna per essi costituisce un bis in idem.
A ciò si aggiunge che i due reati in contestazione sono stati realizzati anche mediante elementi decettivi diversi: l'utilizzo delle false lettere di intento relazione alla violazione dell'art. 3 e le fatture (comunque emesse) in relazione all'art. 8.
Così come non v'è dubbio che, pur nell'ambito di una complessiva attività caratterizzata da simulazione, le fatture emesse dalle cartiere – in sé intese danno conto documentale di operazioni mai realizzate tra i soggetti emittenti ed i terzi e quindi di fatto "inesistenti".
Ne consegue che le operazioni soggettivamente "inesistenti" devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l'indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile (nel caso di specie le società cartiere) diverso da quello effettivo (individuato nella M.P.). Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara ed autonoma capacità decettiva, idonea a impedire la identificazione degli attori effettivi delle operazion commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell'accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all'area del penalmente rilevante.
Con specifico riguardo all'IVA, in particolare, va evidenziato che il sistema impositivo opera mediante un meccanismo di compensazioni e che il versamento dell'imposta all'Erario deve avvenire proprio ad opera di colui che effettua la prestazione (la vendita o l'erogazione del servizio). In altri termini, colui ch realmente effettua la prestazione, è tenuto ad emettere la fattura, nella quale deve indicare sia il valore imponibile, sia il valore dell'IVA, e, poi, alla scadenza prevista dovrà corrispondere questa imposta all'Erario, previa detrazione di quanto versato per il medesimo tributo, ai suoi fornitori.
Precisamente, il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e succ. modif., relativo alla istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto, individua proprio colui che effettua la prestazione come il "debitore" di tale imposta. In particolare, l'art. 1 d.P.R. cit., rubricato «debitore d'imposta», al primo comma, nel testo attualmente vigente, recita: «L'imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all'Erari cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell'art. 19, nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo».
Ne discende, come detto, che la fattura emessa da un soggetto diverso da quello che ha realmente eseguito la prestazione documenta di fatto un'operazione
"inesistente" innescando un (potenziale) meccanismo relativo alla erogazione ed alla possibile compensazione di imposta che non trova alcun presupposto in un'azione commerciale realmente compiuta.
A solo fine di completezza deve essere ricordato che nel senso sopra descritto è orientata anche la giurisprudenza civile di legittimità che ha chiarito che «la nozione di "fattura inesistente" va riferita, non soltanto all'ipotesi di mancanza assoluta dell'operazione fatturata, sul piano fattuale, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l'ipotesi di inesistenza soggettiva, che ricorre quando, pur risultando i beni o il servizio reso, entrati nella disponibilità patrimonia dell'impresa utilizzatrice delle fatture, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi» ciò in quanto da tale situazione scaturisce la rilevante conseguenza sul piano tributario in quanto resta comunque evasa l'imposta relativa alla diversa operazione effettivamente realizzata (Cass. Civ., Sez. 5, n. 23074 del 14/12/2012, Agenzia Entrate c/ RAGIONE_SOCIALE, Rv. 625036 01).
8.2.5. Non fondata è, altresì, da ritenersi la deduzione difensiva secondo la quale vi sarebbe comunque contraddizione intrinseca nelle contestazioni perché se le operazioni sono soggettivamente "inesistenti" le stesse non possono essere considerate "imponibili" e quindi dare luogo ad un'imposta evasa rilevante ex art. 3 del d.lgs. n. 74/2000.
In realtà tale deduzione trascura da un lato il fatto che nel caso in esame ci si trova in presenza di operazioni "soggettivamente" inesistenti ma "oggettivamente" esistenti – essendo stato accertato che la M.P. (direttamente) comprava e vendeva il carburante agli acquirenti finali – e che pertanto tali operazioni determinavano un effettivo imponibile IVA che avrebbe dovuto vedere come parte la stessa M.P. e, dall'altro, che l'art. 21, comma 7, d.p.r. 633/72 assoggetta a responsabilità per il pagamento dell'imposta il soggetto che materialmente provvede all'emissione, anche se diverso dal soggetto indicato nel documento come emittente. Colui che in concreto emette la fattura è poi responsabile anche ex art. 8, d.lgs. n. 74/2000, per "emissione di fattura per operazioni inesistenti", ove sia ravvisato, come nel caso in esame, il dolo specifico di consentire l'evasione di terzi.
9. I motivi di ricorso vertenti sul concorso degli imputati nei reati-satell
9.1. Occorre al riguardo prendere le mosse dai motivi di ricorso formulati nell'interesse degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME (sopra rispettivamente riassunti ai paragrafi 2.2.3, 2.3.5, 2.12.2 e 2.5.4) nei quali
Lo'
sostanzialmente si contesta l'assenza di prova circa la ricorrenza dell'elemento soggettivo dei reati di cui ai capi 5, 7 e 8 della rubrica delle imputazioni in quanto detti imputati (asseritamente) non erano a conoscenza della falsità, solo accertata ex post, delle lettere di intento rilasciate dalle società clienti, in quanto al momento dei fatti ci si trovava in presenza di una situazione che rispondeva alle linee-guida di settore e le cui informazioni relative alle società interessate erano state avallate dall'Agenzia delle Entrate e, comunque, come emerso dalla consulenza "COGNOME", non si trattava di società meramente cartiere.
Non sfugge che, anche in questo caso, con i motivi di ricorso in esame si finisce per proporre a questa Corte di legittimità una inammissibile rilettura e rivalutazione del materiale probatorio.
La questione risulta, infatti, essere già stata esaminata in plurimi passaggi della trattazione che precede avendo, come detto, i Giudici di merito da un lato evidenziato come l'utilizzo delle false lettere di intento documentanti il ruolo di esportatori abituali delle società interessate era elemento essenziale per la perpetrazione delle frodi organizzate dal sodalizio criminale nel quale i tre ricorrenti hanno addirittura assunto il ruoli di promotori o, comunque, di organizzatori, e, dall'altro, gli stessi Giudici hanno indicato gli elementi dai qua trarre la piena consapevolezza della falsità dei documenti de quibus.
In sostanza, i Giudici di merito hanno evidenziato come i capillari accertamenti investigativi effettuati, pedissequamente riportati nelle informative di P.G. e negli atti della fase cautelare, hanno dimostrato la fittizìetà delle società fornite dagl associati ed utilizzate quali interposte nelle cessioni di carburanti e quindi strumento per la realizzazione delle frodi; così come hanno dato prova della falsità delle lettere di intento. Tutte le società diverse dalla M.P., infatti, sono risult essere imprese prive di operatività, formalmente gestite da prestanome, normalmente nullatenenti, immuni quindi da conseguenti azioni recuperatorie dell'imposta evasa, strumentalmente impiegate per essere caricate del debito d'imposta sul valore aggiunto che non verrà mai versata all'Erario, sistematicamente e fittiziamente interposte o tra il fornitore comunitario e la M.P. o tra questa ed il cliente finale in gran parte delle operazioni di vendita. In alcun casi, addirittura, si è giunti ad una compresenza di soggetti interposti sia a monte che a valle del deposito gestito dagli imputati.
A nulla rileva, infine, la circostanza che le società interessate venivano procacciate dal COGNOME e dalle persone a lui collegate, perché ciò, come si è già avuto modo di dire, faceva parte della mera ripartizione di ruoli all'interno della compagine criminale nell'esecuzione di un complessivo programma criminoso che prevedeva anche l'utilizzo di detti supporti documentali della cui falsità – preme
ribadirlo ancora una volta – come è emerso dalle attività di intercettazione, erano consapevoli i ricorrenti.
9.2. Manifestamente infondate sono poi le doglianze formulate nell'interesse dell'imputata NOME COGNOME (riportate al superiore par. 2.2.4) in relazione ai reati contestati alle società clienti di cui ai capi da 12 a 16, da 18 a 48, da 51 a 56, da 74 a 83 e 86 della rubrica delle imputazioni laddove la difesa della ricorrente, sulla premessa che in detti capi risultano diversamente ipotizzati i reati tributari ex artt. 8 e 5 d.lgs. n. 74/2000 aventi ad oggetto l'emissione di fattur soggettivamente inesistenti, nonché le infedeli o omesse dichiarazioni da parte delle società ipotizzate come "cartiere", ha sostenuto che non vi sarebbe contributo causale dell'imputata trattandosi di segmenti di azione diversi, non ricavando l'imputata alcun guadagno da tale attività e non svolgendo la stessa alcuna attività gestionale delle società cartiere. Difetterebbe, inoltre, sempre secondo la difesa della ricorrente l'elemento soggettivo dei reati contestati.
Rileva al riguardo l'odierno Collegio che con tale motivo di ricorso la difesa tende a parcellizzare le evidenze probatorie ben delineate dai Giudici di merito.
Si è, infatti, già detto sopra, come il ruolo della COGNOME nella vicenda delittuosa, intesa nel suo complesso, è stato ben delineato, ruolo che colloca l'imputata non solo come partecipe ma anche come organizzatrice dell'associazione di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni e che finisce per riflettersi sui reati-scopo realizzati dal sodalizio in uno sviluppo preordinato concatenato delle singole azioni delittuose e che fanno della COGNOME, come degli altri imputati, un soggetto consapevolmente concorrente (sia materialmente che moralmente) nei reati sopra indicati.
9.3. Non fondati sono, poi, i motivi di ricorso sopra riassunti ai paragrafi 2.3.3, 2.3.7 e 2.3.12.1, nei quali la difesa della ricorrente NOME COGNOME si duole dell'intervenuta affermazione della penale responsabilità della stessa in relazione al reato di cui al capo 2A della rubrica delle imputazioni.
In detto capo si contesta, in sintesi, alla COGNOME il reato di cui all'art. 648cod. pen. per avere impiegato nell'attività di compravendita di prodotti energetici svolta dal deposito della M.P. la somma di almeno 500.000 euro provenienti dalle attività delittuose in materia di evasione IVA ed accise sui carburanti svolte da NOME COGNOME e dal suo clan di appartenenza ed estranee alla M.P., denaro materialmente corrisposto da NOME COGNOME al cugino NOME COGNOME e da questi ceduto ad NOME COGNOME per risanare la situazione finanziaria della M.P., nonché per avere reimpiegato altre somme provento delle attività delittuose anche in
materia di evasione IVA e sui carburanti svolte da NOME COGNOME e dal suo clan di appartenenza.
Deve innanzitutto essere ricordato che in relazione a tale reato è anche contestata la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen., esclusa però dalla Corte di appello ma che dovrà essere oggetto di un nuovo esame a seguito dell'annullamento in parte qua della sentenza qui in esame.
La difesa della ricorrente ha sostanzialmente evidenziato che i Giudici di merito sarebbero caduti in contraddizione sostenendo, da un lato, che la COGNOME era consapevole dell'appartenenza del COGNOME ad una associazione per delinquere di tipo mafioso, al punto che dal G.u.p. era stata ritenuta sussistente l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen. poi esclusa all'esito del giudizio di appello, dall'altro, che la Corte territoriale non avrebbe spiegato le ragioni per le quali i differente significato probatorio attribuito agli elementi non ha prodotto alcun effetto sulla conoscenza della matrice illecita del finanziamento.
La questione è da ritenersi, almeno allo stato, accantonata, in attesa di ciò che il Giudice del rinvio decida nuovamente sulla configurabilità o meno di detta circostanza aggravante.
A ciò si aggiunge, sempre secondo la difesa della ricorrente, che la Corte territoriale non ha indicato quali fossero le modalità non trasparenti di erogazione del denaro dal COGNOME alla COGNOME, da quali intercettazioni sarebbe stata tratta la prova della consapevolezza dell'imputata della provenienza illecita del denaro e da quali elementi sarebbe desumibile che l'imputata era a conoscenza del soggetto (NOME COGNOME che aveva ceduto la provvista al COGNOME.
In verità, con riguardo a questo secondo profilo di doglianza, deve essere ricordato che la questione era stata tutt'altro che trascurata in sede di giudizio di merito, dato che nella sentenza di primo grado i fatti oggetto di contestazione al capo 2A della rubrica delle imputazioni erano stati oggetto di trattazione alla pag. 78 e seguenti ed il G.u.p. aveva evidenziato:
che i rapporti tra COGNOME ed il COGNOME erano risalenti nel tempo e che è intervenuto un rinvio a giudizio del COGNOME per il reato di cui all'art. 416-bis cod pen. quale soggetto intraneo al Clan COGNOME;
che il COGNOME gestiva il sistema societario anche per conto di NOME COGNOME;
c) che le iniziative imprenditoriali tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME hanno trovato il centro di interessi nella società RAGIONE_SOCIALE, costituita nel 2014 ed intestata formalmente allo stesso COGNOME ed a NOME COGNOME ma riconducibile ad NOME COGNOME per la realizzazione di una serie di operazioni di investimento di
provviste illecite nel settore del commercio e della distribuzione dei prodotti petroliferi;
che attraverso la RAGIONE_SOCIALE, operativa nel settore del commercio di prodotti petroliferi, ed altre società cartiere, COGNOME e COGNOME agivano sinergicamente per consumare plurimi delitti di fronde fiscale;
che COGNOME e COGNOME, approfittando della crisi di liquidità della RAGIONE_SOCIALE hanno immesso in detta società capitali illeciti (in particolare 500.000 euro) accumulati grazie alle proprie attività illecite anche in materia di evasione di IVA ed Accisa (tra cui quelle compiute attraverso la New Service);
che il rapporto tra il COGNOME e la COGNOME si era avviato anche grazie alla predetta iniezione di denaro nella M.P.;
che la COGNOME aveva effettivamente ottenuto il predetto finanziamento in maniera non tracciabile, essendo il denaro stato ritirato dal COGNOME presso un luogo che dalle indagini è risultato essere regolarmente utilizzato per il passaggio di denaro (il Bar Vittoria), tramite NOME COGNOME;
h) che l'avvenuta operazione di finanziamento è confermata dalla stessa NOME COGNOME nelle conversazioni intercettate con lo stesso COGNOME e con NOME COGNOME in data 14 febbraio 2018, nonché nella conversazione intercettata in data 10 marzo 2018 con NOME COGNOME;
che vi sono altre conversazioni (indicate in sentenza) che dimostrano come l'apporto di capitali da parte del COGNOME fosse continuo e non limitato al solo intervento iniziale;
che la disponibilità di una somma così elevata in contanti, le modalità occulte di consegna, la ricezione con modalità altrettanto occulte della somma di denaro da parte di NOME COGNOME sono indicative della consapevolezza da parte di tutti gli attori della vicenda della provenienza illecita della somma in questione;
m) che, infine, la COGNOME era pienamente consapevole della provenienza del denaro dalla criminalità organizzata come dimostrano diverse conversazioni (tra cui una con la sorella NOME nella quale ha fatto chiaro riferimento alla circostanza di poter operare nel settore in quanto sostenuta, anche economicamente, dalla camorra, o ancora quella in cui in un momento d'ira fa riferimento ai "camorristi napoletani").
La Corte di appello nella propria sentenza (v. pagg. 54 e 55) ha, poi, sostanzialmente ripercorso l'iter argomentativo del G.u.p. affermando testualmente che «la somme erogate alla COGNOME dal COGNOME avevano certamente una provenienza illecita, sia perché l'inserimento di capitali era avvenuto con modalità non trasparenti, sia perché il compendio intercettativo ha indubbiamente dato conto di una siffatta realtà».
Osserva l'odierno Collegio che dalle congrue e logiche motivazioni delle sentenze di merito che tra loro si integrano si evince:
che il denaro oggetto del finanziamento di cui all'imputazione era di provenienza illecita (situazione a dir del vero neppure contestata dalla difesa della ricorrente);
che la COGNOME sulla base delle conversazioni intercettate era pienamente consapevole della provenienza del denaro da soggetti appartenenti o comunque contigui alla criminalità organizzata;
che, contrariamente a quanto asserito dalla difesa, risultano pienamente illustrate le modalità "non trasparenti" di erogazione del finanziamento: non v'è infatti chi non veda come la disponibilità di una somma così elevata di denaro in contante, la non tracciabilità dell'operazione, le modalità occulte di consegna, la ricezione con modalità altrettanto occulte della somma di denaro da parte di NOME COGNOME, sono tutti elementi chiaramente e logicamente indicativi della consapevolezza da parte di tutti gli attori della vicenda della provenienza illecita della somma in questione.
Ritiene pertanto l'odierno Collegio che sotto quest'ultimo profilo ed indipendentemente dalle valutazioni circa la configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen., i vizi lamentati nei motivi di ricor non sussistono e che, per l'effetto, le doglianze ivi esposte – come già sopra affermato – sono prive di fondamento.
9.4. Non fondato è, poi, anche il motivo di ricorso sopra riassunto al paragrafo 2.3.5 nel quale la difesa della ricorrente si duole dell'intervenuta affermazione della penale responsabilità dell'imputata NOME COGNOME in relazione al reato di cui al capo 7 della rubrica delle imputazioni.
In detto capo si contesta alla COGNOME di avere concorso nella consumazione del reato di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 74/2000 in relazione alla dichiarazione IV 2019 relativa all'anno di imposta 2018 per la società RAGIONE_SOCIALE della quale era procuratrice speciale ed amministratore di fatto, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse nel 2018 dalle altrettanto inesistenti società bulgare RAGIONE_SOCIALE (censita in Italia come RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE (censita in Italia come RAGIONE_SOCIALE).
La difesa della ricorrente (pagg. 15-17 del ricorso a firma avv. COGNOME) sostanzialmente ha dedotto:
che la Corte di appello non avrebbe risposto agli interrogativi che le erano stati posti con l'atto di appello (pagg. 62-64) omettendo di indicare un qualsiasi elemento che potesse far emergere la penale responsabilità della COGNOME;
che come si evince dalla consulenza "COGNOME", anche senza l'interposizione fittizia delle società bulgare, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe acquistato direttamente da altri fornitori con il medesimo effetto, ossia la ricezione di una fattura IVA da corrispondere e, conseguentemente, da poter detrarre;
che l'avvenuto pagamento da parte della M.P. delle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE è evidenziato in una scheda contabile;
che, sebbene la natura fittizia dei rapporti con tali società sarebbe riconducibile alla vendita del prodotto sottocosto, tuttavia con riguardo alla PROVENZA NOME RAGIONE_SOCIALE non è stato svolto alcun accertamento in ordine alla inesistenza delle operazioni contestate, mentre con riferimento alla RAGIONE_SOCIALE, la maggior parte delle fatture indica un prezzo assolutamente in linea con quello nazionale. in
Il Giudice di primo grado (v. pagg. 54 e 55 della relativa sentenza) trattando della PROVENZA NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, ha, tuttavia, ricostruito la vicenda come segue: «Si tratta di soggetti, rappresentanti fiscali in Italia di società non residenti, interposti con i reali fornitori comunitari, i q hanno fatturato alla M.P. con applicazione dell'IVA ordinaria, in violazione dell'art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, laddove, per tutte le operazioni territorialmente rilevanti in Italia poste in essere da soggetti non residenti l'imposta non deve essere assolta dalla posizione I.V.A. italiana del cedente o prestatore estero che la espone in fattura (si veda la risoluzione dell'Agenzia delle Entrate 20 febbraio 2015, n. 21/e), bensì dai soggetti passivi nazionali cessionari. Ciò significa che RAGIONE_SOCIALE, registrando in contabilità le fatture con IVA emesse dalle rappresentanze italiane delle due società fornitrici, invece di risultare il soggetto debitore dell'IVA sulla transazione al momento della rivendita del carburante – in quanto soggetto passivo nazionale cessionario che all'atto dell'acquisto doveva integrare con VIVA dovuta sulla transazione, neutralizzandola con la cd. "doppia registrazione sia in "dare" che in "avere" – ha maturato, invece, un credito IVA per l'imposta asseritannente versata al 22% al soggetto cedente e che questo non ha mai riversato all'erario. Dall'attività tecnica è emerso che COGNOME tramite utenze intestate al prestanome COGNOME NOME, gestiva di fatto, in accordo col COGNOME, le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE (di cui è legale rappresentante lo stesso Provenza) e la RAGIONE_SOCIALE (risultata essere addirittura inesistente). Inoltre, attraverso la documentazione pervenuta dall'organo collaterale romeno è stato accertato che il prodotto della
RAGIONE_SOCIALE (acquistato, non a caso, dalla RAGIONE_SOCIALE riconducibile al COGNOME), è stato venduto nello stesso giorno dell'acquisto alla RAGIONE_SOCIALE e sempre sottocosto (platts -18). Ciò dimostra in maniera inequivoca che il passaggio non aveva altra ragione economica se non quella di frapporre ulteriori filtri tra i veri soggetti protagonisti della transaz per ostacolare la ricostruzione dei reali soggetti che vendevano ed acquistavano il prodotto e consente di ritenere integrato il reato di utilizzazione di fatture pe operazioni soggettivamente inesistenti, contestato al capo 7), da cui è conseguita un'indebita detrazione IVA per complessivi euro 3.409.321,93».
La Corte di appello (v. pagg. 65 e 66 della relativa sentenza) ha sostanzialmente ripercorso le medesime argomentazioni della sentenza di primo grado aggiungendo che è stato anche accertato che le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE avevano la stessa composizione del consiglio di amministrazione (NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) e che NOME COGNOME è stato individuato dalla P.G. come prestanome di NOME COGNOME.
Osserva l'odierno Collegio che risulta pertanto accertato in fatto che le due società bulgare sopra indicate sono state inserite nel meccanismo fraudolento descritto così da consentire l'indebita detrazione IVA sopra riportata, vicenda che i Giudici di merito, con una valutazione logica e congrua, quindi insindacabile in sede di legittimità, hanno ritenuto di addebitare oggettivamente e soggettivamente anche alla COGNOME alla luce del ruolo primario rivestito dalla stessa nella M.P.
9.5. Parzialmente fondati, nei limiti di cui si dirà, sono i motivi di ricor formulati nell'interesse dell'imputata NOME COGNOME e sopra riassunti ai paragrafi 2.4.1, 2.4.2 e 2.4.3.
All'esito dei giudizi di merito l'affermazione della penale responsabilità della COGNOME è intervenuta per i reati di cui ai capi 12, 13 e 85A della rubrica delle imputazioni.
In sintesi, si contesta all'imputata ai capi 12 e 13, quale responsabile della gestione amministrativa, finanziaria e contabile della RAGIONE_SOCIALE, di avere concorso con i coimputati COGNOME e COGNOME, NOME COGNOME COGNOMEed altri) nel reato di cui all'art. 8 del d.lgs. n. 74/2000 relazione a detta società che emetteva nei periodi di imposta 2017 e 2018 fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di consentire ad altre società di evadere il fisco detraendosi indebitamente VIVA e alla M.P. di occultare la sua reale natura di soggetto passivo d'IVA.
Al capo 85A si contesta, poi, alla medesima imputata di avere concorso, nel ruolo sopra indicato, nella violazione dell'art. 5 del d.lgs. n. 74/2000 per avere omesso la RAGIONE_SOCIALE di presentare la dichiarazione IVA per l'anno 2018 evadendo quindi la relativa imposta.
La difesa della ricorrente, in relazione alle imputazioni per le quali è intervenuta l'affermazione della penale responsabilità ha rilevato:
che vi sarebbe difetto di motivazione con riferimento alla sussistenza in capo all'imputata dell'elemento soggettivo dei reati in contestazione;
b) che i Giudici del merito hanno affermato che gli amministratori di fatto della RAGIONE_SOCIALE erano NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quindi soggetti diversi dalla ricorrente;
c) che gli unici elementi a carico della stessa sono quelli indicati a pag. 73 della sentenza impugnata, peraltro condensati in apodittiche affermazioni e che non tengono conto che l'imputata era solo una dipendente amministrativa della società senza alcun potere gestorio;
d) che dal contenuto delle conversazioni intercettate e richiamate a pag. 73 della sentenza impugnata non si evince mai un espresso riferimento alla RAGIONE_SOCIALE da parte di NOME COGNOME con riguardo alla posizione della sorella NOME COGNOME;
e) che la Corte di appello avrebbe totalmente omesso di motivare in relazione ai fatti di cui al capo 85A.
Osserva l'odierno Collegio che dalla sentenza di primo grado emergono una serie di elementi che consentono di ben inquadrare la figura di NOME COGNOME.
Innanzitutto, è emerso che nell'ambito di una parallela indagine che ha visto coinvolti NOME COGNOME e NOME COGNOME sempre relativa alla commercializzazione di prodotti petroliferi con le modalità di cui al presente processo, era coinvolta una società denominata RAGIONE_SOCIALE intestata a NOME COGNOME (figlia di NOME COGNOME) la quale è stata condannata dal G.u.p. del Tribunale di Napoli per il reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. aggravat dall'art. 416-bis.1 cod. pen. per aver agevolato il clan COGNOME.
Inoltre, con specifico riguardo ai fatti di cui al presente processo, il G.u.p. h precisato che dagli esiti dell'attività di indagine (in particolare dal contenuto conversazioni intercettate e riportate alle pagg. 76 e 77 della sentenza) è emerso chiaramente che, in tale contesto e per le finalità unicamente illecite che caratterizzavano il gruppo in esame, NOME COGNOME, presso gli uffici di Napoli, INDIRIZZO ove venivano gestite tutte le società cartiere utilizzate per attuare plurime frodi fiscali, si occupava anche della gestione amministrativa e contabile della AGM
RAGIONE_SOCIALE, partecipando attivamente alle frodi finalizzate al mancato pagamento dell'IVA, nonché compilando documentazione amministrativo-contabile falsa del tutto consapevole dell'utilizzo delle società cartiere (indicativa è l'espressione dalla stessa utilizzata in una delle conversazioni «… non si può perché se RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sono la stessa cosa … mi portano carcerata …» con la quale ha manifestato il timore che la scoperta della truffa, che appariva possibile in quanto una delle società coinvolte era in quel momento soggetta ad una verifica della Guardia di Finanza, avrebbe potuto portare al suo arresto).
Risulta, inoltre, sempre dalle conversazioni intercettate che la COGNOME ai fini del recapito delle fatture consigliava di evitarne la spedizione con la posta elettronica affermando che era preferibile un recapito cartaceo delle stesse e, ancora, che la ricorrente veniva anche delegata dal padre per la consegna del denaro presso il bar Vittoria, a NOME COGNOME e curava di portare tempestivamente al padre le chiavi del nuovo appartamento sito nel rione INDIRIZZO di Napoli dove venivano temporaneamente trasferiti gli uffici della RAGIONE_SOCIALE a causa delle ricerche da parte delle forze dell'ordine di NOME COGNOME (all'epoca latitante), per evitare che la società potesse essere ricondotta al sodalizio.
La Corte di appello (pagg. 73 e 74 della relativa sentenza) ha sostanzialmente ripercorso le evidenze probatorie già illustrate dal G.u.p. e fatto proprie le relativ argomentazioni, aggiungendo che l'attività di NOME COGNOME era anche quella di cercare di sistemare eventuali errori di fatturazione che avrebbero potuto fare emergere i meccanismi illeciti sulle reali destinazioni del prodotto derivanti dalle varie società del gruppo.
Rileva l'odierno Collegio che in relazione ai capi 12 e 13 della rubrica delle imputazioni le sentenze di merito sono caratterizzate da una motivazione esente da vizi in ordine alle ragioni per le quali è stata affermata la penale responsabilità dell'imputata NOME COGNOME il che rende non fondati i motivi di ricorso sul punto che sono stati qui esaminati.
Altrettanto comprovata dalle argomentazioni contenute nelle sentenze di merito e sopra richiamate è, poi, l'esistenza dell'elemento soggettivo dei reati in contestazione alla stessa ai capi 12 e 13, il che rende manifestamente infondato il "motivo nuovo" di ricorso presentato con atto datato 25 novembre 2024 (v. sup. par. 2.4.5) nel quale, sostanzialmente quanto inammissibilmente, si ripropongono diverse valutazioni del compendio probatorio già adeguatamente esaminato dai Giudici di merito.
Non altrettanto è, invece, a dirsi in relazione al capo 85A della rubrica delle imputazioni atteso che in relazione allo stesso vi è una motivazione solo apparente
nella sentenza di primo grado (pag. 56) ed una totale assenza di motivazione nella sentenza della Corte di appello.
Quanto detto impone l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti dell'imputata NOME COGNOME limitatamente al reato di cui al capo 85A della rubrica delle imputazioni con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per un nuovo giudizio su detto capo ed il rigetto nel resto del ricorso della stessa imputata.
In ordine alle posizioni degli altri concorrenti si dirà nel prosieguo.
9.6. Non fondato è il motivo di ricorso formulato nell'interesse di NOME COGNOME in relazione al reato di cui al capo 4 della rubrica delle imputazioni così come riassunto al superiore paragrafo 2.5.3.
Con il predetto capo di imputazione risulta contestato al COGNOME il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 cod. pen.) in quanto, avendo lo stesso partecipato ai reati tributari e di evasione delle accise a lui contestati ai capi 5, 7, 8 13, 48, dal 51 al 56, dal 71 al 83 e 89, impiegava nell'attività imprenditoriale di ristorazione della RAGIONE_SOCIALE la somma di 420.000 euro proveniente dalla commissione dei predetti delitti in modo tale da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.
In sintesi, la difesa del ricorrente ha evidenziato che nel caso in esame difetterebbe la compiuta individuazione del reato presupposto non potendo la contestazione tradursi in una inversione dell'onere della prova imponendo all'imputato di documentare l'origine dei propri investimenti e, ancora, che dal contenuto delle conversazioni intercettate non si poteva comunque dedurre con sicurezza che il COGNOME ha utilizzato per la ristrutturazione del locale (anch'essa non provata) proprio il denaro derivante da attività illecita.
Si è già ampiamente detto del ruolo rivestito da NOME COGNOME nel sodalizio di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni.
La vicenda qui in esame risulta, innanzitutto, essere stata compiutamente esaminata dal G.u.p. (v. pag. 85 e segg. della relativa sentenza) il quale, con motivazione congrua e logica ha evidenziato che:
a) sono stati registrati precisi dialoghi in cui l'imputato parlava espressamente delle ingenti somme di denaro che derivavano dalle frodi e che venivano fatte sparire o venivano investite in beni di lusso o – come nel caso qui in esame – nel ristorante sito in Roma, INDIRIZZO, ove sono risultati ubicati il ristorante romano "RAGIONE_SOCIALE" e la sede legale della società "RAGIONE_SOCIALE" (esercente, come detto, attività di ristorazione);
risulta sempre dalle conversazioni intercettate che la predetta società, seppure formalmente intestata al padre NOME COGNOME, era riferibile al di lui figlio il quale vi aveva investito 420.000 euro per i lavori di ristrutturazione;
lo stesso imputato proprio mentre si trovava presso il ristorante è stato intercettato mentre illustrava ai parenti le modalità di allestimento del locale;
indubbia è la provenienza illecita delle consistenti somme investite, ove si tenga conto del fatto che dall'ampia attività di intercettazione telefonica, svoltasi per un consistente arco temporale, è emerso che NOME COGNOME non svolgeva altra attività oltre a quella nell'ambito della M.P. e come in tale contesto aziendale la gran parte degli introiti fossero di natura illecita in quanto frutto evasioni di imposta.
La Corte di appello (v. pag. 55 e segg. della relativa sentenza), a sua volta, ha ripercorso l'iter argonnentativo del primo Giudice, richiamando una conversazione captata, avente per oggetto l'impiego delle quote dei ricavi provenienti dall'attività di deposito carburanti (caratterizzata da un'evasione milionaria di imposte erariali), conversazione nella quale il COGNOME ha dichiarato di avere investito la propria quota in un ristorante e in una abitazione. Sempre la Corte di appello ha poi anche ribadito che non risulta che il COGNOME avesse introiti diversi da quelli derivanti dalle attività descritte, il che porta logicamente concludere che le somme investite dall'imputato nel ristorante avevano una provenienza illecita e che la finalizzazione dell'investimento era quella di reimpiegare in attività lecite le somme provenienti da reato, in tal modo ostacolandone l'individuazione della loro reale provenienza.
Resta solo da aggiungere che, contrariamente a quanto asserito dalla difesa, non ci si trova in presenza di una inversione dell'onere della prova a carico dell'imputato circa la provenienza della somma investita nella predetta attività di ristorazione ma solo di una corretta applicazione della "prova logica" da parte dei Giudici di merito e che comunque, in presenza degli elementi accusatori evidenziati, non si richiedeva all'imputato di provare la provenienza dell'ingente somma di denaro di cui alla imputazione, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell'origine del possesso del denaro medesimo, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che avrebbero potuto costituire l'indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officio del giudice, e che comunque potevano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento. Ciò tuttavia non è avvenuto.
Ritiene, pertanto, l'odierno Collegio che anche in questo caso, quanto all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato con riguardo al reato di
CUI al capo 4 della rubrica delle imputazioni, ci si trova in presenza di motivazioni congrue, logiche e non certo contraddittorie che di fatto si confrontano e smentiscono gli assunti difensivi riproposti anche in questa sede dei quali, pertanto, non può che rilevarsi, come detto, l'infondatezza.
9.7. L'infondatezza caratterizza anche il quinto motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME (sopra riassunto al par. 2.5.5) con il quale si contesta l'intervenuta affermazione della responsabilità dell'imputato in relazione ai reati di cui ai capi 7, 13, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 51, 52, 53, 53A, 54, 55, 56, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83 e 89 della rubrica delle imputazioni.
Si tratta, nel caso in esame di reati che hanno ad oggetto l'emissione di fatture ritenute soggettivamente inesistenti, nonché le infedeli o omesse dichiarazioni da parte delle società ipotizzate cartiere, le quali, dopo aver acquistato il prodotto dalla RAGIONE_SOCIALE lo rivendevano ai destinatari finali senza versare l'IVA a questi addebitata sulla cessione. Le fattispecie contestate risultano complessivamente ascritte, oltre che in capo ai rappresentanti di diritto e di fatto delle società di vo in volta interessate, anche al COGNOME a titolo di concorso quale sodale che avrebbe assicurato con il lavoro svolto l'approvvigionamento del prodotto e l'incasso di profitti illeciti nella consapevolezza della loro provenienza da soggetto interposto, ovvero gestore del prodotto energetico di apparente proprietà delle società depositante ma in realtà immesso in consumo dalla M.P. nonché, ancora, sodale che ha concretamente assicurato sino alla fase di fatturazione e seguito con il proprio lavoro l'organizzazione della vendita del prodotto della RAGIONE_SOCIALE per il tramite di società false esportatrici abituali.
Al riguardo la difesa del ricorrente rileva che, anche in questo caso, non vi sarebbe prova:
delle illiceità delle operazioni;
della effettiva interferenza dell'imputato nelle operazioni stesse;
e si duole del fatto che le doglianze difensive esposte in sede di gravame non hanno trovato risposta da parte della Corte di appello.
Si è già detto circa la sussistenza dei meccanismi di frode ampiamente descritti nelle sentenze di merito con conseguente illiceità delle operazioni compiute e, in questa sede, non può che confermarsi la corretta configurazione dei reati contestati.
Si è già, altresì, detto del ruolo rivestito dall'imputato NOME COGNOME nel sodalizio di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni e delle attività dall
stesso poste in essere e non si può non rilevare come tali aspetti finiscono per interferire anche sulle contestazioni dei reati-satellite.
Il G.u.p. nella propria sentenza ha ampiamente ricostruito vicende ed attori degli illeciti relativi ai fatti-reato qui in esame.
La Corte di appello (pagg. 66-68), nel rispondere adeguatamente ai motivi di gravame posti al riguardo, ha, poi, sostanzialmente ricordato come i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti ad opera delle ditte cartiere accertate dagli inquirenti negli anni di imposta 2017, 2018 e 2019 sono stati posti a carico anche dei membri della famiglia COGNOME – e quindi anche a carico dell'odierno ricorrente – che curava in prima persona i meccanismi illeciti anche con riferimento all'evasione di imposta in materia di accise ed altrettanto è a dirsi con riferimento ai reati di omessa presentazione delle dichiarazioni IVA, poiché i destinatari finali dei proventi derivanti dall'omesso versamento dell'IVA da parte delle società cartiere e, dunque, concorrenti nella creazione e nella gestione di dette società come cartiere al fine di porre in essere i descritti meccanismi illeciti con il proposito di omettere il versamento dell'IVA e la presentazione delle relative dichiarazioni, erano proprio i componenti della famiglia COGNOME.
Ritiene pertanto l'odierno Collegio che nessun vizio di motivazione e tantomeno alcuna violazione di legge sia ravvisabile nelle sentenze di merito in relazione alle intervenute affermazioni di responsabilità di NOME COGNOME e degli altri concorrenti nei reati de quibus.
9.8. Non fondato è anche il motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME riassunto al superiore par. 2.9.3, nel quale la difesa del ricorrente ha dedotto che in relazione ai reati di cui ai capi 5, 7 e 8 della rubric delle imputazioni non vi è prova dell'elemento soggettivo o di un contributo materiale o morale dello stesso al compimento delle contestate condotte criminose. Il ricorrente avrebbe poi partecipato alle condotte quando le stesse si erano già concluse in quanto intervenuto in un momento posteriore.
Si è già detto come i Giudici del merito hanno correttamente ricostruito il ruolo anche dell'imputato COGNOME nelle vicende di cui è processo ed evidenziato la piena e consapevole partecipazione dello stesso al meccanismo delittuoso ed alle sue modalità di realizzazione (quindi anche attraverso l'utilizzo delle false lettere d intento).
Alla luce da quanto emerso dalle sentenze di merito non può ritenersi fondata la prospettazione difensiva secondo la quale lo Strina al quale, come si è detto, è stato attribuito il ruolo di "cassiere" del sodalizio, non possa essere considerato concorrente anche nei reati-fine solo perché le operazioni di ricezione delle somme
profitto degli illeciti è avvenuta in un momento cronologicamente successivo alla consumazione dei reati dai quali ne è derivato il relativo profitto.
In realtà, è emerso che lo COGNOME era un tassello dell'intero disegno criminoso che per essere portato a compimento richiedeva, da un lato, la predisposizione dei mezzi per la realizzazione dei fatti illeciti (società cartiere, false lettere di inte ecc.), e, dall'altro, l'effettuazione delle operazioni di trasporto e cessione de carburante fino agli utilizzatori finali nonché, infine, l'acquisizione, la gestione l'occultamento dei proventi illeciti.
Non può, quindi, essere ragionevolmente qualificato il ruolo dello COGNOME come quello di una sorta di "favoreggiatore reale" ex art. 379 cod. pen. (soluzione peraltro neppure prospettata dalla difesa del ricorrente) ma detto ruolo risulta essere stato correttamente individuato in quello di concorrente nei reati-fine ciò perché il soggetto incaricato di fungere stabilmente da contabile dei proventi delle attività delittuose risponde di concorso, quantomeno a livello morale, nelle attività stesse.
9.9. Non fondati sono i motivi di ricorso formulati nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME così come riassunti al superiore par. 2.7.2, nei quali, in relazione ai delitti di cui all'art. 8 d.lgs. n. 74/2000 contestati ai capi 12 e 13 de rubrica delle imputazioni, si deduce che il ricorrente non era amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE in quanto lo stesso era solo deputato alla esecuzione delle disposizioni ricevute da altri coimputati in relazione ai rapporti con la clientel e che, poi, era il solo COGNOME il soggetto incaricato dal COGNOME ad intrattenere i rapporti con la M.P.
Del ruolo del COGNOME quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE nonché in seno al sodalizio criminale contestato al capo 1 della rubrica delle imputazioni si è, poi, già detto ampiamente al superiore paragrafo 6.4 e le considerazioni ivi esposte non possono che intendersi qui integralmente richiamate.
Deve qui solo aggiungersi – ed il discorso vale anche per quanto riguarda il motivo di ricorso che sarà trattato al successivo paragrafo 9.11 con riferimento alla posizione del RAGIONE_SOCIALE nella società RAGIONE_SOCIALE – che questa Corte di legittimità ha reiteratamente chiarito che, ai fini della attribuzione ad u soggetto della qualifica di amministratore "di fatto" non occorre l'esercizio di "tutti i poteri tipici dell'organo di gestione, purché risulti una significativa e contin attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 264009-01, in
relazione ai reati tributari, e Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 246534-01, con riferimento ai reati di bancarotta).
Va, tuttavia, aggiunto che – come anche correttamente ricordato nella sentenza di primo grado – con una sentenza di questa Corte in tema di reati fallimentari, la prova della posizione di amministratore di fatto di una società "schermo", priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata in un meccanismo fraudolento, si traduce in quella del ruolo di dominus ed ideatore del suddetto sistema fraudolento, atteso che non è ipotizzabile l'accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico (quali quelli attinenti ai rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale all'interno di un ente esistente solo da un punto di vista giuridico (così Sez. 5, n. 32398 del 16/03/2018, COGNOME, Rv. 273821-01). Detta conclusione è stata poi ritenuta applicabile anche in relazione ai reati tributari (v. Sez. 3, n. 42147 de 15/07/2019, Reale, Rv. 277984 – 01).
Nel caso in esame, si è già evidenziato di come anche l'imputato COGNOME fosse organizzatore del sistema fraudolento che operava ed animava la vita del sodalizio di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni – anche in riferimento alle cartiere a lui ed ai correi riferibili – tanto che, infatti, percepiva pr predeterminati secondo prefissate percentuali, conseguentemente, gestendo "di fatto" società costituite per essere utilizzate come "cartiere" quali la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE in un meccanismo fraudolento volto ad evadere il versamento dell'IVA.
9.10. Parzialmente fondati, nei limiti di cui si dirà, sono i motivi di ricor formulati nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME (sopra riassunti ai punti 2.10.2 e 2.10.3) con riferimento ai fatti-reato di cui ai capi 12 e 13 della rubrica delle imputazioni nei quali si contesta al ricorrente di avere concorso, in qualità di amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE nell'emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti rispettivamente nei periodi di imposta 2017 e 2018.
Con i predetti motivi la difesa dell'imputato, in sintesi, rileva che:
lo COGNOME non era amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE operativa dall'ottobre 2017, perché allo stesso erano state conferite solo mansioni pratiche ed operative;
il COGNOME utilizzava altri soggetti nei rapporti con la M.P.;
l'imputato ha percepito solo una piccola parte dei proventi della RAGIONE_SOCIALE
il reato di cui al capo 12 è contestato con riferimento alle fatture emesse dal 12 ottobre al 30 dicembre 2017 e quello di cui al capo 13 è contestato con
riferimento alle fatture dal 2 gennaio 2018 al 26 novembre 2018, tuttavia l'imputato è stato tratto in arresto il 24 gennaio 2018 e comunque lo stesso si era leso latitante già dal 18 novembre 2017 con la conseguenza che le contestazioni di cui ai predetti capi sarebbero infondate non essendo neppure provato che lo COGNOME nel periodo di latitanza ha fornito un contributo operativo alle vicende della società RAGIONE_SOCIALE
Rileva, preliminarmente l'odierno Collegio che, analogamente a quanto si è esposto sopra con riferimento al coimputato COGNOME anche con riguardo al ruolo dello COGNOME quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE nonché in seno al sodalizio criminale contestato al capo 1 della rubrica delle imputazioni si è già detto ampiamente al superiore paragrafo 6.4 e le considerazioni ivi esposte non possono che intendersi qui integralmente richiamate.
Altrettanto è a dirsi con riguardo alla corretta configurabilità in capo al ricorrente del ruolo di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE alla luce dell'applicazione dei principi di diritto sopra richiamati.
Non si riscontrano quindi vizi di motivazione o violazioni di legge rilevabili in questa sede in relazione alla affermazione della penale responsabilità dello COGNOME in relazione al reato di cui al capo 12 della rubrica delle imputazioni che riguarda un arco temporale nel quale nel quale l'imputato era comunque "operativo" nell'ambito della società e delle vicende nelle quali la stessa è risultata coinvolta.
Diversa valutazione si impone, invece, in relazione ai fatti di cui al capo 13 della rubrica delle imputazioni.
Come risulta già evidenziato nei motivi di appello e poi ribadito in sede di ricorso innanzi a questa Corte di legittimità, l'imputato, dopo un breve periodo di latitanza (iniziato il 18 novembre 2017) è stato tratto in arresto il 24 gennaio 2018.
Poiché il reato il reato di cui al capo 13 della rubrica delle imputazioni fa riferimento a fatture emesse in un arco temporale che va da 2 gennaio al 26 novembre 2018, la Corte di appello non ha dato risposta alla questione della quale era stata investita con i motivi di gravame e, in particolare, non ha evidenziato, ai fini dell'affermazione della penale responsabilità dell'imputato con riguardo ai fatti di cui al capo 13, da quali elementi è desumibile che l'imputato, nonostante l'intervenuto stato di detenzione, abbia potuto continuare a rivestire il ruolo che gli è stato attribuito o, comunque, a percepire gli utili derivanti dalle attività ill compiute attraverso la predetta società.
Non apparendo ragionevolmente possibili ulteriori approfondimenti al riguardo in una eventuale sede di rinvio del presente processo e non essendovi prova certa che l'imputato abbia concorso nella consumazione del fatto, si impone
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME in relazione al reato contestato al capo 13 della rubrica delle imputazioni con conseguente eliminazione della pena allo stesso irrogata all'esito del giudizio di merito determinata in giorni 40 di reclusione (già tenuto conto della riduzione per il rito abbreviato).
9.11. Non fondato è, altresì, il quarto motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME così come riassunto al superiore par. 2.7.4 nel quale, con riferimento al reato di cui al capo 50 della rubrica delle imputazioni, si deduce l'assenza di prova che il ricorrente abbia rivestito il ruolo di amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE
Deve, innanzitutto, essere evidenziato che, come accertato e motivatamente esposto nelle sentenze di merito, sia l'RAGIONE_SOCIALE (di cui si è detto poc'anzi) che la RAGIONE_SOCIALE sono risultate essere mere società schermo, interposte nelle vendite di prodotti petroliferi al solo fine di consentire che sulla RAGIONE_SOCIALE (ch materialmente procedeva alla vendita rispetto al cliente finale) non gravassero i relativi debiti fiscali, consentendo pertanto l'evasione dell'IVA che non veniva mai riversata all'Erario e veniva portata in detrazione o anche compensata dal cliente finale.
Il G.u.p. ha, poi, anche affermato, sulla base delle conversazioni intercettate, che è emerso che alla cartiera RAGIONE_SOCIALE erano nel tempo subentrate altre cartiere fornite dal COGNOME al COGNOME, tra cui l'RAGIONE_SOCIALE che (sopravvenuto l'arresto di NOME COGNOME) è stata gestita dal COGNOME insieme al COGNOME ed al Mercadante.
La Corte di appello (v. pag. 74 della sentenza impugnata) ha, a sua volta, richiamato il contenuto di una conversazione intercettata in data 5 novembre 2018 (nell'ambito di un incontro al quale ha partecipato anche il Mercadante) all'interno degli uffici di Napoli, INDIRIZZO laddove il Del COGNOME ha accennato al Coppola della disponibilità proprio della RAGIONE_SOCIALE che ha affermato di poter mettergli a disposizione versando una somma (sei o sette mila euro) corrispondente alle spese necessarie per farla ridiventare operativa.
Ritiene l'odierno Collegio che nessun vizio di motivazione sia rilevabile in questa sede in relazione all'affermato concorso del COGNOME nel reato oggetto di contestazione al capo 50 della rubrica delle imputazioni avendo i Giudici di merito adeguatamente illustrato le ragioni a sostegno della relativa ipotesi accusatoria.
9.12. Fondati e meritevoli di trattazione congiunta appaiono i motivi di ricorso formulati nell'interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME (riassunti ai superiori paragrafi 2.7.3 e 2.8.2) in relazione ai fatti di cui al c 85A della rubrica delle imputazioni, nel quale si contesta ai ricorrenti il reato di cu all'art. 5 del d.lgs. n. 74/2000 per avere quali amministratori di fatto della RAGIONE_SOCIALE omesso di presentare la dichiarazione IVA per l'anno 2018 così evadendo la predetta imposta.
Osservano al riguardo i ricorrenti che nelle loro qualità non erano tenuti a compiere i relativi adempimenti fiscali, né risulta che abbiano istigato l'autore materiale della condotta, ossia la legale rappresentante della società NOME COGNOME.
Aggiunge altresì la difesa dell'imputato NOME che il reato de quo è contestato come consumato in data 29 luglio 2019 mentre il ricorrente aveva cessato ogni contatto con la compagine societaria già nel febbraio/marzo 2018.
Osserva, innanzitutto, l'odierno Collegio che, quanto alla corretta attribuzione del ruolo di "amministratori di fatto" del COGNOME e dell'Auriemma nella società RAGIONE_SOCIALE si è già detto in precedenza.
In punto di diritto deve poi essere ricordato che questa Corte di legittimità ha già avuto modo di chiarire che «Del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice» (Sez. 2, n. 8632 del 22/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280723 – 01).
Non v'è però dubbio che il ruolo di "amministratore di fatto" deve essere rivestito nel momento in cui doveva essere presentata la dichiarazione IVA (adempimento non eseguito), come detto il 29 luglio 2019.
Deve previamente ricordarsi che in relazione a tale capo di imputazione è già stata trattata al superiore par. 9.5 la posizione della coimputata NOME COGNOME e che ivi è stato rilevato un vizio di motivazione della sentenza di appello.
La doglianza, che inevitabilmente investe in modo analogo la posizione del coimputato COGNOME era stata posta alla Corte territoriale dall'imputato NOME a pag. 8 dei motivi di appello ma anche in questo caso i Giudici di merito non vi hanno dato risposta.
Quanto detto impone l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al capo 85A della rubrica delle imputazioni, anche nei confronti degli imputati
NOME COGNOME e NOME COGNOME con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per un nuovo giudizio su detto capo.
9.13. Meritevoli di trattazione congiunta appaiono i motivi di ricorso formulati nell'interesse delle imputate NOME COGNOME e NOME COGNOME (sopra rispettivamente riassunti ai paragrafi 2.2.6 e 2.3.5) nei quali in sintesi contestano l'assenza di motivazione in relazione ai reati di cui ai capi 88 e 89 della rubrica delle imputazioni in materia di accise (nel ricorso "COGNOME" anche in relazione al reato di cui al capo 6 in materia di IVA) e la mancata risposta ai relativi motivi di appello dove si era contestata la natura presuntiva di tali violazioni.
Rileva l'odierno Collegio che entrambi i Giudici di merito (v. in particolare pagg. 56 sentenza G.u.p. e pag. 74 e segg. sentenza di appello), in c.d. "doppia conforme" hanno ritenuto comprovata la penale responsabilità delle imputate in ordine ai fatti in contestazione illustrando con motivazioni adeguate e tutt'altro che apparenti, logiche e di certo non contraddittorie gli elementi sui quali hanno fondato le loro convinzioni, in tal modo rispondendo, anche implicitamente, alle contrastanti argomentazioni difensive.
Per contro deve osservarsi che le parti ricorrenti inammissibilmente richiamano l'assenza di approfondimenti relativi a situazioni di merito (è il caso dell'esame dei registri di carico e scarico da rapportare ai D.A.S.) o comunque una diversa lettura del materiale probatorio e degli elementi ivi indicati che non può essere operata in sede di legittimità.
Quanto detto rende manifestamente infondati i motivi di ricorso esaminati nel presente paragrafo.
9.14. Le considerazioni appena esposte valgono anche con riferimento all'asserito erroneo calcolo delle accise evase di cui al motivo di ricorso sopra riassunto al paragrafo 2.3.5 nel quale si rappresenta che le stesse avrebbero dovuto essere calcolate come da una consulenza tecnica in atti secondo calcoli riportati alle pagg. da 41-46 del ricorso stesso, operazione che richiederebbe anche in questo caso una inammissibile rivalutazione nel merito degli elementi probatori.
Manifestamente infondato è il motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputata NOME COGNOME sopra riassunto al paragrafo 2.3.11, nel quale la difesa lamenta l'assenza in atti di molti dei supporti audio e dei brogliacci delle intercettazioni, situazione che asseritannente avrebbe compromesso una lesione del diritto di difesa.
La Corte di appello (v. pag. 34 della relativa sentenza), adeguatamente rispondendo alla doglianza proposta in sede di gravame, ha condivisibilmente evidenziato che nessuna lesione del diritto di difesa è ravvisabile nella situazione indicata in quanto l'assenza degli audio relativi alle intercettazioni, non solo non risulta oggetto di eccezione sollevata in primo grado, ma non inficia il contenuto inequivoco delle conversazioni intercettate, trascritte dalla P.G. ed accettate dagli imputati che hanno chiesto di procedere con le forme del rito abbreviato.
11. Inammissibile per assoluta genericità è, invece, da qualificarsi il ricorso formulato nell'interesse dell'imputato NOME COGNOME nel quale la difesa del ricorrente si è limitata a dedurre l'omessa valutazione di cause di non punibilità ai sensi del citato art. 129 cod. proc. pen.
E' appena il caso di ricordare che l'imputato COGNOME aveva proposto un concordato ex art. 599-bis cod. proc. pen. che non è stato accolto dalla Corte di appello, con la conseguenza che si è proceduto nei confronti dello stesso con le modalità del rito ordinario e la Corte territoriale, in conformità a quanto aveva fatto il Giudice di primo grado, risulta avere effettuato una completa valutazione nel merito della posizione dell'imputato e di tutti gli elementi probatori emersi a carico dello stesso.
Il ricorso è, pertanto, inammissibile per violazione dell'art. 591, lett. c), relazione all'art. 581 lett. c), cod. proc. pen., perché le doglianze sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell'atto di impugnazione, s palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici.
12. Trattamenti sanzionatori.
Deve, innanzitutto, premettersi che le questioni riguardanti la determinazione finale del quantum relativo ai trattamenti sanzionatori nei confronti degli imputati chiamati a rispondere dei reati aggravati ex art. 416-bis.1 cod. pen. sono da ritenersi ancora sub iudice a seguito del disponendo annullamento con rinvio sul punto della sentenza impugnata.
Ciò, tuttavia, non preclude la possibilità per questa Corte di legittimità di rispondere alle ulteriori questioni connesse alla determinazione del trattamento sanzionatorio riservato agli imputati.
12.1. Non fondati sono, innanzitutto, i motivi di ricorso formulati nell'interesse degli imputati COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME (sopra rispettivamente riassunti ai paragrafi 2.2.7, 2.7.5, 2.9.5 e 2.10.4) nei quali gli imputati contestan
l'omessa motivazione relativa agli aumenti di pena riguardanti i reati-satellite a ciascuno di essi contestati e ritenuti in continuazione con la violazione più grave sempre come rispettivamente contestata.
Deve, preliminarmente, evidenziarsi la sostanziale genericità dei predetti motivi di ricorso in quanto le difese dei ricorrenti si sono limitate a sostenere l mancanza di motivazione in relazione agli aumenti di pena per i reati-satellite ma non hanno indicato alcun profilo dal quale potersi desumere l'interesse a coltivare tale doglianza.
E' infatti, un principio consolidato richiamato e fatto proprio anche dalle Sezioni Unite "COGNOME" di questa Corte (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Rv. 282269 – 01) quello secondo il quale «In tema di determinazione della pena, è ammissibile il ricorso per cassazione contro la sentenza che non abbia specificato il "quantum" dei singoli aumenti inflitti a titolo di continuazione in relazione ciascun reato satellite, a condizione che venga dedotto un interesse concreto ed attuale a sostegno della doglianza» (Sez. 2, n. 26011 del 11/04/2019, PG C/COGNOME, Rv. 276117 – 01).
Nel caso in esame le difese dei ricorrenti non risultano avere indicato alcun concreto elemento a sostegno del fatto che l'aumento della pena operato per la ritenuta continuazione tra il reato per ciascuno di essi ritenuto più grave e quelli per i reati-satellite ritenuti in continuazione sono incongrui o comunque sproporzionati rispetto alla complessiva valutazione dei fatti per i quali è intervenuta condanna od in relazione alla personalità degli imputati ed agli altri criteri di cui all'art. 133 cod. pen.
Nel caso in esame la Corte di appello (v. pag. 80 e seguenti della sentenza impugnata), anche facendo proprie le valutazioni operate dal Giudice di primo grado, ha diversificato gli aumenti a seconda della tipologia di reati, stabilendo aumenti indubbiamente minimi (mesi 2 di reclusione per ciascuno dei reati tributari ancorché diversi ma caratterizzati da serialità e mesi 4 di reclusione per il reato di autoriciclaggio) o comunque prossimi al minimo edittale per il reato associativo (laddove contestato ed in relazione ai differenti ruoli ricoperti).
A ciò si aggiunge che, nel caso in esame, ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio per tutti i reati in contestazione la Corte di appello ha fatto espresso richiamo ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., stabilendo caso per caso la pena per il reato più grave ed ha, infine, operato aumenti di pena ex art. 81, comma 2, cod. pen. per i reati-satellite non di certo sproporzionati o in contrasto con le motivazioni generali adottate in sentenza.
D'altro canto nella citata decisione delle Sezioni Unite "COGNOME" non si è certo sostenuto che sol perché difetti una motivazione relativa all'aumento di pena per
un solo reato ritenuto in continuazione ciò comporta una nullità sul punto della sentenza impugnata, quanto, piuttosto, si è osservato che l'astratto rigore che assiste la decisione del Giudici di merito nell'operazione di calcolo dei vari aumenti, deve essere di volta in volta calato nel caso concreto, visto che il grado di impegno nel motivare richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all'entità degli stessi e deve essere funzionale sia alla verifica del rispetto del rapporto di proporzione esistente tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, c particolare riferimento ai limiti previsti dall'art. 81 cod. pen., sia ad evitare non si sia stato operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene.
In sostanza, la sentenza "COGNOME" citata, pur rilevando come il peso in concreto assegnato dal giudice a ciascun reato satellite concorre a determinare un razionale trattamento sanzionatorio con la conseguente necessità che siano palesati gli elementi che hanno condotto al risultano cui si è pervenuti, ha tuttavia precisato che l'obbligo della motivazione non può essere astrattamente circoscritto secondo canoni predeterminati, non potendosi ritenere che il vizio renda nulla la decisione sul punto allorché la pena irrogata sia stata determinata in prossimità del minimo piuttosto che al massimo edittale (principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui il mero richiamo ai "criteri di cui all'a 133 cod. pen." deve ritenersi motivazione adeguata per dimostrare l'intervenuta ponderazione della pena rispetto all'entità del fatto. Una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena da irrogare è, pertanto, necessaria allorché la determinazione avvenga in misura prossima al massimo edittale" (in proposito, v. Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 258356).
Gli stessi principi governano la determinazione della pena e la relativa motivazione in ordine ai reati in continuazione, dovendosi ritenere (evenienza rilevante per i motivi di ricorso sottoposti a scrutinio) che la pena determinata per i reati in continuazione esclude l'abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 cod. pen. e depone per una ponderata valutazione degli elementi posti a base della decisione in ordine al trattamento sanzionatorio.
Tali principi sono stati ribaditi da questa Corte di legittimità anche in epoca successiva alla sentenza "COGNOME" allorquando si è affermato che «In tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l'incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 cod. pen.» (Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, COGNOME, Rv. 284005 – 01).
12.2. Meritevoli di trattazione congiunta sono poi gli ulteriori motivi di ricorso inerenti alle circostanze dei reati formulati negli interessi degli imputati:
NOME COGNOME e NOME COGNOME (v. rispettivamente superiori paragrafi 2.2.8 e 2.9.6) nei quali si contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;
NOME COGNOME (v. superiori paragrafi 2.3.4 – 2.3.8 e 2.3.9) nei quali si contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche senza che si sia tenuto conto della collaborazione fornita dall'imputata su altri fatti;
NOME COGNOME (v. superiore paragrafo 2.4.4) nel quale si contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche senza che si sia tenuto conto del ruolo marginale rivestito, di incensuratezza e della giovane età dell'imputata;
NOME COGNOME e NOME COGNOME (v. rispettivamente superiori paragrafi 2.5.6 e 2.7.5) nei quali si contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;
NOME COGNOME e NOME COGNOME (v. rispettivamente superiori paragrafi 2.8.3 e 2.10.4) nei quali si contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche senza che si sia tenuto conto del modesto arco temporale dell'agito degli imputati e dello scarso utile dagli stessi percepito a seguito della commissione dei reati per i quali è intervenuta condanna.
Rileva l'odierno Collegio la manifesta infondatezza di tutti i motivi di ricorso qui in esame.
Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (v. pagg. 78-79 della sentenza impugnata) la Corte di appello ha rimarcato la gravità dei fatti contestati – già messi in evidenza dal primo Giudice – con riguardo ad atti che hanno comportato evasione di imposta per centinaia di milioni di euro e vendita di carburante sottocosto a distributori attraverso abili e sofisticati sistem fraudolenti di interposizione di soggetti a monte e a valle della M.P. Ha altresì segnalato la personalità di alcuni degli imputati che presentano precedenti penali (in particolare COGNOME e COGNOME nonché la stessa NOME COGNOME quest'ultima gravata da un solo precedente penale) in quanto tutti costoro hanno continuativamente operato per aggirare i controlli dello Stato perseverando nell'attività fraudolenta anche in costanza di indagini, così dimostrando una spiccata indole per il crimine tributario, mancanza di resipiscenza ed una assoluta refrattarietà verso le regole che disciplinano le attività economiche.
Non v'è chi non veda che ci si trova in presenza di una motivazione assolutamente congrua ed idonea ad illustrare la decisione alla quale è pervenuta la Corte territoriale.
Sul punto è, poi, appena il caso di ricordare che secondo i principi di questa Corte – condivisi dal Collegio – ai fini dell'assolvimento dell'obbligo dell motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo e che è quindi sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
Non si ritiene che le già adottate valutazioni dei giudici di merito in punto di mancato riconoscimento agli imputati delle circostanze attenuanti generiche possano essere oggetto di differente valutazione all'esito del giudizio di rinvio in quanto l'eventuale riconoscimento della ricorrenza anche della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1 cod. pen. non potrebbe che consolidare dette negative valutazioni.
12.3. La valutazione di manifesta infondatezza investe, altresì, il motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputato COGNOME (v. sup. paragrafo 2.10.5) nel quale la difesa dello stesso ha dedotto la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della contestata circostanza aggravante della recidiva.
Infatti, contrariamente, a quanto sostenuto dalla difesa dell'imputato, la Corte di appello (v. pag. 79 della sentenza impugnata) ha prodotto sul punto una motivazione adeguata e rispondente ai principi di diritto che governano la materia ritenendo di dover apprezzare «l'idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggiore capacità a delinquere dell'imputato, in considerazione dei precedenti penali a suo carico …» ed aggiungendo ulteriormente che «I fatti qui giudicati si rivelano sintomatici di una accresciuta pericolosità sociale dell'imputato e di un atteggiamento di indifferenza verso la legge penale e di insensibilità rispetto alla minaccia della sanzione penale ed all'effetto dissuasivo delle pene precedentemente inflitte, considerata la gravità dei fatti per cui ha subito condanne (associazione di tipo mafioso) e la gravità e la perseveranza dei fatti per cui si procede. Tanto denota l'indifferenza del soggetto ad una revisione del vissuto criminale e la sua maggiore pericolosità perseverando nel mondo del crimine tributario, considerata la sua precedente condanna per fattispecie associativa di tipo mafioso finalizzata a condotte fraudolente».
13. Quantificazione dell'imposta evasa e confisca.
La difese dell'imputata NOME COGNOME con il motivo di ricorso riassunto al superiore paragrafo 2.2.4, ha contestato genericamente l'erronea quantificazione dell'imposta evasa ma non l'incidenza della stessa in ordine alla confisca il che rende inammissibile il relativo motivo di ricorso non essendo stato esplicitato l'interesse ad ottenere una riforma sul punto della sentenza impugnata.
Diversa è, invece, la valutazione della articolata doglianza formulata dalla difesa dell'imputata NOME COGNOME con il motivo di ricorso riassunto al superiore paragrafo 2.3.10, nel quale, sempre in relazione alla quantificazione dell'imposta evasa si è contestata la determinazione relativa alla disposta confisca nei suoi confronti.
Il G.u.p. (v. pag. 151 e seguenti della relativa sentenza), in applicazione dei disposti degli artt. 240 cod. pen. e 12-bis del d.lgs. n. 74/2000, aveva stabilito i quantum della confisca riportando al riguardo una tabella nella quale sono state indicate le imposte evase per società e per annualità così a giungere alla determinazione della somma complessiva di euro 185.622.248,79.
In estrema sintesi, secondo le difese della ricorrente COGNOME, la considerazione unitaria del meccanismo fraudolento ipotizzato imponeva di limitare ad uno solo il soggetto passivo di IVA individuato nell'ambito di ciascuna operazione, con conseguente unica determinazione della imposta evasa. Per contro la ricostruzione accusatoria ascrivendo agli imputati sia l'omesso versamento dell'IVA esposta nelle fatture emesse dalle società cartiere, sia il mancato versamento della stessa IVA da parte della M.P. rispetto alla fornitura originaria del medesimo prodotto (capi 5 e 8) avrebbe duplicato l'importo di imposta asseritamente evasa.
Ne deriva che sarebbe stata effettuata un'erronea duplicazione del medesimo dato numerico e dunque anche sotto il profilo quantitativo la sentenza avrebbe recepito elementi che si pongono in contrasto con le risultanze tecniche acquisite agli atti, dovendosi senz'altro evidenziare come l'indetraibilità dell'imposta non sia in alcun modo un argomento connesso con la duplicazione ai fini della confisca dell'imposta evasa, ciò perché le società cartiere, come evidenziato nella sentenza impugnata, non esistevano e, pertanto, non hanno in alcun modo detratto l'imposta in oggetto e pertanto non si può in alcun modo parlare di un duplice vantaggio che possa giustificare la duplicazione del sequestro e della conseguente confisca.
Ha, infine, ulteriormente osservato la difesa dell'imputata COGNOME che, sulla base di quanto evidenziato nella consulenza di parte del dr. COGNOME, emerge un'erronea quantificazione dell'imposta asseritamente evasa (per le modalità di calcolo v. pagg. da 85 a 91 del ricorso).
Ritiene l'odierno Collegio che il motivo di ricorso formulato dalla difesa dell'imputata COGNOME e qui in esame sia fondato sotto il profilo della carenza di motivazione della sentenza impugnata.
La Corte di appello (v. pag. 83 e seguenti della sentenza impugnata), occupandosi delle questioni relative alla determinazione della imposta evasa con conseguenti effetti sulla determinazione del quantum della confisca, dopo avere richiamato le norme di riferimento ed i principi di diritto in materia individuazione dei destinatari e delle modalità di esecuzione della confisca ha affrontato (pag. 86 e segg.) il rilievo critico della duplicazione dell'evasione IV richiamando pronunce di questa Corte di legittimità e della Corte di Giustizia, la quale ultima ha chiarito che:
vi è obbligo, ai sensi dell'art. 203 della Direttiva in materia, per chiunque indichi VIVA in una fattura di assolvere tale imposta;
VIVA indicata in una fattura è dovuta dall'emittente di tale fattura anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale;
è l'emittente di una fattura a essere debitore dell'IVA in essa indicata, mentre l'indetraibilità dell'IVA relativa a operazioni inesistenti è opponibile a destinatario della fattura.
Alla luce dei predetti richiami giurisprudenziali la Corte territoriale ha, po affermato che non contrasta con il diritto comunitario una normativa nazionale che prevede l'indetraibilità dell'IVA, pure assolta dell'emittente in presenza di fatture per operazioni inesistenti, poi aggiungendo che «solo se non c'è la frode fiscale è possibile la rettifica e quindi la detraibilità dell'IVA per l'utilizzatore, la l'emittente abbia in tempo utile versato VIVA con la conseguenza che il beneficio della riduzione della confisca è invocabile e riconoscibile solo al soggetto che ha formalmente adempiuto, non anche all'ulteriore soggetto coinvolto nella frode».
In realtà, così decidendo, la Corte territoriale non ha risposto alle diverse questioni che le erano stata sottoposte in sede di gravame (v. pag. 153-162 dell'atto di appello nell'interesse dell'imputata NOME COGNOME) e che sono state riproposte integralmente in questa sede nelle quali, attraverso plurimi richiami al contenuto della consulenza di parte a firma del dr. COGNOME, si era evidenziato che:
pure immaginando corretta la ricostruzione in chiave accusatoria dei fatti di cui è processo, vi sarebbe stata comunque una duplicazione del profitto illecito in quanto, ritenendo che le reali operazioni di compravendita si svolgevano solo tra la M.P. ed i clienti finali e che le vendite fittizie non imponibili IVA erano sta invece nei confronti di società prive dei requisiti di esportatrici abituali sarebb comunque evidente la duplicazione dell'evasione IVA contestata in quanto se si
considera meramente cartolare l'interposizione delle società cartiere, allora il reale soggetto passivo IVA è la M.P., altrimenti se si considera reale la compravendita tra le società identificate come cartiere ed i clienti finali allora VIVA doveva essere versata dalle cartiere, ma non possono esservi due soggetti passivi IVA nell'ambito della stessa operazione di compravendita;
b) la M.P. era solo uno dei fornitori cui le società cartiere facevano riferimento, di talché il prodotto rivenduto ai destinatari finali e complessivamente utilizzato dagli agenti operanti come base imponibile per la determinazione dell'imposta evasa, derivava solo in parte da forniture provenienti dalla M.P.; in sostanza l'asserito errore nei conteggi dell'imposta evasa risiederebbe nel fatto che sono state considerate fittizie tutte le operazioni di compravendita di gasolio poste in essere tra le società cartiere ed i clienti finali ma non è stato accertato che quantitativi di gasolio ceduto fossero stati tutti immessi in consumo dalla M.P. Ciò, sempre secondo la consulenza di parte, in quanto dall'esame della documentazione contabile si evincerebbe che con riferimento all'anno 2017 la M.P. non ha effettuato alcuna vendita di carburante in favore della RAGIONE_SOCIALE, della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE con la conseguenza che attraverso tali società non può essere stata celata la vendita di prodotto della RAGIONE_SOCIALE in favore dei clienti finali.
Quanto esposto dalla difesa della ricorrente è legato ad accertamenti di fatto legati ad analisi documentali che certamente non possono essere operate in sede di legittimità e che rappresentano l'imprescindibile presupposto per le successive valutazioni in diritto delle vicende.
Per tali ragioni si impone l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti dell'imputata NOME COGNOME limitatamente alla disposta confisca con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per nuovo giudizio sul punto.
Il rigetto integrale per infondatezza dei ricorsi degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME comporta la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali e la definitività dell'accertamento di responsabilità degli stessi in ordine alle condotte loro ascritte.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazion della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
15. Ai sensi dell'art. 624, comma 2, cod. proc. pen. deve altresì dichiararsi l'irrevocabilità della affermazione della penale responsabilità dell'imputata NOME
COGNOME in relazione a tutti i reati alla stessa contestati, nonché degli imputat
NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME Ferdinando in relazione ai reati per i quali è intervenuta l'affermazione della penale responsabilità degli stessi,
fatta eccezione per quello di cui al capo 85A.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente al reato di cui al capo 13) per non avere commesso il fatto ed elimina
la relativa pena pari a giorni 40 di reclusione.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME
NOME e NOME limitatamente al reato di cui al capo 85A) con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma per nuovo giudizio su detto
capo.
Rigetta nel resto i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME e dichiara irrevocabile nel resto il giudizio di responsabilità.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla confisca con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma per nuovo giudizio sul punto.
Rigetta nel resto il ricorso della COGNOME e dichiara definitivo il giudizio responsabilità.
In accoglimento del ricorso del Procuratore generale annulla la sentenza impugnata limitatamente all'aggravante dell'agevolazione mafiosa con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma per nuovo giudizio su detto punto.
Rigetta i ricorsi di COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il giorno 11 dicembre 2024.