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Affidamento in prova: valutazione completa è d’obbligo

La Corte di Cassazione ha annullato la decisione di un Tribunale di Sorveglianza che negava l’affidamento in prova a un condannato. Il diniego si basava su una presunta assenza di domicilio e di prospettive lavorative. La Suprema Corte ha ritenuto la decisione illogica, poiché il Tribunale aveva ignorato prove concrete come un contratto di affitto e una relazione positiva dei servizi sociali, che attestavano un effettivo percorso di reinserimento. Questa sentenza ribadisce che la valutazione per l’affidamento in prova deve essere approfondita e basata su tutti gli elementi attuali della vita del condannato, non solo sulla gravità del reato commesso in passato.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Affidamento in Prova: La Cassazione Sottolinea l’Importanza di una Valutazione Completa

La concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale rappresenta un momento cruciale nel percorso di esecuzione della pena, mirando al reinserimento del condannato nella società. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 28032/2024) ha riaffermato un principio fondamentale: la decisione del Tribunale di Sorveglianza deve basarsi su una valutazione completa e non parziale, analizzando tutti gli elementi a disposizione e non ignorando prove concrete che dimostrino un percorso di risocializzazione già avviato.

I Fatti del Caso: un Diniego Basato su Presupposti Errati

Il caso riguarda un uomo condannato a scontare una pena residua di oltre due anni per un reato commesso in Romania e riconosciuto in Italia. L’uomo aveva presentato istanza di affidamento in prova al servizio sociale, ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma l’aveva respinta.

Le motivazioni del diniego si fondavano su due elementi principali:
1. La mancanza di un’attività lavorativa stabile o di altre prospettive concrete di risocializzazione.
2. L’assenza di un domicilio certo, poiché, secondo il Tribunale, il condannato non era stato reperito all’indirizzo indicato nell’istanza.

Contro questa decisione, il difensore dell’uomo ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che la valutazione del Tribunale fosse viziata da un’errata interpretazione dei fatti e degli atti processuali.

L’Ordinanza Impugnata e i Principi sull’Affidamento in Prova

Il ricorrente ha evidenziato come la decisione del Tribunale fosse in netto contrasto con le evidenze documentali. In particolare, la relazione dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) non solo era completa, ma forniva un quadro positivo del soggetto, menzionando la sua disponibilità a intraprendere un’attività di volontariato.

Inoltre, l’argomento del domicilio incerto è stato smontato dalla difesa, che ha dimostrato come l’uomo non solo vivesse stabilmente all’indirizzo indicato, ma lo facesse in forza di un regolare contratto di locazione registrato e lì avesse sempre ricevuto le notifiche e le visite dei funzionari preposti.

La Finalità della Misura Alternativa

La Corte di Cassazione, prima di entrare nel merito, ha ricordato la finalità dell’affidamento in prova: attuare una forma di esecuzione della pena esterna al carcere per quei condannati per i quali sia possibile formulare una prognosi favorevole di completo reinserimento sociale. Per questo giudizio prognostico, non si può guardare solo alla gravità del reato o ai precedenti penali, ma è essenziale analizzare la condotta attuale e i progressi compiuti dal condannato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, definendo l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza “manifestamente illogica e carente”. I giudici di legittimità hanno riscontrato una lettura distorta delle emergenze processuali, che non trovava conferma negli atti.

In primo luogo, è stata accertata l’esistenza di un domicilio effettivo, comprovata dal contratto di affitto e dai contatti regolari con l’UEPE proprio a quell’indirizzo.

In secondo luogo, e in modo ancora più incisivo, la Cassazione ha smontato l’affermazione sull’assenza di prospettive lavorative e risocializzanti. La relazione dell’UEPE, datata pochi giorni prima della decisione del Tribunale, dipingeva un quadro completamente diverso, evidenziando elementi positivi che non erano stati adeguatamente valutati:

* Attività lavorativa: Il condannato, in Italia dal 2016, aveva sempre lavorato nel settore edile e attualmente collaborava con una ditta, come documentato.
* Volontariato: Aveva espresso la disponibilità a svolgere attività di volontariato per diverse ore a settimana.
* Atteggiamento collaborativo: Durante gli incontri con l’UEPE, aveva mantenuto un atteggiamento puntuale e collaborativo, assumendo una posizione critica verso le sue scelte passate.

La relazione concludeva che “il suo percorso risocializzante sembra essere oggi lontano da un comportamento e atteggiamento deviante”. Ignorare questi elementi, secondo la Corte, ha reso la decisione del Tribunale viziata e priva di un solido fondamento logico e probatorio.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

La sentenza in commento si pone come un importante monito per i Tribunali di Sorveglianza. La valutazione per la concessione di una misura alternativa come l’affidamento in prova non può essere superficiale o basata su presunzioni non supportate dai fatti. È necessario un esame approfondito di tutti gli elementi a disposizione, in particolare delle relazioni dei servizi sociali, che forniscono un quadro aggiornato e dettagliato della personalità e del percorso del condannato. Respingere un’istanza ignorando prove documentali e le conclusioni positive degli operatori specializzati costituisce un vizio di motivazione che porta all’annullamento del provvedimento. La decisione finale spetterà ora nuovamente al Tribunale di Sorveglianza di Roma, che dovrà riesaminare il caso tenendo conto dei principi espressi dalla Cassazione, per un giudizio scevro dai vizi riscontrati.

È sufficiente la mancanza di un lavoro stabile per negare l’affidamento in prova?
No, la sentenza chiarisce che la valutazione deve essere complessiva. Il giudice deve considerare tutti gli elementi, come le collaborazioni lavorative in essere (anche se non contrattualizzate a tempo indeterminato) e la disponibilità a svolgere attività di volontariato, quali indicatori di un percorso di reinserimento.

Come può un condannato dimostrare di avere un domicilio stabile?
Attraverso prove concrete che il giudice non può ignorare. La sentenza indica come decisivi un contratto di locazione regolarmente registrato e il fatto di ricevere costantemente le notificazioni e le visite dei servizi sociali a quell’indirizzo.

Può il Tribunale di Sorveglianza ignorare una relazione positiva dei servizi sociali (UEPE)?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che ignorare o travisare gli elementi positivi contenuti nella relazione dell’UEPE, che attestano un percorso di risocializzazione, rende la decisione del giudice manifestamente illogica e carente di motivazione, giustificandone l’annullamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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