Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 3333 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 3333 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nata a GENOVA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 08/02/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di GENOVA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe, emesso in data 8 febbraio 2023, il Tribunale di sorveglianza di Genova ha dichiarato inammissibile l’istanza proposta da NOME COGNOME di ammissione alla detenzione domiciliare, ha rigettato quella di affidamento in prova al servizio sociale e ha accolto la residua istanza di ammissione della condannata alla semilibertà, in relazione alla pena detentiva da espiare di anni due, mesi otto di reclusione a lei inflitta per il delitto di omic colposo stradale con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova del 4 maggio 2021, irrevocabile il 15 dicembre 2021.
Il Tribunale ha essenzialmente rilevato che la pena in espiazione afferiva a reato che aveva determinato la morte della persona offesa, dopo oltre quaranta giorni dal fatto lesivo, causato. dalla condotta negligente di NOME COGNOME, condotta da lei serbata sotto l’effetto dell’alcool e della cannabis; stato in relazione al quale, esaminato il percorso compiuto dalla condannata, ha ritenuto l’inammissibilità della concessione della detenzione domiciliare generica, per essere la pena in espiazione ancora eccedente la misura di anni due, ha rigettato l’istanza di affidamento prova al servizio sociale, misura considerata troppo ampia rispetto allo stadio del suddetto percorso, e ha, invece, reputato congruo ammettere COGNOME alla semilibertà, in quanto, posta la sussistenza di una valida attività lavorativa e di adeguati riferimenti domiciliari e affettivi, tale misura profilata idonea a favorire il percorso di graduale risocializzazione della condannata e a prevenire l’ancora persistente pericolo di recidiva.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore di COGNOME chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a due motivi.
2.1. Con il primo motivo si lamentano la violazione dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.) e la manifesta illogicità della motivazione, in relazione al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale.
La difesa sostiene che il Tribunale ha compiuto una valutazione erronea, giacché sussiste, nel caso in esame, ogni presupposto per la concessione della misura, con particolare riferimento alla funzionalità dell’affidamento in prova rispetto alla prevenzione del pericolo di ricaduta nel reato.
In questa prospettiva si fa carico ai giudici di sorveglianza di non aver tenuto nel debito conto, quando hanno affermato che la condannata non aveva avviato il processo di revisione critica, i dati obiettivi restituiti dalle relazion atti: in particolare, l’UEPE aveva chiarito che COGNOME si sentiva in colpa per quanto era accaduto e non aveva espresso concetti tali da autorizzare a ritenere la
medesima sfuggente e reticente a ritornare sull’evento che aveva determinato la condanna, essendosi la relazione limitata a segnalare che ella non voleva approfondire la questione: atteggiamento ascrivibile a molteplici stati emotivi, anche non inerenti all’assenza di resipiscenza, anche perché l’UEPE aveva ricollegato la reticenza della donna ad approfondire l’argomento al fatto che ciò le provocava uno stato di ansia.
Inoltre, secondo l’impostazione difensiva, il rifiuto di ammettere la responsabilità in ordine al fatto del 2002 avrebbe dovuto considerarsi irrilevante, in quanto tale fatto era estraneo all’attuale procedimento di sorveglianza.
Di conseguenza, la ricorrente ritiene eccentrica la conclusione raggiunta dal Tribunale di sorveglianza che, in modo illogico, non ha considerato che sarebbe piuttosto spettato all’esercizio del suo potere-dovere governare l’attuazione dell’affidamento con le prescrizioni da imporre ai sensi dell’art. 47, comma 5, Ord. pen.
2.2. Con il secondo motivo si prospetta la violazione dell’art. 47 -ter Ord. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla declaratoria di inammissibilit dell’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare, in particolare per non aver sollevato la questione di legittimità costituzionale della suddetta norma, in relazione agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., a seguito della novella introdotta dal d.lgs. n. 149 (recte 150) del 2022.
La ricorrente sostiene che il limite massimo di due anni di pena detentiva per l’ammissione alla detenzione domiciliare generica, di cui all’art. 47 -ter, comma 1 -bis, Ord. pen., si pone in manifesto contrasto con i principi costituzionali dell’uguaglianza e della ragionevolezza, in quanto, con l’introduzione della succitata riforma, è ora prevista la detenzione domiciliare quale pena sostitutiva della detenzione, con una soglia attestata alla più cospicua misura di anni quattro, come conferma l’attuale testo dell’art. 20 -bis cod. pen.
Al di là della diversa natura giuridica, fra i due istituti – evidenzia la dife sussistono diversi profili di contiguità, tali da legittimare il raffronto rispettive discipline: entrambe le detenzioni domiciliari rappresentano un’alternativa alla detenzione inframuraria; anche la detenzione domiciliare sostitutiva viene applicata previo l’intervento, anche in fase di cognizione, dell’UEPE; la relazione alla legge delega 27 settembre 2021, n. 134, aveva evidenziato che la detenzione domiciliare sostitutiva era concepita, al pari delle altre pene sostitutive, come una sorta di anticipazione alla fase decisoria della corrispondente misura alternativa alla detenzione carceraria; per regolare la detenzione domiciliare sostitutiva è richiamato anche l’art. 100 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, ossia la norma del regolamento sull’ordinamento penitenziario chiamata a regolare l’attuazione della misura alternativa della detenzio
domiciliare.
Stanti tali comuni caratteri, è divenuto, per la difesa, irragionevole e contrario al principio di uguaglianza sottoporre la detenzione domiciliare, quale misura alternativa, a condizioni tanto più stringenti.
Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, dal momento che il primo motivo risulta versato in fatto e il secondo motivo propone una questione di legittimità costituzionale, peraltro nemmeno sollevata innanzi al Tribunale di sorveglianza, manifestamente infondata, data la diversità di natura e di modalità applicative dei due istituti posti a confronto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La Corte ritiene che l’impugnazione sia, con riguardo a entrambe le doglianze, priva di fondamento giuridico, per cui essa va rigettata.
Integrando le notazioni esposte in parte narrativa, è opportuno aggiungere che il Tribunale di sorveglianza, a ragione del provvedimento, ha anche osservato che a carico della condannata risultava un precedente specifico commesso nel 2002, mentre, per il resto, non emergevano pendenze. È stato considerato che ella conviveva con un compagno e lavorava per RAGIONE_SOCIALE, così come si è valutato che l’UEPE di RAGIONE_SOCIALE Emilia aveva dettagliato sulla genesi delle assunzioni di alcool e cannabis da parte della condannata, aveva analizzato le indicazioni ricevute dalla medesima e si era espresso nel senso che sussistevano gli estremi per l’accesso di COGNOME a una misura alternativa, così come ha tenuto conto del fatto che il precedente specifico, in relazione alla cui vicenda la condannata negava la responsabilità, era stato ugualmente determinato da sua colpa nella circolazione stradale e pure aveva causato la morte della persona offesa.
Su tale base, i giudici di sorveglianza, muovendo dalla gravità del nuovo delitto commesso da COGNOME, hanno considerato che – dovendo mirare il processo di rieducazione a rendere la condannata consapevole di tale gravità, in modo ella che cessasse l’uso di droghe e l’abuso di alcool, così comprendendo le conseguenze irreversibili del suo agito, e rielaborasse quanto era accaduto per evitare la ripetizione di analoghe condotte – costei, in effetti, alla stregua de complesso di elementi acquisiti, non aveva neppure avviato il procedimento di revisione critica, presupposto necessario per l’accesso alla più ampia misura alternativa: ella, infatti, era risultata sfuggente e reticente, non sufficientement empatica e aveva addirittura negato l’addebito in ordine al fattol )del 2002, per cui
l’affidamento in prova al servizio sociale sarebbe stato per lei non adeguatamente contenitivo ed eccessivamente premiale, sicché, mancando la condizione di ammissibilità per l’accesso alla detenzione domiciliare, si è ammessa COGNOME alla semilibertà, misura adeguata, nel sensi già chiariti, per agevolare, in sicurezza, la progressiva risocializzazione della condannata.
In riferimento alla disamina del primo motivo, con cui si è censurato il diniego della misura dell’affidamento in prova, risulta chiaro dall’esame delle considerazioni svolte dal Tribunale specializzato che la decisione è stata assunta dopo l’acquisizione di tutti gli elementi rilevanti.
3.1. In ordine alle condizioni di ammissione alla più ampia misura alternativa, si deve muovere dal consolidato principio secondo cui, con particolare riguardo alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, non si può certo prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, ma deve reputarsi necessaria anche la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l’esame dei comportamenti attuali del medesimo, in relazione all’esigenza di accertare – non soltanto l’assenza di indicazioni negative, bensì – anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva (Sez. 1, n. 4390 del 20/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278174 – 01; Sez. 1, n. 31420 del 05/05/2015, COGNOME, Rv. 264602 – 01).
Si è, pertanto, ritenuto che, al fine della valutazione complessiva dei dati rilevanti, non possano assumere ex se decisivo rilievo in senso negativo elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza e nemmeno può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo invece sufficiente che dai risultati dell’osservazione della personalità emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 277924 – 01; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, 2014, Naretto, Rv. 258402 – 01).
Va, infine, considerato che, allorché il soggetto che chiede l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale si trovi in stato di libertà, pr dell’inizio dell’espiazione della pena, è necessario procedere alla considerazione della condotta mantenuta in stato di libertà, dopo la condanna, al fine di stabilire la prognosi favorevole o meno circa l’astensione da parte del soggetto dal compimento in futuro di nuove azioni criminose. In tale prospettiva, il tribunale di sorveglianza è legittimato ad acquisire informazioni da qualasi fonte, e quindi
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anche dagli organi di polizia, informazioni valutabili all’unica condizione che le medesime non si limitino ad argomentazioni del tutto generiche, ma riferiscano circostanze specifiche, sicché la valutazione del giudice abbia precisi elementi di fatto da esaminare (Sez. 1, n. 5223 del 28/09/1999, NOME, Rv. 214431 – 01), per modo che, in tale evenienza, il tribunale di sorveglianza non ha l’obbligo di effettuare accertamenti ulteriori sulla personalità del soggetto richiedente, qualora le risultanze documentali rivelino l’inidoneità della misura richiesta (Sez. 1, n. 26232 del 07/07/2020, COGNOME, Rv. 279581 – 01, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto infondata la doglianza del ricorrente che lamentava l’omessa acquisizione da parte del tribunale di sorveglianza della relazione degli operatori del servizio sociale).
3.2. Questi principi sono stati osservati dal Tribunale, il quale ha evidenziato gli elementi concreti in base ai quali NOME COGNOME è stata ritenuta persona che, dopo la commissione del nuovo reato, si profila ancora bloccata in una condizione che non dimostra essere stato innescato da parte sua quanto meno l’avvio del processo di revisione critica necessario per perseguire la sua effettiva risocializzazione.
I giudici di sorveglianza hanno fornito una motivazione non priva di accenti severi, ma in ogni caso congrua e non illogica, lì dove hanno evidenziato che COGNOME si è mostrata, allo stato, carente nello stesso avvio del percorso di revisione critica rispetto al secondo reato che ha prodotto effetti mortali per la vittima; nel medesimo senso, la sua affermazione di assenza di responsabilità relativamente al primo e risalente episodio antigiuridico è stata valutata in senso negativo, non per la, intangibile anche quando postuma, protesta di innocenza rispetto alla commissione del reato, ma per l’emersione, anche in merito a quel fatto, del contegno reticente della condannata a progettare la sua risocializzazione rielaborando, con la debita rimeditazione critica, i tratti del su vissuto problematico alla base degli eventi, ossia l’uso di droga e l’abuso di alcool.
Le considerazioni svolte dal Tribunale risultano contestate dalla ricorrente in modo sostanzialmente rivalutativo, mentre la constatazione fatta dai giudici del merito in ordine alla carenza dell’effettivo avvio del percorso di revisione critica da parte della condannata si profila adeguatamente giustificata sulla base delle notazioni svolte nella relazione osservativa della psicologa esperta, ex art. 80 Ord. pen., che ha confermato la persistente reticenza della condannata a rievocare la sua condotta antigiuridica ultima, al di là delle pulsioni che hanno generato tale comportamento, così come ha ribadito l’assunzione di una ancora maggiore chiusura di NOME COGNOME a rielaborare il primo episodio delittuoso, con riguardo al quale la ritrosia ad approfondire l’argomento è stata giustificata con
l’affermazione di assenza di sua responsabilità, che ella ha ora addotto – non è dato conoscere su quale base di fatto – essersi assunta per proteggere altra persona.
La reiterazione del medesimo fatto delittuoso e la sostanziale assenza dell’avvio del corrispondente percorso di revisione hanno integrato gli elementi costituenti, secondo la motivata e, dunque, incensurabile valutazione di merito, la spia dell’inidoneità del grado di rielaborazione da parte della condannata del suo comportamento pregresso, inidoneità che è risultata preclusiva della sua attuale ammissione alla misura alternativa più ampia.
Tale conclusione, essendo supportata da un tessuto argomentativo adeguato e coerente, non può essere infirmata, come invece propone la ricorrente, dalle considerazioni contenute nella relazione dell’UEPE (più precisamente UDEPE) del RAGIONE_SOCIALE nell’Emilia, che, pur non fornendo elementi di fatto contrastanti con quelli valorizzati dal Tribunale, si è espresso in termini di maggiore apertura, quanto all’ammissione della condannata alla misura alternativa in esame.
Deve, sul tema, ribadirsi che, in tema di misure alternative alla detenzione, il giudice, nell’esaminare le relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del condannato, non è, in alcun modo, vincolato dai giudizi di idoneità ivi espressi, ma è tenuto soltanto a considerare le riferite informazioni sulla personalità e lo stile di vita dell’interessato, parametrandone la rilevanza a fini della decisione alle istanze rieducative e ai profili di pericolosità del sogget secondo la gradualità che governa l’ammissione ai benefici penitenziari (Sez. 1, n. 23343 del 23/03/2017, Arzu, Rv. 270016 – 01): in questo senso si sono orientati i giudici del merito nel caso al vaglio.
La doglianza deve, pertanto, ritenersi infondata.
4. Per quanto concerne il secondo motivo, la difesa della ricorrente è consapevole che la citata riforma di cui alla legge n. 150 del 2022 non ha inciso sul tessuto normativo da applicarsi in questa sede con riferimento all’istituto della detenzione domiciliare definita generica, ossia quella contemplata dall’art. 47, comma 1 -bis, Ord. pen., al lume del quale la detenzione domiciliare può essere applicata per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 della stessa norma, quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea a evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati, sempre che non si tratti di condannati per i reati di cu all’art. 4-bis Ord. pen.
4.1. L’obiettivo enunciato nella doglianza si condensa nella prospettazione della non manifesta illegittimità costituzionale che, a seguito dell’introduzione del nuovo sistema delle pene sostitutive, si rifrangerebbe sulla disposizione indicata, siccome essa, con riferimento alla misura alternativa alla detenzione domiciliare generica, fa permanere il limite della durata biennale della pena detentiva, anche residua, per l’accesso alla medesima, laddove l’art. 20 -bis cod. pen. (introdotto dall’art. 1 d.lgs. n. 150 del 2022) e l’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (come sostituto dall’art. 71 d.lgs. n. 150 del 2022), consentono al giudice della cognizione, quando pronuncia sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, di sostituire la pena detentiva con la detenzione domiciliare quando ritiene di dover determinare la durata della pena ·detentiva stessa entro il limite di anni quattro.
Da tale diversità di limite la difesa trae argomento per ritenere che la norma, disciplinante la misura alternativa, nella parte in cui non prevede, per l’accesso alla stessa, la fissazione del limite (più ampio) di anni quattro di pena detentiva sia divenuta irragionevole e contraria alla funzione rieducativa della pena, con il conseguente vulnus agli artt. 3 e 27 Cost.
4.2. La Corte non condivide questa prospettazione.
Le deduzioni della ricorrente pongono l’accento su un aspetto non secondario del nuovo assetto degli istituti complessivamente finalizzati a fissare le condizioni affinché le pene di breve durata o le residue frazioni di pene di più lunga durata siano espiate in luogo diverso dalla struttura carceraria, in particolare presso il domicilio del reo.
Non si sottovaluta, naturalmente, la rilevante novità costituita – nella prospettiva del superamento dell’idea della restrizione carceraria come unica reale risposta utile a contrastare il reato – dall’introduzione nell’alveo delle pen sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, che sono subentrate alle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, così affiancando la persistente pena pecuniaria sostitutiva, secondo la rinnovata disciplina di cui all’art. 20-bis cod. pen. e agli artt. 53 e SS della legge n. 689 del 1981.
Si segnala soltanto che sono state riconfigurate, all’art. 58 legge cit., l connotazioni del potere discrezionale riconosciuto al giudice della cognizione nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive e state rimodulate, all’art 59 legge cit., anche le condizioni soggettive per la loro applicazione.
È vero che, stante l’obiettivo comune, volto alla verifica della giuridica possibilità di avviare il condannato all’espiazione della pena o della residua frazione di pena in luogo domestico o, comunque, extramurario, i cardini delle rispettive discipline evidenziano notevoli affinità, in ossequio, d’altronde, a
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criterio fissato dalla legge delega n. 134 del 2021 che, all’art. 1, comma 17, lett. f), ha demandato al legislatore delegato di mutuare, per la semilibertà e per la detenzione domiciliare, in quanto compatibile, la disciplina sostanziale e processuale prevista dall’ordinamento penitenziario per le omonime misure alternative alla detenzione. È altresì corretto, in tal senso, il ril dell’applicazione alla detenzione domiciliare sostitutiva, con riferimento all’attuazione della stessa, della disciplina dell’art. 100 d.P.R. n. 230 del 2000 richiamato, sempre nei limiti della compatibilità, dall’art. 56 legge cit.
Resta, però, l’essenziale e determinante dato di fatto che i due sistemi normativi mantengono una loro specifica autonomia: quello previsto dall’ordinamento penitenziario individua una delle molteplici forme di detenzione domiciliare contemplate dagli artt. 47 -ter, 47 -quater, 47 -quinques, inerenti alla fase esecutiva; quello previsto dagli artt. 53 e ss. della legge n. 689 del 1981 si colloca, invece, nella fase cognitiva, atteso che le pene sostitutive vengono irrogate dal giudice della cognizione con la sentenza di condanna, mediante l’appendice procedimentale (definita anche sentencing) introdotta all’art. 545-bis cod. proc. pen.
Di conseguenza, la questione prospettata dalla ricorrente propone di istituire una comparazione – al fine di saggiare la relativa disciplina rispetto al principio d uguaglianza e, quindi, al canone della ragionevolezza – fra istituti che si situano in ambiti processualmente distinti: e questo discrimine appare sostanziale, giacché solo l’applicazione delle pene sostitutive, dipendente dalle valutazioni discrezionali del giudice procedente, ex art. 58 cit., integra un’ulteriore e pi articolata esplicazione del potere di individuazione e commisurazione della pena, il cui dispiegamento resta anzitutto improntato ai criteri di cui all’art. 133 cod pen., anche se poi la scelta della pena sostitutiva e la strutturazione della sue prescrizioni devono essere proiettate alla risocializzazione del condannato, previa la formulazione della prognosi favorevole in ordine alla relativa osservanza da parte del condannato.
Pertanto, siccome esse si situano, ciascuna, nei differenti ambiti, rispettivamente cognitivo ed esecutivo, sopra indicati – salva la, circoscritta, competenza assegnata in via transitoria in materia di applicazione di pene sostitutive dall’art. 95 d.lgs. n. 150 del 2022 al giudice dell’esecuzione, ma sempre in funzione vicariante la valutazione riservata al giudice della cognizione – deve considerarsi riservata alla discrezionalità del legislatore la conformazione di quei diversi istituti, di guisa che la pedissequa comparazione fra le discipline di quelli omologhi non integra, per sé sola, un criterio discretivo idoneo a individuare il carattere di norma esorbitante nell’irragionevolezza in quella che ancora stabilisce, nell’ordinamento penitenziario, il limite massimo di due anni
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della misura alternativa della detenzione domiciliare generica, fissato dall’art. 47ter, comma 1 -bis, Ord. pen., rispetto a quello relativo alla detenzione domiciliare sostitutiva, limite (che è lo stesso della semilibertà sostitutiva) fissato legislatore delegato, sempre in ossequio alle prescrizioni impartite dalla legge delega, nella misura diversa e maggiore di quattro anni.
Allo stato degli elementi emersi, deve quindi considerarsi che la differente misura della pena detentiva a cui afferiscono i due diversi istituti dipende dall’incensurabile configurazione della nuova pena sostitutiva, la cui applicazione integra l’esito dell’esercizio del potere valutativo del giudice della cognizione pena sostitutiva che, da un canto, appare strutturata secondo scansioni esenti da irragionevolezza, in quanto costituisce una congrua estrinsecazione della discrezionalità legislativa, tesa al perseguimento dello scopo deflattivo dell’afflusso carcerario, e, dall’altro, non si ripercuote sulla valutazione ragionevolezza e sulla funzione rieducativa che appaiono tuttora efficacemente connaturate alla differente disciplina della misura alternativa di cui all’art. 47 -ter, comma 1 -bis, Ord. pen.
Ad avviso della Corte, pertanto, la sollecitata questione di legittimità costituzionale non va sollevata, in quanto essa si profila manifestamente infondata.
Discende da tali considerazioni il complessivo rigetto dell’impugnazione.
A tale esito fa seguito, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 9 novembre 2023
Il Consi ( .1 iere es ensore
Il President,