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Affidamento in prova: no se minimizzi il reato

Un individuo condannato per traffico di influenze ha richiesto l’affidamento in prova ai servizi sociali. Il Tribunale di Sorveglianza ha negato la richiesta a causa dei suoi precedenti penali e di un atteggiamento minimizzante, concedendo invece la detenzione domiciliare. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando che la mancanza di una genuina revisione critica del proprio passato criminale, anche in presenza di azioni positive come il risarcimento del danno, giustifica il diniego dell’affidamento in prova poiché il rischio di recidiva non è sufficientemente mitigato.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Affidamento in prova: la Cassazione chiarisce che la buona condotta non basta

L’affidamento in prova al servizio sociale rappresenta una delle più importanti misure alternative alla detenzione, pensata per favorire il reinserimento sociale del condannato. Tuttavia, la sua concessione non è automatica. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 13034/2024) ha ribadito un principio fondamentale: azioni positive come il risarcimento del danno e il volontariato non sono sufficienti se il condannato non dimostra una reale consapevolezza del disvalore delle proprie azioni.

I fatti del caso

Il caso riguarda un uomo condannato per traffico di influenze continuato, con una pena residua di circa nove mesi da scontare. L’uomo ha presentato un’istanza al Tribunale di Sorveglianza per ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale. A sostegno della sua richiesta, ha evidenziato di aver ammesso le proprie responsabilità, risarcito il danno e svolto attività di volontariato.

Nonostante questi elementi positivi, il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato l’istanza. La decisione si basava sul profilo complessivo del condannato, caratterizzato da numerosi precedenti penali e pendenze giudiziarie, tra cui una pesante condanna in primo grado per altri reati. Secondo il Tribunale, l’uomo manifestava un atteggiamento di minimizzazione rispetto alla gravità del reato commesso, aspetto che precludeva una prognosi favorevole circa il suo reinserimento sociale. Di conseguenza, il Tribunale gli ha concesso la misura più contenitiva della detenzione domiciliare.

La decisione della Corte di Cassazione e il diniego dell’affidamento in prova

L’uomo ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che il Tribunale avesse erroneamente valutato il suo passato criminale e ignorato il contenuto positivo della relazione redatta dall’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE).

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno confermato la correttezza della valutazione del Tribunale di Sorveglianza, sottolineando come la decisione fosse logicamente motivata e ben ancorata ai fatti. La Corte ha specificato che, ai fini della concessione dell’affidamento in prova, il giudice deve valutare l’evoluzione della personalità del condannato dopo il reato, per capire se il percorso rieducativo possa prevenire il pericolo di recidiva.

Le motivazioni

Il punto cruciale della motivazione risiede nell’atteggiamento del condannato. La Cassazione ha evidenziato come il Tribunale abbia correttamente rilevato una profonda discrepanza tra le azioni formalmente positive (risarcimento, volontariato) e la mancata interiorizzazione della gravità dei propri comportamenti.

L’uomo, anche durante le indagini dell’UEPE, aveva continuato a sottovalutare la gravità della sua condotta e a fornire versioni “giustificative” per i suoi precedenti. Questo atteggiamento, definito come “scarsa consapevolezza del disvalore delle azioni realizzate”, è stato considerato sintomatico di una personalità che non ha ancora superato le cause che l’hanno portata a delinquere. Di fronte a questo quadro, il rischio di commettere nuovi reati non poteva essere escluso, rendendo l’affidamento in prova una misura inadeguata. La detenzione domiciliare è stata quindi ritenuta la scelta più congrua per bilanciare le esigenze di controllo sociale con un percorso, seppur più limitato, di espiazione della pena fuori dal carcere.

Le conclusioni

Questa sentenza offre un’importante lezione: nel percorso verso le misure alternative, l’atteggiamento interiore conta quanto le azioni esteriori. La giustizia non si accontenta di una “facciata” di ravvedimento, ma cerca una reale e profonda revisione critica del proprio passato. Per chi aspira all’affidamento in prova, è essenziale dimostrare non solo di aver compiuto gesti riparatori, ma anche di aver compreso appieno il significato e le conseguenze delle proprie scelte criminali. Senza questa consapevolezza, il percorso verso il pieno reinserimento sociale rimane incompiuto e il rischio di una risposta negativa da parte dei giudici è concreto.

Aver risarcito il danno e fare volontariato basta per ottenere l’affidamento in prova?
No, secondo la sentenza, questi elementi positivi non sono sufficienti se il condannato mostra un atteggiamento di minimizzazione della gravità del proprio reato e non dimostra una genuina revisione critica delle sue azioni passate.

Perché il Tribunale ha negato l’affidamento in prova anche se la pena residua era breve?
Il Tribunale ha negato la misura perché la valutazione complessiva della personalità del soggetto, basata su precedenti penali, pendenze giudiziarie e, soprattutto, sulla persistente tendenza a sminuire la gravità dei reati commessi, indicava un concreto rischio di recidiva che la misura dell’affidamento non avrebbe potuto contenere.

Che differenza c’è tra affidamento in prova e detenzione domiciliare secondo questa sentenza?
La sentenza chiarisce che l’affidamento in prova è finalizzato a una piena risocializzazione e richiede una prognosi positiva sul fatto che il condannato abbia intrapreso un percorso di emenda. La detenzione domiciliare è invece una misura più contenitiva, adottata quando questo percorso non è ancora solido e permane la necessità di prevenire il pericolo di nuovi reati, riflettendo una maggiore cautela da parte dell’ordinamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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