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Affidamento in prova: lavoro non è requisito essenziale

La Corte di Cassazione ha annullato il diniego di affidamento in prova a un uomo anziano che si era da poco trasferito in Italia. La Corte ha stabilito che l’assenza di un’attività lavorativa immediata non è un ostacolo insuperabile, specialmente considerando l’età del condannato e il tempo trascorso dal reato. Il Tribunale di Sorveglianza dovrà rivalutare il caso tenendo conto di tutte le circostanze personali e del recente cambiamento di vita del richiedente.

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Pubblicato il 16 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Affidamento in Prova: Non è Necessario un Lavoro per Ottenerlo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19739/2024, ha chiarito un punto fondamentale riguardo i requisiti per l’affidamento in prova al servizio sociale. La Suprema Corte ha stabilito che l’assenza di un’attività lavorativa non costituisce, di per sé, un motivo sufficiente per negare la misura alternativa, specialmente quando altre circostanze suggeriscono una prognosi favorevole di reinserimento sociale. Questo principio è cruciale per garantire che la valutazione del condannato sia completa e non si fermi a singoli aspetti formali.

I fatti del caso

Un uomo, condannato in via definitiva, presentava istanza di affidamento in prova. Inizialmente, la sua richiesta prevedeva lo svolgimento della misura a Tenerife, dove risiedeva e lavorava. Tuttavia, nel corso del procedimento, l’uomo decideva di rientrare in Italia, stabilendosi a Nettuno, e modificava di conseguenza la sua istanza. Questo trasferimento avveniva a sole due settimane dall’udienza davanti al Tribunale di Sorveglianza.

La decisione del Tribunale di Sorveglianza e il ricorso

Il Tribunale di Sorveglianza di Roma respingeva la richiesta. La motivazione del diniego si basava sulla mancanza, nella nuova proposta di reinserimento sociale in Italia, di un’attività lavorativa, di volontariato o di un progetto concreto di riparazione sociale. Secondo il Tribunale, questa assenza impediva di formulare una prognosi favorevole circa il positivo reinserimento del condannato nella società.

Contro questa decisione, il condannato proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo due motivi principali:
1. Vizio di motivazione: il Tribunale non aveva considerato il tempo estremamente breve (due settimane) intercorso tra il suo rientro in Italia e l’udienza, che non gli aveva permesso di reperire un’occupazione.
2. Violazione di legge: la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che lo svolgimento di un’attività lavorativa non è una condizione indispensabile per la concessione dell’affidamento in prova.

L’affidamento in prova e le motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendolo fondato. Gli Ermellini hanno sottolineato che la valutazione del Tribunale di Sorveglianza è stata carente e non ha tenuto conto di tutti gli elementi rilevanti del caso.

La valutazione delle circostanze oggettive

In primo luogo, la Corte ha evidenziato come il Tribunale avrebbe dovuto considerare il recente trasferimento in Italia come un dato obiettivo. La mancata reperibilità di un lavoro in sole due settimane non poteva essere interpretata automaticamente come un ‘insufficiente interesse’ del ricorrente al suo progetto di rieducazione. Si trattava di una circostanza di fatto che andava ponderata.

L’attività lavorativa non è un requisito assoluto per l’affidamento in prova

In secondo luogo, e in linea con un orientamento consolidato, la Cassazione ha ribadito che l’art. 47 dell’ordinamento penitenziario non pone lo svolgimento di un’attività lavorativa come condizione necessaria per l’accesso alla misura. Sebbene il lavoro, il volontariato o il risarcimento del danno siano elementi importanti del progetto di reinserimento, la valutazione deve essere complessiva e considerare anche altre circostanze. Nel caso specifico, il Tribunale avrebbe dovuto valutare:
* L’età del ricorrente: nato nel 1953, l’uomo poteva astrattamente percepire un reddito lecito da trattamenti previdenziali, senza la necessità di un’attività lavorativa.
* Il tempo trascorso dal reato: erano passati dieci anni dalla commissione del reato, un periodo durante il quale non risultavano essere stati commessi ulteriori illeciti.
* La condotta pregressa: il condannato aveva riferito di aver svolto attività lavorativa lecita all’estero per un lungo periodo.

Le conclusioni

La sentenza della Cassazione annulla quindi l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza e rinvia il caso per un nuovo giudizio. Il principio di diritto che emerge è chiaro: per concedere l’affidamento in prova, il giudice deve compiere una valutazione globale della personalità e della situazione del condannato. L’assenza di un’attività lavorativa, pur essendo un elemento da considerare, non può diventare un ostacolo insormontabile, soprattutto quando altre circostanze, come l’età avanzata, il lungo tempo trascorso senza commettere nuovi reati e i recenti cambiamenti di vita, possono contribuire a formulare una prognosi favorevole di reinserimento sociale.

È obbligatorio avere un lavoro per ottenere l’affidamento in prova?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’art. 47 dell’ordinamento penitenziario non richiede lo svolgimento di un’attività lavorativa o di volontariato come condizione necessaria per accedere alla misura. È un elemento del progetto di reinserimento, ma non l’unico.

Cosa deve valutare il Tribunale di Sorveglianza per concedere l’affidamento in prova?
Il Tribunale deve compiere una valutazione complessiva che tenga conto di tutte le circostanze del caso, come l’età del condannato (e la sua potenziale capacità di sostenersi con trattamenti previdenziali), il tempo trascorso dal reato, l’assenza di nuovi reati e la condotta di vita generale.

Un recente trasferimento in Italia può giustificare la mancanza di un progetto di reinserimento immediato?
Sì. La Corte ha stabilito che un trasferimento avvenuto a ridosso dell’udienza è una circostanza oggettiva che deve essere considerata. La mancata presentazione di un’attività lavorativa in un tempo così breve non può essere interpretata automaticamente come un disinteresse del condannato verso il suo percorso rieducativo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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