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Affidamento in prova: il lavoro non è requisito

Un soggetto condannato per bancarotta fraudolenta si è visto negare l’affidamento in prova. La Corte di Cassazione ha dichiarato il suo ricorso inammissibile, specificando un principio fondamentale: sebbene l’assenza di un’attività lavorativa non sia di per sé ostativa, la concessione dell’affidamento in prova richiede la dimostrazione di elementi concreti che attestino un percorso di risocializzazione e un’evoluzione positiva della personalità del condannato.

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Pubblicato il 23 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Affidamento in Prova: Lavoro Utile ma Non Indispensabile

L’affidamento in prova al servizio sociale rappresenta uno strumento cruciale per il reinserimento sociale del condannato. Ma quali sono i requisiti concreti per ottenerlo? È necessario avere un’occupazione stabile? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo punto, chiarendo che, sebbene importante, il lavoro non è una condizione indispensabile. Ciò che conta davvero è la presenza di elementi concreti che dimostrino una positiva evoluzione della personalità del condannato.

I Fatti del Caso

Il caso esaminato riguarda un imprenditore condannato in via definitiva a una pena di due anni e sei mesi di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta. L’uomo aveva presentato al Tribunale di Sorveglianza un’istanza per essere ammesso all’affidamento in prova e, in subordine, alla detenzione domiciliare. Il Tribunale aveva rigettato la prima richiesta e dichiarato inammissibile la seconda.

La difesa del condannato ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che la decisione del Tribunale fosse viziata. Secondo il legale, i giudici avrebbero errato nel considerare ostativa l’assenza di un’attività lavorativa, senza tenere conto di altri fattori positivi come la buona condotta mantenuta, l’assenza di nuove denunce e il tempo trascorso dalla condanna definitiva.

L’Affidamento in Prova secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato. La decisione, tuttavia, offre spunti di riflessione molto importanti sul bilanciamento degli elementi valutati dal giudice di sorveglianza. La Corte ha ribadito un principio consolidato: per concedere una misura alternativa, il giudice deve sì considerare la gravità dei reati commessi, ma deve soprattutto guardare al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti, per verificare se vi siano “sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità”.

In questo contesto, lo svolgimento di un’attività lavorativa o di volontariato non è un “requisito indefettibile”, ma assume rilevanza come uno degli aspetti che concorrono a formare un giudizio prognostico favorevole sul reinserimento sociale del condannato.

Le Motivazioni

Il punto centrale delle motivazioni della Suprema Corte è che la decisione del Tribunale di Sorveglianza non si basava unicamente sull’assenza di un lavoro. Piuttosto, la negazione del beneficio derivava dalla “mancanza di elementi concreti”, emersi anche dall’istruttoria del competente ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE), in base ai quali poter ritenere seria e concreta la finalità di reinserimento sociale prevista dalla legge. In altre parole, il condannato non aveva fornito prove sufficienti di un cambiamento tangibile e di un impegno attivo verso un percorso di risocializzazione.

La Corte ha specificato che il ricorso era inammissibile anche perché sollevava questioni di fatto, ovvero tentava di ottenere una nuova valutazione del merito della vicenda, compito che non spetta alla Corte di Cassazione. Il suo ruolo è limitato a verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione, non a riesaminare le prove. La mancanza di un’evoluzione positiva dimostrabile ha quindi reso la decisione del Tribunale di Sorveglianza immune da censure.

Le Conclusioni

L’ordinanza conferma che per accedere all’affidamento in prova non basta semplicemente astenersi dal commettere nuovi reati. È necessario un “quid pluris”: il condannato deve dimostrare attivamente, con elementi concreti e verificabili, di aver intrapreso un percorso di revisione critica del proprio passato e di reinserimento sociale. L’attività lavorativa è un ottimo indicatore di questo percorso, ma non l’unico né il solo indispensabile. La valutazione del giudice rimane globale e si fonda su un giudizio prognostico che deve basarsi su una serie di fattori concreti che, nel loro insieme, possano convincere della possibilità di un reale e positivo reinserimento nella società.

È obbligatorio avere un lavoro per ottenere l’affidamento in prova?
No, la Corte di Cassazione chiarisce che lo svolgimento di un’attività lavorativa non è un requisito indispensabile. Tuttavia, è considerato uno degli aspetti idonei a concorrere alla formazione di un giudizio prognostico favorevole.

Cosa valuta il giudice per concedere una misura alternativa alla detenzione?
Il giudice valuta non solo la tipologia e la gravità dei reati commessi, ma deve avere riguardo anche al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti. Lo scopo è verificare concretamente se vi siano sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che rendano possibile il reinserimento sociale.

Perché il ricorso in questo caso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché si basava su doglianze in punto di fatto, non consentite in sede di legittimità, ed era comunque manifestamente infondato. La decisione impugnata non era basata sulla sola assenza di lavoro, ma sulla mancanza complessiva di elementi concreti che dimostrassero una seria finalità di risocializzazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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