Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 17442 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 17442 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato a NARDO’ il 21/05/1988 COGNOME NOME nato a NARDO’ il 15/05/1967 COGNOME NOME nata a NARDO’ il 09/12/1995
avverso la sentenza del 11/10/2024 della CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
sentito il PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo: la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi di COGNOME e COGNOME; il rigetto del ricorso di COGNOME
uditi i difensori presenti:
avvocato NOME COGNOME, del foro di LECCE, in difesa di COGNOME che, illustrando i motivi di ricorso, ne ha chiesto l’accoglimento.
avvocato NOME COGNOME del foro di ROMA, e avvocato NOME COGNOME, del foro di LECCE, in difesa di NOME COGNOME i quali, illustrando i motivi di ricorso ne hanno chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 11 ottobre 2024 (che riguarda, oltre alle posizioni di seguito esaminate, altre posizioni non rilevanti in questa sede) la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza emessa – all’esito di giudizio abbreviato – dal Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale della stessa città nei confronti di NOME COGNOME. L’ha riformata, invece, per quanto riguarda la posizione di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
1.1. NOME COGNOME è stato ritenuto responsabile: del reato di cui all’art. 74, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, quale capo e promotore di un’associazione finalizzata all’acquisto, alla detenzione per la cessione e alla vendita di cocaina e marijuana, operante «in Nardò fino al luglio 2020»; del reato di cui al capo Al), relativo a continuate violazioni degli artt. 110 cod. pen. e 73, comma 1, d.P.R. n. 309/90 commesse in Nardò il 9 aprile 2020, in concorso con NOME COGNOME (coimputato non ricorrente).
In grado di appello, sono state concesse all’imputato le attenuanti generiche, delle quali egli è stato ritenuto meritevole per aver rinunciato a tutti i motivi d gravame salvo a quelli relativi al trattamento sanzionatorio. La pena è stata determinata in anni nove e mesi quattro di reclusione.
1.2. NOME COGNOME è stata ritenuta responsabile: del reato di cui all’art. 74, comma 2, d.P.R. n.309/90, quale partecipe dell’associazione di cui al capo A); del reato continuato di cui al capo A19), relativo a violazioni dell’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90 commesse in Nardò dal 26 ottobre 2019 al 4 novembre 2019, in concorso col coimputato non ricorrente NOME COGNOME.
In grado di appello è stata accolta la richiesta di concordato formulata dalle parti ai sensi dell’art. 599 bis cod. proc. pen. La COGNOME ha rinunciato a tutti i motivi, tranne quello riguardante il riconoscimento delle attenuanti generiche, delle quali ha chiesto l’applicazione. La pena è stata determinata nella misura concordata di anni quattro, mesi nove e giorni dieci di reclusione.
1.3. NOME COGNOME è stato ritenuto responsabile: del reato di cui all’art. 74, comma 2, d.P.R. n. 309/90 quale partecipe dell’associazione di cui al capo A) e di violazioni dell’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90 . La pena è stata determinata in anni otto di reclusione. Ritenuta la continuazione tra i reati e più grave quello di cui al capo A).
Contro la sentenza della Corte di appello di Lecce hanno proposto tempestivo ricorso, per mezzo dei rispettivi difensori, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di due motivi.
Premesso che, con la sentenza impugnata, la Corte di appello ha recepito l’accordo intervenuto tra le parti ai sensi dell’art. 599 bis cod. proc. pen. il difensore deduce:
col primo motivo, violazione di legge, dolendosi che la Corte di appello non abbia spiegato per quali ragioni, nel caso di specie, non avrebbe potuto trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 129 cod. proc. pen.
col secondo motivo, violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento all’entità dell’aumento di pena operato ai sensi dell’art. 81, comma 2, cod. pen. Il difensore rileva che la Corte territoriale non ha indicato le ragioni che hanno portato a determinare l’aumento di pena per il reato continuato di cui al capo A19) e neppure ha indicato l’entità dell’aumento di pena con riferimento a ciascuno dei fatti ivi contestati.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di due motivi.
4.1. Col primo motivo, il difensore deduce violazione di legge e vizi di motivazione rilevando che l’aumento di pena a titolo di continuazione per il reato di cui al capo Al) è stato determinato in misura eccessiva senza fornire di ciò motivazione alcuna e in violazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il giudice è tenuto a indicare i motivi fondan l’incremento di pena per ciascuno dei reati uniti dal vincolo della continuazione.
4.2. Col secondo motivo, il difensore deduce violazione di legge e vizi di motivazione sia con riferimento alla sussistenza del reato associativo (che sarebbe stata ritenuta in assenza di prova dei necessari elementi costitutivi); sia co riferimento al ruolo svolto da COGNOME nell’ipotizzata associazione, alla quale egli avrebbe contribuito – peraltro rendendosi responsabile di un solo reato fine – «per soli sei mesi, precisamente dall’ottobre del 2019 all’aprile del 2020 , a fronte di un arco temporale che avrebbe visto operare l’associazione dal maggio 2019 al luglio 2020»; sia quanto alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato (atteso che COGNOME avrebbe mantenuto contatti soltanto con NOME COGNOME e NOME COGNOME); sia con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto che, in tesi difensiva, avrebbe dovuto essere ricondotto entro l’ambito operativo della fattispecie di cui all’art. 74, comma 6 d.P.R. n. 309/90, atteso che tutti gli episodi contestati agli imputati , sarebbero riconducibili alla fattispecie di all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90.
Con specifico riferimento alla qualificazione giuridica del fatto di cui al capo A il difensore del ricorrente ricorda che l’eventuale accoglimento del motivo proposto
dal coimputato COGNOME potrebbe produrre effetti, ai sensi dell’art. 587, comma 1, cod. proc. pen. anche nei confronti di COGNOME
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di sei motivi che si riferiscono ai reati di cui ai capi A) e A22). Nessun motivo riguarda il reat di cui al capo A3) e i reati di cui ai capi A4) e A5).
5.1. Col primo, secondo e terzo motivo (che hanno contenuti strettamente connessi e possono essere esposti congiuntamente) il ricorrente deduce vizi di motivazione e violazione di legge sostanziale e processuale per essere stata ritenuta la partecipazione di COGNOME al reato associativo di cui al capo A).
La difesa sostiene che l’affermazione secondo la quale COGNOME faceva parte del gruppo e quella secondo la quale egli pagava una somma fissa (il c.d. «punto») per poter spacciare a Nardò non sono coerenti dal punto di vista giuridico. Il pagamento di una somma fissa funzionale allo svolgimento di attività di spaccio, infatti, non comporta la partecipazione al reato associativo. La difesa si duole che i giudici di merito abbiano valutato attendibile la chiamata in correità sia nel parte in cui genericamente indica in COGNOME un componente del gruppo capeggiato da COGNOME, sia nella parte in cui descrive i rapporti instaurati tr COGNOME e quel gruppo, senza valutare la compatibilità tecnico-giuridica tra queste affermazioni. Si duole, quindi, che la sentenza impugnata non abbia compiuto il doveroso approfondimento sull’individuazione della condotta di partecipazione e non abbia chiarito perché COGNOME debba essere considerato
Come la difesa riferisce (e come risulta dalla sentenza impugnata: pagg. 33 e ss. della motivazione), secondo i collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME, il gruppo promosso e capeggiato da NOME COGNOME aveva il controllo sulla piazza di spaccio di Nardò, per gestire la quale COGNOME si avvaleva del suo uomo di fiducia: NOME COGNOME. In particolare, l’associazione al vertice della quale operavano COGNOME e COGNOME, gestiva la commercializzazione di cocaina nel territorio neretino, mentre un altro gruppo, al vertice del quale c’era NOME COGNOME (cognato di Lonao), si occupava di commercializzare la marijuana nel capoluogo. Come emerge dalla lettura della sentenza impugnata, nel rendere dichiarazioni sul punto, COGNOME ha chiarito che chiunque volesse svolgere attività di spaccio nel territorio di Nardò doveva essere autorizzato da COGNOME, il quale «percepiva una percentuale sullo smercio di droga»; ma, chi voleva «ritagliarsi un piccolo smercio», doveva «pagare una somma di denaro all’organizzazione criminale del COGNOME». Nella sentenza impugnata si legge (pag. 34) che, a detta di COGNOME, del gruppo «di cui COGNOME era il capo faceva parte COGNOME NOME, il quale pagava la somma di C 5.000,00 ogni mese per garantirsi la possibilità di spacciare nella “piazza” di Nardò». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
partecipe della associazione che controllava l’attività di spaccio a Nardò solo per aver pattuito con quella associazione il versamento di una somma mensile, in assenza del quale non avrebbe potuto operare sul mercato.
Secondo la difesa è contraddittorio (o comunque manifestamente illogico) aver considerato quali indizi rilevanti della partecipazione del ricorrent all’associazione capeggiata da COGNOME le dichiarazioni secondo le quali COGNOME versava una somma mensile al sodalizio per poter commercializzare marijuana nel territorio neretino. Da queste dichiarazioni, infatti, non si può desumere l’esistenz della affectio societatis necessaria a integrare la partecipazione al sodalizio e neppure la condivisione da parte di COGNOME degli scopi del gruppo. In tesi difensiva, pagando «il punto» a COGNOME e COGNOME, COGNOME ottenne di poter spacciare in proprio e dalle sentenze di merito non risulta che COGNOME fosse stabile fornitore dell’associazione, né che dalla stessa si rifornisse stabilmente sicché l’unica condotta accertata sarebbe rappresentata dal pagamento del «punto», da se solo insufficiente ad integrare una condotta partecipativa.
Così argomentando la difesa deduce: da un lato, violazione di legge per essere stata individuata nel pagamento del «punto» una condotta partecipativa; dall’altro, vizi di motivazione per non essere stato indicato il ruolo concretamente svolto da COGNOME all’interno della associazione e il contributo da lui forn all’operatività del sodalizio.
Secondo il ricorrente, profili di contraddittorietà o manifesta illogicità posson cogliersi anche nella lettura che i giudici di merito hanno fornito delle conversazion valutate rilevanti. La difesa osserva che le conversazioni riportate nella sentenza della Corte di appello possono rappresentare un riscontro all’affermazione secondo la quale COGNOME era associato, ma possono allo stesso modo rappresentare un riscontro all’affermazione secondo la quale egli spacciava in autonomia e, per poterlo fare, versava a COGNOME una cifra mensile fissa. Pertanto, non consentono di sciogliere il nodo interpretativo sopra evidenziato e il quadro indiziario che n deriva non è grave, preciso e concordante.
Con riferimento alla conversazione del 9 novembre 2019 (RIT 1317/19 progr. 8341), nella quale NOME COGNOME parlando di COGNOME, disse a NOME COGNOME: «sta lavorando con noi» (come riportato a pag. 38 della sentenza impugnata sulla base della trascrizione eseguita dal perito), la difesa osserva che l’uso dell’espressione «con noi» (diversa dall’espressione «per noi» contenuta nella trascrizione della PG, alla quale si era inizialmente fatto riferimento) non depone inequivocamente nel senso dell’affiliazione di COGNOME al sodalizio ed è compatibile, sia con un organico inserimento nell’associazione, sia col pagamento di una somma fissa, necessario per poter lavorare in una piazza controllata dall’associazione stessa.
Con riferimento alla conversazione dell’8 dicembre 2019 (RIT 1317/19 progr. 15002), nella quale COGNOME e COGNOME si confrontano sull’andamento degli affari, la difesa rileva che, in questa conversazione, COGNOME parla di andar a prendere «quell’altra cosa, meno cara» della quale ha parlato con COGNOME e spiega che deve farlo perché sta vendendo poco (testualmente: «non per niente, perché non ne sto vendendo molta») e rileva che tale conversazione non depone in termini non equivoci nel senso della partecipazione di COGNOME all’associazione, essendo compatibile con una attività di spaccio svolta in proprio ed essendo indicativa, oltre che di un autonomo approvvigionamento di sostanza, anche di attività di vendita svolte a titolo individuale (si spiegherebbe così l’uso della pri persona singolare: «vado a prendere», «non ne sto vendendo molta»).
L’atto di ricorso sviluppa argomentazioni analoghe con riferimento alla conversazione del 20 gennaio 2020 (RrT 1118/19 – progr. 18060) e alle riprese della telecamera installata nei pressi del bar “INDIRIZZO“. Dalla conversazione e dalle riprese emerge che, dovendo procurare marijuana a una persona di nazionalità cinese (tale “NOME“), e «non trovando in quel momento la disponibilità di altri sodali per portargli la sostanza psicotropa da cedere all’acquirente», COGNOME contattò COGNOME, il quale si rese subito «disponibile a raggiungerlo» (pag. 40 della sentenza impugnata). La difesa osserva che COGNOME può essersi rivolto a COGNOME quale associato; ma può averlo fatto anche perché, avendolo autorizzato (dietro corrispettivo) a spacciare marijuana nel territorio di Nardò, sapeva che egli poteva avere disponibilità di questa sostanza e sostiene che sarebbe manifestamente illogico aver tratto da questo episodio una conferma dell’ipotizzata partecipazione di COGNOME alla associazione capeggiata da COGNOME.
Con riferimento alla conversazione del 1° ottobre 2019 (RIT 1317/19 progr.916), nella quale COGNOME disse a COGNOME che aveva fatto male a sottrarre le chiavi della moto a NOME COGNOME (debitore dell’odierno ricorrente) perché la madre di lui avrebbe potuto denunciarlo, la difesa osserva: da un lato, che COGNOME ha negato di essere debitore di COGNOME per avere acquistato da lui stupefacenti; dall’altro che, anche volendo ammettere che COGNOME avesse preso le chiavi della moto a scopo estorsivo, il fatto che COGNOME si sia rivolto COGNOME conferma solo che questi controllava lo spaccio nel territorio di Nardò, ma non anche che COGNOME svolgesse la propria attività nell’ambito dell’associazione. A sostegno di tale argomentazione, la difesa ricorda che, nella conversazione intercettata, COGNOME disse a COGNOME: «io in mezzo ai fatti vostri non mi intrometto»; una frase dalla quale sarebbe stato logico dedurre che l’ipotizzato rapporto debito credito tra COGNOME e COGNOME non coinvolgeva direttamente l’associazione e COGNOME si era interessato al problema soltanto perché COGNOME spacciava a Nardò con l’autorizzazione del gruppo.
Secondo la difesa, è priva di univoca e dirimente valenza nel senso indicato dalla sentenza impugnata anche la conversazione captata il 15 aprile 2020 (RIT 1317/19 – progr. 1658), nel corso della quale, parlando con COGNOME dell’arresto di NOME COGNOME, COGNOME disse di aver telefonato a NOME COGNOME (pad del giovane arrestato), di essersi rammaricato con lui dell’accaduto e di avere intenzione di mandare qualcosa al ragazzo. Nel riportare a COGNOME il contenuto della sua conversazione con NOME COGNOME disse di aver chiesto al padre dell’arrestato: «ma hai parlato poi con qualcuno, con l’amico nostro, no … sai se ci è rimasto male?» (pag. 39 della sentenza impugnata). Da questa conversazione la sentenza impugnata desume che COGNOME condivideva con gli associati un patto di reciproca assistenza. La difesa obietta che, se fosse stato partecipe dell’associazione, l’odierno ricorrente avrebbe potuto limitarsi a sollecitarne l’intervento e, invece, si dichiarò disponibile a interveni personalmente perché, come emerge dal contenuto della conversazione, era stato lui a coinvolgere NOME COGNOME in attività di spaccio e, per questo, si riten responsabile del suo arresto.
In tesi difensiva, la circostanza che COGNOME operasse in proprio, senza rendere conto all’associazione e ai vertici della stessa, sarebbe confermata da alcune conversazioni intercettate il 30 maggio 2020 (RIT 553/20 – progr. 1387). Quel giorno, infatti, come anche i giudici di merito riferiscono (pag. 176 e ss. della sentenza di primo grado), essendosi sottratto ad un controllo di polizia, COGNOME «fornì indicazioni sulle modalità di occultamento e/o distruzione della sostanza stupefacente» alla compagna NOME COGNOME ad NOME COGNOME e a NOME COGNOME che collaboravano con lui nella commercializzazione della sostanza, ma non riferì ad altri dei problemi insorti né si rivolse, per farsi aiutare, ad persone individuate in sentenza come componenti della associazione.
Il ricorrente si duole che analoghi rilevi critici, formulati nell’atto di grav con riferimento alla sentenza di primo grado, non abbiano avuto risposta nella sentenza impugnata.
5.2. Sotto diverso profilo, la difesa osserva (l’argomento è sviluppato in particolare nel secondo e nel terzo motivo) che a COGNOME sono state ascritte ai capi A4) e A5) violazioni dell’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90 e, già in primo grado, i fatti di cui ai capi A3) e A22) sono stati qualificati ai sensi dell’art comma 4, d.P.R. n. 309/90, sicché i giudici di merito hanno riconosciuto che il ricorrente si occupava soltanto dello spaccio di droghe leggere.
Muovendo da queste premesse, la difesa ricorda che, secondo le dichiarazioni di NOME COGNOME (dichiarazioni che i giudici di merito non hanno posto in dubbio valutandole credibili e riscontrate), l’associazione promossa e capeggiata da COGNOME si occupava dello spaccio di cocaina, mentre lo spaccio di marijuana era
affidato ad altra associazione capeggiata dal cognato di COGNOME NOMECOGNOME il quale si avvaleva, per la vendita, della famiglia COGNOME.
Secondo la sentenza impugnata (pag. 38 della motivazione), le emergenze istruttorie consentono di ritenere che lo spaccio di marijuana fosse «appannaggio del gruppo di Duma nel centro di Nardò, ma non nelle marine, dove anche il sodalizio che faceva capo al Longo poteva trafficare questa sostanza». La Corte di appello sostiene che a tale conclusione sì può giungere alla luce di una conversazione intercettata 1’8 ottobre 2019 (RIT 1317/19 – prog. 2465) nella quale COGNOME chiese a NOME COGNOME «se fosse in contatto con trafficanti in grado di procurargli 20 kg. di marduana». Tale richiesta, infatti, «non avrebbe avuto alcun senso» se l’associazione criminosa non fosse stata dedita anche allo spaccio di tale sostanza. Il ricorrente obietta che la sentenza impugnata non spiega da cosa possa desumersi che il gruppo al cui vertice operavano COGNOME e COGNOME gestiva lo smercio della marijuana nelle marine (o, comunque, al di fuori del paese) e, invece, il gruppo capeggiato da COGNOME lo gestiva nel capoluogo. Sostiene che questa ricostruzione sarebbe contrastante con le dichiarazioni di COGNOME che, tuttavia, è stato valutato attendibile ed è l’unico tra i collaboratori ad parlato di COGNOME. Rileva che, in ogni caso, la sentenza non indica episodi rilevanti ex art. 73 d.P.R. n. 309/90 che collochino COGNOME presso la marina di Nardò o in territori limitrofi. Ricorda ancora che, nella conversazione del novembre 2019 (RIT 1317/19 – progr. 8341), parlando di COGNOME, COGNOME disse a COGNOME: «sta lavorando con noi», e aggiunse: «con la “maria”» sicché non è controverso che l’odierno ricorrente si occupasse di commercializzare marijuana. La difesa sostiene che, in questa situazione, è contraddittorio aver ritenuto attendibili le dichiarazioni di NOME COGNOME sia quando h affermato che lo spaccio di marijuana a Nardò era gestito da un gruppo diretto da COGNOME, sia quando ha sostenuto che COGNOME faceva parte del gruppo di COGNOME e pagava «il punto» a quel gruppo per poter spacciare. Sarebbe conseguentemente illogico aver affermato (come fa la sentenza impugnata a pag. 39) che «quando COGNOME, cogliendo di sorpresa COGNOME, gli diceva che COGNOME stava lavorando “con” il suo gruppo, soprattutto dedicandosi allo spaccio della marijuana, non intendeva affatto riferirsi ad un semplice contatto finalizzato al versamento del “punto”, ma ad una vera e propria stabile collaborazione nell’illecita attività, che, peraltro, veniva attuata da COGNOME nella consapevolez di relazionarsi con un gruppo (“sta lavorando con noi”) e non con un singolo». In tesi difensiva, a ciò deve aggiungersi che COGNOME è l’unico tra i collaboratori aver specificamente parlato di COGNOME e, invece, la circostanza che nella piazza di spaccio di Nardò operassero due associazioni – una capeggiata da COGNOME (il cui Corte di Cassazione – copia non ufficiale
braccio destro era COGNOME e una capeggiata da COGNOME – è stato riferito anche dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME
5.3 Col quarto, subordinato, motivo il difensore deduce vizi di motivazione dolendosi della mancata applicazione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90. Secondo la difesa, la sentenza impugnata non avrebbe spiegato perché l’associazione di cui al capo A) possa ritenersi finalizzata anche ad attività di spaccio di non lieve entità e neppure avrebbe spiegato perché tale qualificazione giuridica non sarebbe possibile, almeno con riferimento alla posizione di COGNOME.
5.4. Col quinto motivo, la difesa deduce violazione di legge e vizi di motivazione riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo A22). difensore osserva che, in questo capo, sono state contestate a COGNOME continuate cessioni di sostanza stupefacente a numerose persone e la sostanza ceduta è stata ritenuta essere marijuana già in primo grado, atteso che il fatto è stato qualificato come violazione dell’art. 73, comma 4, d.P.R. 309/90. Muovendo da queste premesse, la difesa si duole che le cessioni contestate al capo A22) non siano state ricondotte entro l’ambito operativo della fattispecie di cui all’art. comma 5, d.P.R. n. 309/90 e per questi fatti sia stata inflitta, a titolo di aumen per continuazione, una pena pari ad anni uno e mesi sei (ridotta ad anni uno per la scelta del rito). Sottolinea in tal senso che l’applicabilità del quinto comm dell’art. 73 è stata esclusa solo perché si tratta «di episodi che si inseriscon nell’ambito dell’attività del sodalizio di cui al capo A)» (pag. 41 della senten impugnata) e tale motivazione è incongrua perché, come emerge evidente dalla previsione dell’art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/90, anche episodi inseriti nell’ambito dell’attività di un sodalizio possono essere qualificati di lieve entità.
5.5. Col sesto motivo, la difesa lamenta violazione di legge e vizi di motivazione per non essere state concesse a COGNOME le attenuanti generiche. Osserva che l’applicazione di tali circostanze attenuanti è stata esclusa sostenendo che, a parte l’incensuratezza, non vi sarebbero stati altri elementi valutabili favore dell’imputato e considerando quali dati neutri le condizioni di salute di COGNOME e il fatto che egli lavorasse nell’azienda di famiglia.
Da ultimo, la difesa si duole che le attenuanti generiche siano state applicate ad altri imputati solo perché hanno rinunciato ai motivi di ricorso, pur in presenza di elementi di segno contrario riguardanti la capacità a delinquere.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Si deve premettere che, come emerge in termini non equivoci dalla lettura della sentenza impugnata (pagg. 4 e 5 della motivazione), nel giudizio di appello
sono state proposte istanze di concordato ai sensi dell’art. 599 bis cod. proc. pen. nell’interesse di numerosi imputati e – per quanto qui interessa – di NOME COGNOME ma non nell’interesse di NOME COGNOME Con riferimento alla posizione di COGNOME, infatti, le parti non hanno concordato sull’accoglimento di parte dei motivi con rinuncia agli altri e sulla conseguente nuova determinazione della pena nel termine di quindici giorni prima dell’udienza, previsto a pena di decadenza, dall’art. 599 bis, comma 1, cod. proc. pen. È accaduto invece che, all’udienza dell’Il ottobre 2024, presente COGNOME (detenuto per questa causa), il suo difensore abbia rinunciato «a tutti i motivi tranne quelli riguardanti il trattame sanzionatorio (e segnatamente la richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche)» (pag. 5 e pag. 53 della sentenza impugnata).
Fatta questa doverosa premessa, si deve procedere all’esame dei motivi di ricorso proposti nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME per poi esaminare i motivi proposti nell’interesse di NOME COGNOME.
2. Per mezzo del difensore munito di procura speciale NOME COGNOME ha concordato una pena ex art. 599 bis cod. proc. pen. previa rinuncia a tutti i motivi di appello ad eccezione di quello relativo al riconoscimento delle attenuanti generiche (pag. 57 della motivazione della sentenza impugnata). La COGNOME ha proposto ricorso contro la sentenza che ha accolto la richiesta concordata tra le parti dolendosi: in primo luogo, che la Corte di appello non abbia valutato se sussistessero le condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.; in secondo luogo, che la Corte di appello si sia limitata a recepire l’accordo senza specificare l’entità degli aumenti di pena per ciascun reato satellite e le ragioni questi aumenti.
I motivi proposti non superano il vaglio di ammissibilità. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ai sensi dell’art. 599 bis cod. proc. pen. non è ammissibile se formula doglianze relative alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, COGNOME, Rv.276102; Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278170). Fa eccezione il caso in cui, ricorrendo per cassazione contro la sentenza resa all’esito di concordato in appello, l’imputato deduca l’omessa dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla pronuncia di tale sentenza (Sez. U, n. 19415 del 27/10/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284481), ma così non è nel caso di specie.
Si deve ricordare allora: che la COGNOME ha rinunciato a tutti i motivi inerent all’affermazione della responsabilità; che, nel caso in cui il giudice di appello abbi raccolto le richieste concordemente formulate dalle parti, queste ultime non
possono dedurre in sede di legittimità difetto di motivazione o altra questione relativa ai motivi rinunciati (Sez. 3, n. 51557 del 14/11/2023, COGNOME, Rv. 285628); che, in ogni caso, il ricorso per cassazione col quale sia prospettata la violazione dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità senza indicare «elementi concreti in forza dei quali il giudice d’appello avrebbe dovuto adottare la pronuncia liberatoria dopo che l’imputato aveva rinunciato ai motivi di appello sul tema della responsabilità» è inammissibile per genericità del motivo (Sez. 2, n. 36870 del 17/04/2018, COGNOME Rv. 273431).
Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, si deve osservare che la Corte di appello ha recepito l’accordo formulato dalle parti e ha determinato l’entità dell’aumento per continuazione nella misura di mesi sei di reclusione (ridotta a mesi quattro per la scelta del rito abbreviato). Se è vero, dunque, che tale aumento è avvenuto, indistintamente, per tutti i fatti di cui al capo A19) (che ha ad oggetto continuate violazioni dell’art. 73, comma 4, d.P.R, n. 309/90), è pur vero che si tratta di un aumento modesto e che, nel capo di imputazione, non è specificamente indicato il numero delle cessioni.
Il Collegio non ignora che, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, nel determinare la pena complessiva da infliggere per più reati uniti dal vincolo della continuazione, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base il giudice deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269). Rileva, tuttavia che, come il massimo Consesso di legittimità ha ben chiarito, tale obbligo motivazionale richiede modalità di adempimento diverse a seconda dei casi e, riguardo alla determinazione della pena per i reati satellite, devono operare i principi che emergono dall’ampia giurisprudenza formatasi in materia di vizio di motivazione relativo alle statuizioni concernenti il trattamen sanzionatorio. Ha conseguentemente ritenuto di dover condividere, facendolo proprio, «il realistico giudizio espresso da Sez. 6, n. 8156 del 12/01/1996, COGNOME, Rv. 205540» secondo il quale la motivazione dell’entità dell’aumento per continuazione previsto per ciascun reato deve consentire di valutare: «che risultino rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen.; che non si sia op surrettiziamente un cumulo materiale di pene; che sia stato rispettato, ove ravvisabile, il rapporto di proporzione tra le pene, riflesso anche della relazion interna agli illeciti accertati» (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269, pag. 27 della motivazione). Nel caso in esame, poiché l’aumento di pena è stato operato nella misura di mesi sei di reclusione per cessionì avvenute «dal 26 ottobre al 4 novembre 2019» in favore di due soggetti diversi, nulla consente di ritenere che questi parametri non siano stati rispettati e il ricorso no sviluppa argomentazioni per sostenere il contrario.
Come già chiarito, NOME COGNOME non ha rinunciato ai motivi di appello in funzione dell’accordo sulla pena ex art. 599 bis cod. proc. pen. La sentenza impugnata chiarisce, infatti (pag. 5 e pag. 53), che tra le parti non è intervenuto un concordato e tuttavia il difensore di COGNOME, con dichiarazione resa in udienza alla presenza dell’imputato, ha rinunciato a tutti i motivi di appello tranne a quelli attinenti al trattamento sanzionatorio ed in specie al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla conseguente determinazione della pena.
Poiché i motivi riguardanti l’affermazione della responsabilità e la qualificazione giuridica dei fatti sono stati oggetto di esplicita rinuncia, il ricorso inammissibile nella parte in cui reitera quei motivi. Ed invero: «La rinuncia parziale ai motivi d’appello, determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, onde è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si propongono censure attinenti ai motivi d’appello rinunciati e non possono essere rilevate d’ufficio le questioni relative ai medesimi motivi. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto preclusa la possibilità di proporre o rilevare d’ufficio, in sede di legittimità, questioni attinenti alla qualificazi giuridica dei fatti, avendo l’imputato rinunciato ai motivi di appello relativ all’affermazione della responsabilità penale)» (Sez. 2, n. 47698 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 278006; nello stesso senso: Sez. 4, n. 3398 del 14/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285702).
Quanto al trattamento sanzionatorio, si deve osservare che la Corte di appello ha ritenuto di poter applicare all’imputato le attenuanti generiche e che la riduzione di pena conseguente all’applicazione di queste attenuanti è stata operata sia sulla pena inflitta per il più grave reato associativo sia sulla pena inflitta per il reat satellite di cui al capo Al), avente ad oggetto una violazione dell’art. 73, comma 1 d.P.R. n. 309/90 avvenuta a Nardò il 9 aprile 2020. Si è ritenuto, infatti, che, essendo stata determinata dal comportamento processuale dell’imputato, l’applicazione delle attenuanti generiche producesse effetti sul trattamento sanzionatorio sia con riferimento alla pena inflitta per il reato più grave che riguardo all’aumento per continuazione.
L’aumento di pena per il reato di cui al capo Al) – della cui entità il ricorrente si duole sostenendo che la Corte di appello non ne avrebbe fornito adeguata motivazione – è stato determinato nella misura di mesi otto di reclusione (anni uno di reclusione, ridotti a mesi otto ex art. 62 bis cod. pen.). Sono stati rispettati, dunque, i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen., non è stato surrettiziamente operato un cumulo materiale di pene e non può dirsi che si tratti di un aumento di tale rilevanza da rendere necessaria una specifica motivazione, tanto più se si considera che COGNOME è stato ritenuto capo e promotore dell’associazione di cui al
capo A) e la cessione contestata al capo Al) avvenne in favore di COGNOME a sua volta operante al vertice dell’associazione quale «uomo di fiducia» di COGNOME.
Il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse d NOME COGNOME sono fondati nei termini che saranno di seguito specificati. Tutti gli altri motivi, come meglio si chiarirà, sono assorbiti.
Nell’esporre i motivi di ricorso si è detto che i giudici di merito hann ritenuto provata l’esistenza dell’associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico di cui al capo A) sulla base delle concordi dichiarazioni di alcun collaboratori di giustizia e dei riscontri che queste dichiarazioni hanno trovato nell operazioni di intercettazione e nelle connesse attività di indagine, il cui esito confluito negli atti utilizzati ai fini della decisione, assunta all’esito di g abbreviato.
I giudici di merito riferiscono che le indagini al termine delle quali è sta formulata l’imputazione, presero le mosse dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME valutato particolarmente attendibile e informato delle «dinamiche delinquenziali neretine, per la lunga vicinanza alla famiglia del noto capo clan NOME NOME, detto “NOME“» (pag. 33 della sentenza impugnata). A questo proposito, la Corte di appello sottolinea che, «come emerso dalle intercettazioni e come evidenziato dal primo giudice», la collaborazione di COGNOME con la giustizia «era temuta dai membri del gruppo criminoso».
Dalla sentenza impugnata emerge (pag. 33) che NOME COGNOME ha indicato in NOME COGNOME e NOME COGNOME «i principali referenti della criminalità organizzata neretina» e ha indicato in COGNOME il «reggente della “piazza di spaccio” di Nardò», precisando che egli la gestiva avvalendosi della collaborazione di NOME COGNOME «indicato come suo “braccio destro”». COGNOME «si occupava della distribuzione della droga ai vari “pusher” e di raccogliere i soldi provent della vendita al dettaglio che consegnava a COGNOME».
Queste dichiarazioni hanno trovato conferma in quelle rese da un altro collaboratore di giustizia, NOME COGNOME, non solo riguardo al ruolo di COGNOME e COGNOME, ma anche con riferimento alla posizione di COGNOME quale referente della «criminalità organizzata neretina». Secondo COGNOME, «a Nardò il controllo dello spaccio dì droga era riconducibile a COGNOME NOME e al cognato NOME NOME (per quest’ultimo spacciava la famiglia COGNOME)». La sentenza impugnata riferisce (pag. 34) che, a detta di COGNOME, «COGNOME percepiva una percentuale sullo smercio di droga che avveniva a Nardò ed aveva un gruppo di affiliati che gli permetteva di controllare le attività illecite del territorio. Di questo gruppo, d COGNOME era il capo, faceva parte COGNOME NOME, il quale pagava la somma di
C 5.000,00 ogni mese per garantirsi la possibilità di spacciare nella “piazza” di Nardò». Il dichiarante ha riferito: che COGNOME collaborava con tale COGNOME; spesso depositava la droga presso l’abitazione di NOME COGNOME; frequentava il bar “Blend” così come altri amici di Longo; «di recente» (le dichiarazioni furono rese il 30 giugno 2020) si era «avvicinato al gruppo di COGNOME NOME».
Dalla lettura delle sentenze di merito (pag. 34 e 35 della sentenza impugnata, pagg. 110 e ss. della sentenza di primo grado) si apprende che la coesistenza nel medesimo territorio di due gruppi, a capo dei quali vi erano rispettivamente NOME COGNOME e NOME COGNOME (della quale anche COGNOME aveva parlato), fu spiegata da COGNOME sostenendo che «il gruppo capeggiato da COGNOME si occupava soprattutto dello spaccio di cocaina, non disdegnando però anche quello della marijuana (per lo più appannaggio dell’altro gruppo, capeggiato da COGNOME, da effettuarsi però nelle marine e non nel centro cittadino». COGNOME aggiunse: che l’associazione capeggiata da COGNOME era dotata di una cassa e di una vera e propria contabilità sulla quale erano riportati «i crediti del sodalizio verso gli acquirenti pusher»; che COGNOME imponeva «il “punto” a chi non si riforniva di droga dal suo gruppo per poter spacciare a Nardò».
La difesa sostiene (ed aveva già sostenuto nell’atto di appello) che i rapporti tra COGNOME e COGNOME, per come descritti da COGNOME, non depongono inequivocamente nel senso della partecipazione del ricorrente all’associazione. COGNOME, infatti, pagava una somma mensile per essere autorizzato a spacciare nella “piazza” controllata da COGNOME, sicché l’attività di spaccio da lui compiuta non può essere riferita all’associazione ed era svolta nell’esclusivo interesse di COGNOME il quale ne conseguiva l’intero profitto, detratta la somma fissa d C 5.000,00 da versare mensilmente a COGNOME: una somma che non variava col variare dei profitti di COGNOME e che l’associazione avrebbe incassato anche se COGNOME non avesse venduto o non fosse riuscito a farsi pagare o avesse subìto il sequestro dello stupefacente.
La difesa sottolinea che i giudici di merito hanno ritenuto attendibili dichiarazioni rese da COGNOME e, pertanto, avrebbero dovuto spiegare perché il pagamento del «punto» possa integrare una condotta partecipativa. In alternativa, avrebbero dovuto individuare ulteriori condotte idonee ad integrare una partecipazione quali, ad esempio, lo stabile riferimento all’associazione per rifornirsi della sostanza o l’uso, per le attività di spaccio, della stru organizzativa del gruppo, ma né la sentenza impugnata né quella di primo grado contengono univoche indicazioni in tal senso. In sintesi, secondo la difesa, COGNOME è stato ritenuto partecipe della associazione perché dalle conversazioni intercettate è emerso che aveva rapporti con alcuni associati e perché, secondo COGNOME, pagava «il punto» all’associazione, ma i giudici di merito non hanno
spiegato perché da questo potrebbe desumersi la condivisione degli scopi sociali e la affectio societatis.
5.1. Nel rispondere ai medesimi rilievi critici formulati nell’atto di appello, la sentenza impugnata ha richiamato il contenuto di alcune intercettazioni telefoniche, prima fra tutte quella intercorsa il 9 novembre 2019 tra COGNOME e NOME COGNOME (RIT 1317/19 – progr. 8341), nella quale, parlando di COGNOME, il primo disse al secondo: «sta lavorando … con noi» e aggiunse: «con la “NOME“».
Secondo la Corte di appello, questa conversazione prova uno stabile rapporto di collaborazione tra l’associazione e COGNOME e smentisce la tesi difensiva secondo la quale, poiché pagava «il punto» al sodalizio, il ricorrente poteva spacciare in proprio. Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata afferma: da un lato, che COGNOME collaborava nell’attività associativa e spacciava per conto della associazione; dall’altro – e contraddittoriamente – che COGNOME è attendibile quando riferisce che COGNOME non condivideva con gli associati una percentuale degli utili, ma versava all’associazione una somma mensile sempre uguale. La sentenza impugnata non spiega se questa contraddizione sia solo apparente e perché. Non chiarisce, infatti, per quali ragioni la frase: «sta lavorando»… «con noi»…«con la “nnaria”», sia indice inequivoco dello stabile inserimento di COGNOME nell’associazione quale venditore di marijuana e non spiega perché questa frase porti ad escludere che COGNOME spacciasse in proprio previo pagamento del «punto». Non spiega, inoltre, perché questa ricostruzione sarebbe compatibile con altre dichiarazioni di COGNOME (che i giudici di merito lo si deve ricordare – hanno concordemente valutato attendibile) secondo le quali l’associazione al vertice della quale operavano COGNOME e COGNOME, gestiva in proprio lo spaccio della cocaina, ma non quello della marijuana.
La sentenza impugnata sembra sostenere che COGNOME si rifornisse stabilmente dall’associazione, ma non spiega perché, essendo un cliente abituale, egli avrebbe dovuto versare al sodalizio un “fisso” di ben 5.000 euro al mese. Non valuta, dunque, se questa ricostruzione sia coerente con le affermazioni di COGNOME (pur ritenute attendibili e riscontrate); non considera che a COGNOME è stato contestato di aver acquistato stupefacenti da COGNOME soltanto in data 19 novembre 2019 ; non spiega perché questa ricostruzione sarebbe compatibile con la conversazione del 20 gennaio 2020 (RIT. 1118/19 – progr. 18060) dalla quale emerge che, dovendo procurare marijuana a una persona di nazionalità cinese (tale “NOME“), COGNOME (che non aveva disponibilità di tale sostanza) contattò proprio COGNOME (pag. 40 della sentenza impugnata).
In sintesi: la Corte di appello sostiene che COGNOME versava «il punto» al sodalizio (o comunque non esclude che ciò sia avvenuto), ma sostiene anche,
senza fornire di ciò una chiara spiegazione, che questo dato non sarebbe sufficiente a ritenere che COGNOME spacciava in proprio e non chiarisce perché le conversazioni riportate nella sentenza consentirebbero di escludere che ciò sia avvenuto.
6. Com’è noto, l’elemento aggiuntivo e distintivo del reato associativo ex art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, rispetto alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato di detenzione e cessione di stupefacenti, va individuato, oltre che nel carattere dell’accordo criminoso (avente ad oggetto la commissione di una serie non preventivamente determinata di delitti) e nella permanenza del vincolo associativo, anche nell’esistenza di una organizzazione che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso (Sez. 6, n. 17467 del 21/11/2018, dep. 2019, Noure, Rv. 275550; Sez. 6, n. 18055 del 10/01/2018, Canale, Rv. 273008). Si è affermato in proposito che la commissione di ripetuti reati di «spaccio» ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non prova da sola il reato associativo, ma rappresenta «un indice sintomatico dell’esistenza dell’associazione, che però va accertata con riferimento all’accordo tra i sodali, all struttura organizzativa ed alla “affectio societatis”» (Sez. 3, n. 25816 del 27/05/2022, COGNOME, Rv. 283278; Sez. 6, n. 24379 del 04/02/2015, COGNOME, Rv. 264177).
Nel caso oggetto del presente ricorso non è controversa l’esistenza della associazione, ma la possibilità di considerare COGNOME quale partecipe. Il ricorrente non contesta di aver trafficato marijuana nel territorio di Nardò neppure contesta che quella “piazza di spaccio” fosse controllata dall’associazione capeggiata da COGNOME e COGNOME. Sostiene, però, di non aver fatto parte di quel sodalizio avendo spacciato marijuana in proprio e sostiene che le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME sarebbero significative in tal senso, perché dalle stesse emerge che, chi voleva ritagliarsi una propria attività commerciale nel settore dello spaccio nel territorio neretino, poteva farl pagando a COGNOME una somma mensile e che COGNOME si era accordato in tal senso con COGNOME e COGNOME.
In tesi difensiva, le conversazioni citate nella sentenza impugnata non forniscono argomenti inequivoci di segno contrario. Pagando il «punto», infatti, COGNOME non si poneva in conflitto con i vertici della associazione e con gl associati ed è coerente, dunque, che intrattenesse contatti con loro. I vertici del sodalizio, inoltre, proprio perché COGNOME operava nella “piazza di spaccio” da loro controllata, potevano interessarsi di lui e del suo modo di operare.
Come si è detto, la sentenza impugnata non ha escluso che COGNOME pagasse ogni mese all’associazione una somma fissa per essere autorizzato a spacciare nel
territorio neretino e non ha sostenuto che quella somma fosse versata all’associazione quale corrispettivo per l’acquisto di marijuana. Dalla sentenza di primo grado emerge, inoltre (pag. 176), che COGNOME svolgeva la propria attività in collaborazione con NOME COGNOME e NOME COGNOME: un dato che, oltre a fornire ulteriore riscontro alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME – secondo il quale COGNOME collaborava con «tale COGNOME (soprannominato “COGNOME“)» e spesso «depositava la droga presso l’abitazione di un suo conoscente di nome NOME NOME» (pag. 34 della sentenza impugnata) – conferma che l’odierno ricorrente si avvaleva, per lo spaccio, di collaboratori esterni all’associazione.
In questa situazione, la Corte di appello avrebbe dovuto spiegare perché, nel caso concreto, il versamento di una somma mensile, funzionale ad ottenere l’autorizzazione a spacciare da un sodalizio che controlla il territorio, possa essere considerato alla stregua di una condotta associativa e perché tale condotta sia espressiva di “affectio societatis”.
7. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale: «In tema di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, il mutamento del rapporto tra fornitore ed acquirente, da relazione di mero reciproco affidamento a vincolo stabile – riconducibile alla “affectio societatis” -, può ritenersi avvenuto solo se il giudicante verifica, attraverso l’esame delle circostanze di fatto, e, particolare, della durata dell’accordo criminoso tra i soggetti, delle modalità azione e collaborazione tra loro, del contenuto economico delle transazioni, della rilevanza obiettiva che il contraente riveste per il sodalizio criminale, che la volon dei contraenti abbia superato la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale e sia stato realizzato un legame che riconduce la partecipazione del singolo al progetto associativo» (Sez. 5, n. 32081 del 24/06/2014, Cera, Rv. 261747; Sez. 6, n. 51500 del 11/10/2018, COGNOME, Rv. 275719; sul tema anche: Sez. 6, n. 47576 del 03/12/2024, COGNOME, Rv. 287375). La c.d. “affectio societatis”, infatti, implica, per il singolo associato, la consapevolezza di garantire con l propria condotta l’operatività dell’associazione (Sez. 1, n. 30233 del 15/01/2016, COGNOME, Rv. 267991): una consapevolezza che non necessariamente deve essere ritenuta sussistente nel caso di versamento all’associazione di una somma al fine di perseguire proprie finalità illecite.
Muovendosi all’interno di queste coordinate ermeneutiche si deve concludere che, nel caso di specie, la Corte di appello avrebbe dovuto fornire puntuale e adeguata motivazione della sussistenza in capo a COGNOME della “affectio societatis” e che, sotto questo profilo, la motivazione della sentenza impugnata è carente. Non chiarisce, infatti, se le emergenze investigative consentano di attribuire a COGNOME un contributo al funzionamento dell’associazione diverso e
ulteriore rispetto al solo pagamento del «punto» e non fornisce chiari elementi dai quali possa desumersi che egli era organicamente inserito nel sodalizio. A mero titolo esemplificativo, dalle sentenze di merito non emerge che COGNOME si sia avvalso dell’associazione come un tramite per i rifornimenti di marijuana; che abbia impiegato a tal fine i medesimi canali dei quali si avvalevano gli associati; che abbia sfruttato nella propria attività la struttura organizzativa del sodaliz che abbia ricevuto dai vertici associativi istruzioni sulle modalità di spaccio indicazioni sugli acquirenti.
Per quanto esposto, con riferimento alla posizione di NOME COGNOME, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce per nuovo giudizio sulla partecipazione al reato associativo contestata al capo A).
È ovviamente assorbito (e pertanto non deve essere esaminato) il quarto motivo, avente ad oggetto la qualificazione giuridica della associazione. Sono assorbiti anche i motivi inerenti al trattamento sanzionatorio. Lo è quindi il sest motivo, col quale il ricorrente deduce vizi di motivazione riguardo alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Col quinto motivo, il ricorrente si duole dell’entità dell’aumento per continuazione disposto in relazione al reato di cui al capo A22), e deduce violazione di legge e vizi di motivazione riguardo alla qualificazione giuridica dei fat contestati in questo capo, che non sono stati considerati di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90.
Al capo A22) della rubrica sono state contestate a COGNOME continuate cessioni di sostanza stupefacente in favore di trenta diversi acquirenti (nominativamente indicati), realizzate tra il 9 novembre 2019 e il 22 giugno 2020.
La sentenza impugnata (pag. 41) dà atto che il giudice di primo grado ha qualificato i fatti di cui al capo A22) come violazioni degli artt. 81, comma 2, cod pen. e 73, comma 4, d.P.R. n. 309/90 e afferma che quei fatti non possono essere considerati di lieve entità «trattandosi di episodi che si inseriscono nell’ambit dell’attività del sodalizio di cui al capo A)». Si tratta, dunque, di una motivazio che deve poter essere riformulata all’esito della necessaria valutazione del ruolo attribuito a COGNOME. Pertanto, anche il quinto motivo deve ritenersi assorbito.
Alla inammissibilità dei ricorsi proposti nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME consegue la condanna di questi ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che COGNOME e
COGNOME non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di loro, a norma dell’art. 616 cod. proc.
pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME NOME e condanna i predetti ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro
tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 16 aprile 2025
Il Consigliere e tensore
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