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Affectio societatis nello spaccio: la nuova sentenza

La Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi di tre individui condannati per traffico di droga. Mentre i ricorsi di due imputati sono stati respinti, quello di un terzo è stato accolto, annullando la condanna per partecipazione ad associazione a delinquere. La Corte ha ritenuto che mancasse una prova adeguata dell’affectio societatis, poiché il solo pagamento di una somma fissa a un gruppo criminale per poter operare sul suo territorio non è sufficiente a dimostrare un’effettiva partecipazione al sodalizio.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Affectio Societatis: Pagare per Spacciare è Partecipazione?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17442/2025, torna a delineare i confini del reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, concentrandosi sul concetto cruciale di affectio societatis. La pronuncia chiarisce che il semplice pagamento di una somma di denaro a un’organizzazione criminale per ottenere il ‘permesso’ di spacciare in un determinato territorio non è, di per sé, sufficiente a configurare la partecipazione al sodalizio. Un principio che impone ai giudici di merito una valutazione più rigorosa degli elementi probatori.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un’indagine su un’articolata organizzazione criminale dedita al traffico di cocaina e marijuana in un comune del leccese. Tre persone ricorrevano in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che le aveva condannate per reati legati agli stupefacenti. Mentre i ricorsi di due imputati sono stati dichiarati inammissibili per ragioni procedurali (uno relativo a un concordato in appello, l’altro a una rinuncia parziale ai motivi), l’attenzione della Suprema Corte si è concentrata sulla posizione del terzo ricorrente.

Quest’ultimo era stato condannato per partecipazione all’associazione (art. 74 d.P.R. 309/90). La sua difesa, tuttavia, sosteneva una tesi differente: l’imputato non era un membro organico del gruppo, ma un trafficante autonomo che versava una somma fissa mensile di 5.000 euro ai capi dell’organizzazione per garantirsi la possibilità di operare indisturbato nella ‘piazza’ di spaccio da loro controllata. Si trattava, in sostanza, del pagamento di un ‘punto’, una sorta di ‘tassa’ per la tolleranza delle sue attività illecite.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’imputato, annullando la sentenza impugnata con rinvio ad un’altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo giudizio. I giudici di legittimità hanno riscontrato un vizio di motivazione nella decisione di merito, ritenendola contraddittoria e carente nel dimostrare l’effettiva partecipazione dell’imputato all’associazione.

La Corte ha sottolineato come i giudici d’appello non avessero adeguatamente spiegato perché il pagamento del ‘punto’ dovesse essere interpretato come un atto di partecipazione e non, appunto, come il corrispettivo per una ‘autorizzazione’ a delinquere in autonomia.

Le Motivazioni: L’Analisi dell’Affectio Societatis

Il cuore della motivazione risiede nella corretta interpretazione dell’affectio societatis. La Cassazione ribadisce che per provare la partecipazione a un’associazione criminale non basta dimostrare un contatto o un accordo con i suoi membri. È necessario provare l’elemento soggettivo, ovvero la consapevolezza e la volontà di far parte del sodalizio, di contribuire stabilmente alla sua vita e al perseguimento dei suoi scopi illeciti.

Nel caso di specie, la sentenza d’appello appariva contraddittoria. Da un lato, confermava la versione del collaboratore di giustizia secondo cui l’imputato pagava una somma fissa, indipendentemente dai suoi guadagni; dall’altro, interpretava le conversazioni intercettate (come ‘sta lavorando con noi’) come prova di un inserimento organico. La Cassazione ha evidenziato che queste due ricostruzioni sono difficilmente compatibili: se un soggetto è un membro a tutti gli effetti, solitamente partecipa alla divisione degli utili e dei rischi, non paga una ‘tassa’ fissa. Viceversa, il pagamento di un ‘punto’ suggerisce un rapporto esterno, seppur illecito, tra due entità distinte: l’associazione che controlla il territorio e il singolo che ‘compra’ il diritto di operarvi.

I giudici di legittimità hanno concluso che la Corte d’Appello non ha fornito elementi chiari per dimostrare che l’imputato si fosse avvalso della struttura organizzativa del sodalizio o avesse ricevuto istruzioni dai vertici, elementi che avrebbero potuto indicare una reale affectio societatis.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa sentenza rafforza un principio fondamentale nel diritto penale associativo: la responsabilità per partecipazione a un’associazione criminale richiede una prova rigorosa e non può basarsi su mere presunzioni o interpretazioni ambigue. Distingue nettamente tra l’essere un ‘associato’ e l’essere un ‘cliente’ o un soggetto ‘autorizzato’ da un’organizzazione criminale. Per i giudici di merito, ciò significa dover motivare in modo puntuale e non contraddittorio la sussistenza di un legame stabile e consapevole che vada oltre un semplice accordo funzionale a specifiche attività illecite. La prova della affectio societatis rimane il perno su cui deve reggersi ogni condanna per reato associativo.

Pagare una somma fissa a un’associazione criminale per poter spacciare in un territorio controllato significa automaticamente farne parte?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il semplice pagamento di una somma fissa, una sorta di ‘tassa’ per operare in un’area controllata, non è di per sé sufficiente a dimostrare la partecipazione all’associazione. È necessario provare l’esistenza della ‘affectio societatis’, cioè la volontà di essere parte del gruppo, condividendone scopi e metodi.

Cos’è l’affectio societatis nel contesto di un reato associativo?
L’affectio societatis è l’elemento psicologico che distingue la semplice commissione di reati in concorso dalla partecipazione a un’associazione criminale. Implica la consapevolezza e la volontà del singolo di fornire un contributo stabile all’operatività del gruppo, sentendosi parte di un’entità comune e perseguendo le finalità illecite dell’associazione stessa.

È possibile impugnare in Cassazione una sentenza di appello basata su un accordo tra le parti (concordato in appello)?
Generalmente, no. La sentenza stabilisce che il ricorso in Cassazione contro una sentenza emessa ai sensi dell’art. 599 bis c.p.p. (concordato in appello) non è ammissibile se si lamenta la mancata valutazione di cause di proscioglimento. Il ricorso è ammesso solo in casi eccezionali, come la prescrizione del reato maturata prima della sentenza d’appello, cosa che non si è verificata nel caso di specie.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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