Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 21901 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 21901 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 04/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Merì il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/10/2023 della CORTE DI APPELLO DI MESSINA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 7 novembre 2022 il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, in rito ordinario, ha condannato NOME COGNOME alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione per il reato dell’art. 440 cod. pen. perché, nella qualità di titolare di un macelleria, adulterava sostanze destinate all’alimentazione rendendole pericolose per la salute pubblica, fatto avvenuto il 15 aprile 2016.
Con sentenza del 16 ottobre 2023 la Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha rideterminato la pena in 2 anni di reclusione, pena sospesa, e confermato per il resto la sentenza di primo grado.
In particolare, secondo la ricostruzione delle sentenze di merito, la mattina del 15 aprile 2016 l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE aveva effettuato un accesso presso la macelleria dell’imputato ed aveva prelevato campioni di alimenti di origine animale. Per ciò che riguarda questo giudizio, gli addetti avevano prelevato un campione di salsiccia fresca di carne suina contenuta in un vassoio per alimenti e conservata all’interno della cella frigorifero della macelleria; il campione era stato inviato al laboratorio; il laboratorio aveva individuato in esso ione solfito nel quantità di 47 mg/kg.
Sentito in esame nel corso del giudizio, l’imputato aveva sostenuto che la carne in questione era destinata allo smaltimento e sarebbe stata ritirata dalla ditta che provvedeva alla raccolta dei rifiuti organici il sabato successivo; la presenza dello ione solfito si giustificava perché la madre dell’imputato la sera precedente al controllo si era recata in macelleria per pesare del solfito da utilizzare per la fermentazione del vino che produceva in modo artigianale, lo aveva pesato utilizzando proprio il vassoio su cui poi era stata riposta la porzione di carne che era stata prelevata dai verificatori; questa circostanza era stata riferita in giudizio anche dalla madre dell’imputato, dalla moglie dell’imputato, dalla figlia dell’imputato nonché da un addetto alle pulizie della macelleria.
I giudici del merito avevano ritenuto, però, non credibile la versione data dall’imputato, e avallata dai suoi familiari, ed avevano aggiunto che in ogni caso egli, in quanto titolare di un’attività commerciale, era tenuto alla costante e perdurante sorveglianza dei prodotti custoditi all’interno del proprio locale, pervenendo, pertanto, al giudizio di responsabilità nei suoi confronti.
Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limit strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deduce violazione di norma processuale, perché la citazione a giudizio dell’imputato per la prima udienza del giudizio di appello è avvenuta mediante notifica al difensore di fiducia ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen. dopo aver tentato inutilmente la notifica all’indirizzo di “INDIRIZZO“, che, però, non era il domicilio dichiarato dall’imputato che era invece in “INDIRIZZO“; la violazione processuale determina nullità assoluta ed insanabile della sentenza di appello.
Con il secondo motivo deduce violazione di norma processuale, perché il giudizio di primo grado si è tenuto davanti al giudice monocratico, anziché a quello collegiale che sarebbe stato competente per il reato dell’art. 440 cod. pen.; illegittimamente i giudici sia di primo che si secondo grado hanno ritenuto tardiva l’eccezione, presentata nelle conclusioni del giudizio di primo grado, in quanto si
verte in un caso di incompetenza per materia ex art. 21 cod. proc. pen. che può essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per il difetto probatorio in ordine alla prova del pericolo per la salute pubblica, sia perché non sono stati disposti accertamenti tecnici sul pericolo che derivava per la salute pubblica da una modesta quantità di ione solfito rinvenuta nella carne macinata di peso inferiore ad 1 kg detenuta nella macelleria dell’imputato, sia perché essa non era destinata alla vendita essendo detenuta in una cella frigorifero.
Con il quarto motivo deduce legge vizio di motivazione per la mancata riqualificazione del fatto nel reato contravvenzionale dell’art. 5, comma 1, lettera g), I. 1962, n. 283, che era peraltro l’ipotesi originaria contestata dal pubblico ministero’, sul punto la sentenza di appello ha respinto la richiesta ma riferendosi all’articolo 5 comma 1, lettera b), mentre la richiesta di qualificazione aveva avuto ad oggetto l’articolo 5, comma 1, lett. g).
Con il quinto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle prove per la contraddittorietà delle deposizioni dei testimoni del pubblico ministero e per l’omessa valutazione dei testi a discolpa, in particolare uno dei testi del pubblico ministero ha riferito di aver prelevato la salsiccia dalla cella frigo, mentre l’altro ha escluso che il primo sia mai entrato nella cella frigo, cosa peraltro confermata dagli altri testimoni presenti al sopralluogo.
Con il sesto motivo deduce violazione di legge per la sussistenza della buona fede dell’imputato, essendo emerso in modo certo e incontestabile che l’additivo chimico contestato in rubrica era stato posto la sera prima dell’accertamento di polizia dalla madre dell’imputato sul vassoio per la pesatura per poi essere utilizzato nelle botti di vino”, l’imputato non ne sapeva nulla, quindi il fatto avvenuto indipendentemente dalla volontà dell’imputato per un comportamento negligente della madre che lo ha espressamente ammesso.
Con il settimo motivo deduce vizio di motivazione in ordine all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., si tratta di un even episodico, di una modesta quantità di ione solfito, di una modesta quantità di carne macinata, di una persona incensurata che non aveva mai subito contestazioni in 25 anni di attività della macelleria.
Con requisitoria scritta il Procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
E’ infondato anzitutto il primo motivo, contenente una eccezione di nullità della sentenza impugnata per l’omessa citazione a giudizio dell’imputato in grado di appello.
Il ricorso deduce che l’imputato aveva dichiarato domicilio in “INDIRIZZO“, ed è stato cercato inutilmente, invece, in “INDIRIZZO“, prima che il decreto di citazione per il giudizio di appello fosse notificato al difensore di fiducia in base alla norma dell’ad 161, comma 4, cod. proc. pen. L’errore dell’autorità giudiziaria sul luogo in cui effettuare il tentativo notifica al domicilio dichiarato della citazione a giudizio per il processo di appello comporterebbe la nullità della successiva notifica al difensore quale consegnatario ex lege che poggia sulla impossibilità della notifica al domicilio dichiarato.
Il motivo è infondato.
Va premesso che nel caso in esame non è in questione la conoscenza del processo, perché l’imputato è stato presente nel giudizio di primo grado e si è anche sottoposto ad esame ciò che è in questione è soltanto la regolarità della citazione a giudizio per il grado di appello.
Con riferimento a tale punto, va osservato che la nullità dedotta non è stata eccepita nel corso del giudizio di appello e viene proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione.
La circostanza assume un rilievo decisivo, in quanto il collegio, dando continuità ad un orientamento che si rinviene già nella giurisprudenza della Sezione (Sez. 1, Sentenza n. 17123 del 07/01/2016 Fenyves, Rv. 266613: Integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, la notifica del decreto di citazione a giudizio effettuata, anziché al domicilio dichiarato dall’imputato, a suo difensore di fiducia, in quanto, seppur irritualmente eseguita, essa non è inidonea a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, in considerazione del rapporto fiduciario che lega quest’ultimo al difensore In motivazione la Corte ha precisato che l’omessa notifica al domicilio eletto è causa di nullità assoluta soltanto quando essa risulti, effettivamente, inidonea a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato; in senso contrario, v. di recente, Sez. 2, Sentenza n. 31783 del 23/06/2023, Yang, Rv. 284988: È viziata di nullità assoluta la notifica eseguita al difensore ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen., non preceduta dalla verifica dell’insufficienza o dell’inidoneità della dichiarazione di elezione di domicilio dell’imputato, trattandosi di vizio che integra l’omessa citazione di quest’ultimo e che incide sulla formazione del contraddittorio. Fattispecie in cui la Corte ha annullato sia la sentenza di primo grado che quella di appello sul rilievo che la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminar
e del decreto che dispone il giudizio era stata eseguita direttamente presso il difensore e non presso il domicilio dichiarato, senza che fosse previamente verificata la sua idoneità alla ricezione delle notifiche), ritiene che la null proposta nel motivo di ricorso sia a regime intermedio e, quindi, abbia un termine massimo di deducibilità f dovendo essere eccepita nel primo atto successivo al momento in cui è avvenuta la nullità, in forza della previsione dell’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui “quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo”.
Nel caso in esame, in cui la nullità riguarda la notifica del decreto di citazione per il giudizio in appello, il limite massimo entro cui la stessa avrebbe dovuto essere eccepita era, pertanto, la prima udienza del giudizio di appello, tenutasi il 16 ottobre 2023, ove, invece, il difensore dell’imputato, pur presente, risulta essersi limitato ad ascoltare la dichiarazione della Corte di appello sulla regolarità della notifica e sulla dichiarazione di assenza dell’imputato nel giudizio di secondo grado, e non aver eccepito l’esistenza della nullità.
Il ricorso deduce si tratti, invece, di una nullità assoluta, non soggetta, in quanto tale, al limite di deducibilità di cui all’art. 182, comma 2, cod. proc. pen. ma si tratta di opinione non corretta.
Nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, in tema di notificazione della citazione all’imputato, il criterio discretivo tra le nullità assolute ed altre tipol di nullità soggette ai limiti di deducibilità dell’art. 182 cod. proc. pen. consiste ne circostanza che “la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 cod. proc. pen. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato” (Sez. U, Sentenza n. 119 del 27/10/2004, dep. 2005, Palumbo, Rv. 229539).
Sono, pertanto, affette da nullità assoluta soltanto: 1) la citazione omessa, 2) la citazione inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto notificato. E nella sistematica della pronuncia delle Sezioni Unite / Palumbo l’inidoneità della notificazione, così come eseguita in concreto, a determinare la conoscenza effettiva dell’atto notificato deve essere dedotta dall’imputato che “non può limitarsi a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto cognizione dell’atto e indicare gli specifici elementi che consentano l’esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice”.
In una pronuncia più recente, le Sezioni Unite di questa Corte, ponendosi nel solco della sentenza Palumbo, hanno anche affermato, in un caso molto simile a quello oggetto dell’odierno giudizio, che la notificazione della citazione a giudizio
mediante consegna al difensore di fiducia ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio (Sez. U, Sentenza n. 58120 del 22/06/2017, COGNOME, Rv. 271771).
La vicenda della pronuncia COGNOME è molto simile a quella odierna, perchè in entrambi i casi l’imputato aveva dichiarato domicilio, ma la notifica è stata effettuata non al domicilio dichiarato, ma al difensore quale consegnatario ex lege; nel caso della pronuncia COGNOME è stata effettuata al difensore quale consegnatario in forza della norma dell’art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., nel caso oggetto di questo giudizio, è stata effettuata al difensore quale consegnatario in base alla norma dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen.
La differenza del titolo giuridico in forza del quale la notifica è pervenuta al difensore è, però, non significativa, trattandosi in entrambi i casi di notifica che viene effettuata al difensore non per volontà dell’imputato (come nei casi in cui egli è domiciliatario ex art. 161, comma 1, cod. proc. pen.), ma per volontà della legge, e di notifica che viene effettuata al difensore indebitamente omettendo di passare prima per la notifica al domicilio dichiarato che sul piano logico prevale su quella al difensore sia nello schema dell’art. 157, comma 8-bis cod. proc. pen., che nello schema dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen.
Pertanto, nel caso in esame, non si è in presenza di una notifica “omessa”, né di una notifica inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato, ma di una notifica semplicemente “irregolare”, soggetta, pertanto, ai limiti di deducibilità previsti dall’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., che ne caso in esame non sono stati rispettati.
Il motivo è, pertanto, infondato.
E’ infondato anche il secondo motivo, in cui si deduce che il giudizio di primo grado si è tenuto davanti al giudice monocratico, anziché a quello collegiale che sarebbe stato competente per il reato dell’art. 440 cod. pen..
Il motivo è stato respinto in appello in quanto tardivo,’ il ricorso deduce che si tratta di questione di competenza per materia rilevabile in ogni stato e grado, ma si tratta di opinione che non ricostruisce correttamente il sistema processuale.
L’attribuzione di un processo al giudice monocratico o collegiale dello stesso Tribunale non è, infatti, materia di competenza del giudice, ma questione di “inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate”, che, in base all’art. 33-quinquies, cod. proc. pen. “è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manca, entro il termine previsto dall’articolo 491 comma
Entro quest’ultimo termine deve essere riproposta l’eccezione respinta nell’udienza preliminare”.
Nel caso in esame, l’eccezione è stata proposta in sede di conclusioni del giudizio di primo grado, e quindi, oltre il limite massimo della fase di cui all’ar 491 cod. proc. pen.
Il terzo ed il quarto motivo possono essere affrontati congiuntamente, perché attengono entrambi alla qualificazione giuridica del fatto; nel terzo si sostiene la mancanza nel comportamento tenuto dal ricorrente del requisito del pericolo per la salute pubblica, nel quarto la sussumibilità del comportamento tenuto dal ricorrente non nel delitto dell’art. 440 cod. pen., ma nella contravvenzione prevista dall’art. 5 I. n. 283 del 1962 (nel frattempo, peraltro, abrogata dall’art. 18 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 27).
La pronuncia di appello ha respinto il motivo sulla qualificazione giuridica del fatto, sostenendo che “i solfiti sono additivi di notoria pericolosità per la salute cui uso, proprio per tale ragione, è assolutamente vietato sulle carni fresche in forza del d.m. n. 209 del 1996, mentre in relazione ad altri tipi di alimenti ne deve essere dichiarato l’inserimento qualora utilizzati in concentrazione superiore a 10 mg/kg. La salsiccia detenuta dall’imputato nella cella frigorifero del proprio esercizio commerciale conteneva, in palese violazione del divieto di legge, ione solfito in ragione di 47 mg/kg, cioè in misura quasi cinque volte superiore al limite che con riferimento ad altre sostanze alimentari impone la segnalazione, sicché correttamente con la sentenza impugnata ne è stata ritenuta accertata la pericolosità per la pubblica incolumità”.
Il ricorso deduce che non sono stati effettuati accertamenti tecnici sul pericolo che sarebbe derivato alla salute pubblica da una così modesta quantità di ione solfito.
L’argomento è infondato, perché la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il pericolo per la salute pubblica, che costituisce evento del reato di cui all’art. 44 cod. pen. (Sez. 1, Sentenza n. 41983 del 14/10/2005, COGNOME, Rv. 232874), è oggetto di prova che è libera nelle forme, dovendo essere ricavato non necessariamente da accertamenti di carattere peritale (Sez. 4, Sentenza n. 3457 del 19/12/2014, dep. 26/01/2015, COGNOME, Rv. 262247), ma anche da “altro mezzo di prova” (Sez. 1, Sentenza n. 54083 del 21/07/2017, PM in proc. Bertuzzi, Rv. 272177).
Nel caso in esame, in cui alla base vi è comunque un accertamento tecnico svolto in via amministrativa dal personale qualificato dell’RAGIONE_SOCIALE, e che si è concluso con un’analisi di laboratorio che ha portato ad individuare anche la esatta quantità di additivo chimico presente nel prodotto, non
GLYPH
presenta vizi logici la motivazione della sentenza impugnata che ha ricavato l’esistenza del pericolo per la salute pubblica non da personali considerazioni intuitive del giudicante, ma dal raffronto tra la quantità di additivo presente nel prodotto alimentare ed i limiti previsti per il suo utilizzo in via generale ed astratt nella normativa di settore.
Ne consegue che è infondato anche il quarto motivo di ricorso, perché la esistenza del pericolo per la salute pubblica impedisce di sussumere il fatto nella contravvenzione già prevista dall’art. 5 I. n. 283 del 1962.
Il quinto motivo, che denuncia la contraddittorietà delle deposizioni dei testimoni del pubblico ministero, è manifestamente infondato.
La questione attiene alla circostanza che uno dei testimoni del pubblico ministero ha riferito in giudizio di aver prelevato la salsiccia dalla cella fri mentre l’altro ha escluso che il primo sia mai entrato nella cella frigo; il campione sarebbe stato prelevato direttamente dal titolare del negozio.
La pronuncia di appello ha risposto a questo motivo di impugnazione che è del tutto indifferente, ai fini della prova del fatto, che il campione di alimento s stato prelevato nella cella frigo dal tecnico accertatore oppure dall’imputato personalmente, posto che è pacifico, per ammissione dei testimoni a difesa e dello stesso imputato, che esso si trovasse nella cella frigo, unica circostanza rilevante ai fini della decisione.
La risposta della pronuncia di appello è esente da vizi logici, posto che la incertezza sulla persona che ha materialmente prelevato il campione dalla cella frigo non è inidonea a scardinare la motivazione sul giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato che si fonda sulla circostanza, non discussa, che il campione si trovasse nella cella frigo del suo esercizio commerciale.
Il sesto motivo, che argomenta sulla buona fede dell’imputato, è inammissibile.
I giudici del merito hanno ritenuto non credibile la versione data dai testimoni introdotti dalla difesa (che erano tutti congiunti o dipendenti dell’imputato), hanno evidenziato che non vi sono riscontri nel senso che il solfito si trovasse soltanto per una mera coincidenza nel vassoio dove era posto il campione di carne prelevato dagli ispettori, e che la versione dei fatti fornita dai testimoni della dife è anche poco verosimile. La sentenza di appello aggiunge che in ogni caso, anche a voler ritenere credibile la versione data dai congiunti dell’imputato, su questi gravava in ogni caso un onere di vigilanza che sarebbe stato violato.
Il ricorso attacca la decisione evidenziando la sovrapponibilità delle dichiarazioni dei testi a discarico introdotti dalla difesa dell’imputato, che hanno
riferito in modo concorde che era stata la madre dell’imputato a poggiare il vassoio nella cella frigo la sera prima del controllo ed a movimentare l’additivo chimico per ragioni totalmente estranee alla gestione della macelleria.
Il motivo è inammissibile perché si risolve nel chiedere una rivalutazione delle prove sottoposte allo scrutinio dei giudici del merito, e quindi in un sindacato che non è possibile in sede di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, COGNOME, Rv. 270519).
Per quanto le dichiarazioni dei testi a difesa fossero concordi nell’attribuire alla madre dell’imputato la responsabilità del comportamento negligente che poi ha portato alla contestazione nei confronti del figlio, infatti, nel giudicare no credibile la versione fornita dai testimoni della difesa, i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione di un canone di valutazione della prova dichiarativa che ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è manifestamente illogico attribuire minore attendibilità intrinseca ad un dichiarante a causa del vincolo familiare, o di interessi lavorativi, che lo lega all’imputato (cfr sul punto Sez. 2, Sentenza n. 43349 del 17/10/2007, COGNOME, Rv. 238806).
Non essendo emerse manifeste illogicità nel percorso argomentativo della sentenza impugnata, il motivo si risolve nel chiedere una mera rivalutazione del materiale probatorio portato all’attenzione del giudice.
Il settimo motivo, dedicato alla mancata applicazione della causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen., è inammissibile per difetto di specificità.
La sentenza impugnata ha, infatti, respinto l’analogo motivo di appello rilevando che il titolo di reato non consente l’applicazione dell’art. 131-bis cod. né nella versione vigente al momento di commissione del reato (per la pena edittale massima superiore al limite di applicazione dell’istituto), né nella versione vigente al momento della decisione (per la pena edittale minima superiore al limite di applicazione dell’istituto).
Il ricorso non prende posizione sulla risposta data dalla sentenza impugnata al motivo di appello, e deduce sulla episodicità del fatto, sulla quantità contenuta della carne in cui è stato trovato l’additivo, e, più in generale, sulla minima rilevanza del fatto, che, però, non era la ragione per cui era stata respinta la istanza nella sentenza impugnata.
Il ricorso si rivela, pertanto, privo del requisito della specificità estrinseca d motivi di impugnazione (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 08/01/2019, COGNOME, Rv. 276916, nonché, in motivazione, Sez. U, Sentenza n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268823),
atteso che lo stesso non si confronta con il percorso logico del provvedimento impugnato, ed, in quanto tale, è inammissibile.
Il ricorso è, nel complesso, infondato. Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 4 aprile 2024.