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Accesso abusivo sistema informatico: la Cassazione decide

Un agente di polizia, condannato per accesso abusivo a sistema informatico, ha presentato ricorso straordinario sostenendo che la Corte avesse ignorato testimonianze a suo favore. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando che l’agente era pienamente consapevole dello scopo illecito della sua azione, rendendo irrilevante il presunto ordine di un superiore. La sentenza sottolinea che la prova della consapevolezza può derivare dalle modalità dell’accesso e dalla successiva condotta dell’agente.

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Pubblicato il 19 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Accesso abusivo a sistema informatico: l’ordine del superiore non sempre giustifica

Il reato di accesso abusivo a sistema informatico, disciplinato dall’art. 615-ter del codice penale, rappresenta una fattispecie di crescente rilevanza, soprattutto quando coinvolge pubblici ufficiali che, per ragioni di servizio, hanno accesso a banche dati riservate. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sent. N. 1225/2024) offre importanti chiarimenti sui limiti della condotta legittima e sulla rilevanza dell’elemento soggettivo, anche in presenza di un presunto ordine gerarchico.

I Fatti di Causa: Un Controllo Sospetto

Il caso riguarda un agente della Polizia di Stato condannato in via definitiva per aver effettuato un accesso alla banca dati SDI al fine di ottenere informazioni sulla targa di un’autovettura. L’accesso non era motivato da esigenze di servizio, ma era stato eseguito su richiesta di un collega per favorire un terzo soggetto, il quale temeva di essere sottoposto a indagini. Lo scopo illecito era, infatti, verificare se il veicolo appartenesse a una forza di polizia sotto copertura.

La Difesa e il Ricorso Straordinario

L’agente, tramite i suoi legali, ha proposto un ricorso straordinario per errore di fatto ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. avverso la precedente sentenza di Cassazione. La difesa sosteneva che i giudici avessero commesso un errore non percependo argomenti difensivi decisivi, in particolare l’omessa valutazione delle dichiarazioni testimoniali del suo superiore gerarchico e di un altro collega. Secondo la tesi difensiva, queste testimonianze avrebbero dimostrato che l’accesso era avvenuto su ordine del superiore per verificare un veicolo sospettato di essere coinvolto in una rapina, configurando quindi un’azione legittima svolta per ragioni di servizio.

La Decisione della Corte sull’accesso abusivo a sistema informatico

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno chiarito che la ricostruzione dei fatti si era basata principalmente su elementi oggettivi e inconfutabili come le intercettazioni, le dichiarazioni degli imputati e i log di accesso al sistema SDI, relegando le testimonianze a un ruolo secondario.

La Corte ha riesaminato i punti sollevati dalla difesa, concludendo che le testimonianze invocate non erano decisive. Anche ammettendo che il superiore avesse chiesto all’agente di “dare una mano” al collega per un controllo, ciò non equivaleva a un ordine specifico e legittimo di accedere al sistema per finalità estranee al servizio.

Le Motivazioni

La motivazione della Corte si fonda su un punto cruciale: la piena consapevolezza dell’agente circa l’abusività dell’accesso. È emerso che il collega richiedente aveva spiegato all’imputato il vero scopo del controllo, ovvero favorire un conoscente. Questa consapevolezza è stata ulteriormente provata da due elementi:

1. Le modalità dell’accesso: L’agente non ha eseguito una verifica standard, ma si è diretto subito alla banca dati della Motorizzazione Civile, una procedura mirata a scoprire se il veicolo fosse riconducibile a un ente e quindi, potenzialmente, un’auto di copertura.
2. La condotta successiva: Una volta appurata la natura sospetta del veicolo, l’agente non ha riferito nulla al proprio superiore, come avrebbe dovuto fare se avesse agito legittimamente. Questo silenzio è stato interpretato come una conferma della sua complicità nell’azione illecita.

La Corte ha inoltre specificato che, in tema di ricorso straordinario, l’omessa valutazione di una prova non costituisce un errore di fatto rilevante se quella prova non è “decisiva”, cioè in grado di modificare da sola l’esito del giudizio. In questo caso, le testimonianze non avrebbero potuto sovvertire il solido quadro probatorio che dimostrava la conoscenza dello scopo illecito da parte dell’agente.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: l’appartenenza a un corpo di polizia e la disponibilità di strumenti investigativi avanzati impongono un dovere di diligenza e legalità ancora più stringente. L’ordine generico di un superiore non può essere invocato come scudo per giustificare un’azione della quale si conosce la finalità illecita. La consapevolezza dell’agente di violare i doveri d’ufficio per scopi privati è l’elemento che definisce l’abusività dell’accesso e fonda la responsabilità penale, come chiaramente stabilito dalla Suprema Corte.

Un ordine del superiore giustifica sempre un accesso abusivo a sistema informatico?
No, la sentenza chiarisce che se l’agente è consapevole dello scopo illecito dell’accesso, un ordine generico di un superiore di “dare una mano” a un collega non costituisce una scusante. La consapevolezza dell’abusività dell’atto prevale sulla gerarchia.

Cosa deve dimostrare la difesa in un ricorso straordinario per errore di fatto?
La difesa deve dimostrare che la Corte di Cassazione è incorsa in un errore percettivo su un fatto processuale e che tale errore è stato ‘decisivo’, ovvero che la sua corretta valutazione avrebbe portato a una decisione diversa. Non è sufficiente lamentare la mancata valutazione di una prova.

Quali elementi hanno provato la colpevolezza dell’agente nel caso specifico?
La colpevolezza è stata provata dalla sua piena consapevolezza dello scopo illecito dell’accesso (comunicatogli dal collega), dalle specifiche modalità tecniche della ricerca (mirata a scoprire auto di copertura) e dalla sua successiva omissione di riferire le informazioni critiche al superiore, a dimostrazione che non stava agendo per ragioni di servizio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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