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Accesso abusivo a sistema informatico e aggravanti

Un funzionario pubblico è stato condannato per accesso abusivo a sistema informatico per aver consultato il database dell’Ente di Riscossione senza una giustificazione lavorativa. La Corte di Cassazione ha rigettato il suo ricorso, confermando che l’assenza di ragioni d’ufficio è sufficiente a provare l’abuso. La Corte ha inoltre validato l’applicazione dell’aggravante del sistema di pubblico interesse, anche se non utilizzata per il calcolo della pena in primo grado.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Accesso abusivo a sistema informatico: la Cassazione fa il punto

Il reato di accesso abusivo a sistema informatico, disciplinato dall’art. 615-ter del codice penale, è una fattispecie sempre più rilevante nell’era digitale, specialmente quando coinvolge pubblici ufficiali e database sensibili. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 10424/2024) offre importanti chiarimenti sui confini della liceità dell’accesso da parte di un dipendente e sulla corretta applicazione delle circostanze aggravanti, delineando i principi sull’onere della prova.

I fatti del caso: accessi sospetti al database fiscale

Il caso ha riguardato un funzionario dell’Ente di Riscossione, accusato di essersi introdotto abusivamente nel sistema informatico dell’ente per consultare le posizioni debitorie di due società e di un soggetto privato. Secondo l’accusa, le informazioni ottenute sarebbero state poi comunicate a un terzo. L’imputato era stato inoltre accusato di corruzione, reato dal quale è stato poi assolto.

La decisione dei giudici di merito

La Corte d’Appello aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado. Aveva confermato la condanna per due episodi di accesso abusivo a sistema informatico, ritenendo che l’imputato non avesse alcuna ragione d’ufficio per effettuare quelle specifiche interrogazioni al sistema. Tuttavia, lo aveva assolto per un terzo episodio di accesso, poiché in quel caso era emersa una potenziale giustificazione lavorativa (una recente comunicazione dell’Agenzia su un’istanza di rateizzazione), tale da generare un ragionevole dubbio sulla natura abusiva dell’accesso.

I motivi del ricorso in Cassazione

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione lamentando due vizi principali:
1. Travisamento della prova e vizio di motivazione: Sosteneva che, come per l’episodio per cui era stato assolto, anche per gli altri due non vi fosse prova di contatti con il terzo soggetto. Lamentava inoltre un’inversione dell’onere della prova, affermando che fosse l’accusa a dover dimostrare la sua colpevolezza e non lui a dover provare la liceità del suo operato.
2. Violazione del divieto di reformatio in peius: Contestava alla Corte d’Appello di aver applicato l’aggravante del sistema di pubblico interesse, a suo dire implicitamente esclusa in primo grado, peggiorando così la sua posizione.

L’accesso abusivo a sistema informatico e l’onere della prova

La Corte di Cassazione ha dichiarato il primo motivo di ricorso infondato, sottolineando la logicità e coerenza della motivazione della Corte d’Appello. I giudici di legittimità hanno chiarito un punto cruciale: la distinzione tra gli episodi non era illogica. Per i due accessi che hanno portato alla condanna, mancava qualsiasi ragione d’ufficio che potesse giustificare l’interrogazione al database. Al contrario, per l’accesso che ha portato all’assoluzione, esisteva un contesto lavorativo plausibile che introduceva un ‘ragionevole dubbio’.

La Corte ha inoltre respinto la tesi dell’inversione dell’onere della prova. Non è stato chiesto all’imputato di provare la sua innocenza, ma si è logicamente desunta la natura abusiva dell’accesso dall’assenza totale di risultanze che potessero collegare tali operazioni alle sue mansioni d’ufficio.

L’aggravante del pubblico interesse e il divieto di ‘reformatio in peius’

Anche il secondo motivo è stato rigettato. La Cassazione ha spiegato che il divieto di peggiorare la posizione dell’imputato in appello non è stato violato. L’aggravante dell’accesso a un sistema di ‘interesse pubblico’ era stata correttamente contestata fin dall’inizio nel capo d’imputazione. Il fatto che il giudice di primo grado non l’avesse considerata nel calcolo della pena non significava averla esclusa. La pena base, infatti, era stata calcolata partendo dal reato più grave (all’epoca la corruzione), assorbendo la valutazione delle aggravanti del reato meno grave.

Inoltre, la difesa non aveva sollevato una specifica contestazione su tale aggravante nel giudizio d’appello, rendendo la questione inammissibile in sede di legittimità.

Le motivazioni della Corte

La Suprema Corte ha stabilito che la motivazione della sentenza impugnata è immune da vizi logici e contraddizioni, e quindi non sindacabile in sede di legittimità. Per la Corte, la differenziazione operata dal giudice di merito tra gli accessi giustificati da un ‘ragionevole dubbio’ legato a pratiche d’ufficio e quelli privi di qualsiasi giustificazione è corretta. L’assenza di una ragione lavorativa per interrogare il sistema informatico è un elemento sufficiente a fondare l’ipotesi accusatoria e a condurre all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Riguardo all’aggravante, la sua mancata valorizzazione nel calcolo della pena in primo grado non equivale a una sua esclusione, soprattutto se era stata formalmente contestata e non oggetto di specifico motivo di appello.

Le conclusioni

Con questa sentenza, la Corte di Cassazione ribadisce due principi fondamentali in materia di accesso abusivo a sistema informatico da parte di un pubblico ufficiale. Primo: l’abuso si configura quando l’accesso avviene al di fuori delle mansioni e delle ragioni d’ufficio, e l’assenza di tali ragioni può essere logicamente dedotta dalle circostanze. Secondo: l’applicazione di un’aggravante in appello è legittima se questa era già contestata e non specificamente impugnata, senza che ciò violi il divieto di reformatio in peius.

Quando un accesso a un sistema informatico da parte di un dipendente è considerato abusivo?
L’accesso è considerato abusivo quando il dipendente, pur avendo le credenziali per entrare nel sistema, lo interroga per ragioni estranee alle sue mansioni e ai suoi compiti d’ufficio, violando così i limiti e le finalità per cui gli è stato conferito il potere di accesso.

A chi spetta dimostrare che l’accesso era per motivi di lavoro?
L’onere della prova della colpevolezza spetta sempre alla pubblica accusa. Tuttavia, la Corte può logicamente dedurre la natura abusiva dell’accesso dalla totale assenza di elementi che lo riconducano a una qualsiasi attività lavorativa, soprattutto quando l’imputato non fornisce alcuna spiegazione alternativa plausibile.

Un’aggravante può essere considerata in appello se il giudice di primo grado non l’ha usata per calcolare la pena?
Sì, se l’aggravante era stata regolarmente contestata nel capo d’imputazione e la difesa non ha sollevato uno specifico motivo di appello per chiederne l’esclusione. Il fatto che il primo giudice, nel calcolare la pena complessiva partendo da un reato più grave, non abbia menzionato l’aggravante del reato minore non significa che l’abbia implicitamente esclusa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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