Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 3735 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 3735 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Savignano sul Rubicone il 12/07/1983
avverso la sentenza del 21/12/2023 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito, per il ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 21 dicembre 2023, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Forlì, emessa all’esito di giudizio abbreviato, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di NOME COGNOME per i reati di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen. e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, e, ritenuta la continuazione tra il reato continuato per cui si procede e quello già 4
(
giudicato con sentenza del GUP presso il Tribunale di Forlì (n. 34/2017 del 25 gennaio 2017, irrevocabile il 23 febbraio 2017), ha rideterminato la pena nella misura complessiva di un anno e otto mesi di reclusione, con concessione del beneficio della sospensione condizionale.
Secondo quanto ricostruito dalla sentenza impugnata, NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE“, al fine di evadere le imposte sul reddito (relativamente alle imposte IVA, già in primo grado era stata pronunciata assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”), avrebbe omesso di presentare le dichiarazioni annuali relative ai periodi di imposta: 1) 2012, pur avendo realizzato redditi pari a 738.760,51 euro, con evasione di IRPEF per 310.665,66 euro (capo A); 2) 2013, pur avendo realizzato redditi pari a 563.582,12 euro, con evasione di IRPEF per 235.510,26 euro (capo B); 3) 2014, pur avendo realizzato redditi pari a 523.532,37 euro, con evasione di IRPEF per 218.288,76 euro (capo C); 4) 2015, pur avendo realizzato redditi pari a 341.389,23 euro, con evasione di IRPEF per 139.967,27 euro (capo D).
Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe NOME COGNOME con atto sottoscritto dall’Avv. NOME COGNOME articolando due motivi, preceduti da una premessa sullo svolgimento della vicenda processuale.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 189, 192, comma 2, 530, comma 2, e 533 cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avuto riguardo al ritenuto superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 200
Si deduce che il volume d’affari dell’imputato è stato ricostruito sulla base di un mero calcolo induttivo extracontabile, in assenza di elementi di prova idonei a provare “al di là di ogni ragionevole dubbio” il superamento della soglia di punibilità di 50.000 euro richiesto dall’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché in assenza di un’idonea motivazione volta a dimostrare l’attendibilità di tale accertamento.
In particolare, si evidenzia che: a) sono state prese come riferimento un esiguo numero di fatture, il c.d. “spesometro” e un contratto di subappalto; b) solo su tali fatture, pari per la precisione a sei, è stato svolto un controllo incrocia con la ditta “RAGIONE_SOCIALE; c) non sono state, invece, prese in considerazione le precedenti dichiarazioni dei redditi, dalle quali emergevano redditi imponibili ai fini delle imposte dirette di gran lunga inferiori rispetto a quelli accertati nel presente procedimento; d) non è stata fornita prova dell’occultamento delle somme evase, idonea a giustificare l’ammontare di utile presuntivamente accertato, risultando l’imputato titolare esclusivamente di una modesta casa di abitazione in comunione con la moglie; e) i dati rilevabili dal
c.d. “spesometro” sono stati ritenuti rilevanti pur essendo qualificati semplicemente come “verosimili”; f) il giudice d’appello non ha svolto alcuna autonoma valutazione degli elementi forniti dalla Procura e dalla Guardia di Finanza, limitandosi a richiamarli acriticamente; g) le piccole dimensioni della ditta non rendono verosimile un’evasione, nell’arco di quattro anni, di oltre due milioni di euro (circostanza desumibile anche dagli studi di settore relativi all’ambito d’impresa dell’imputato).
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc, pen., avuto riguardo al ritenuto superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che la motivazione in ordine al superamento della soglia di punibilità è tautologica, contraddittoria ed approssimativa, perché si basa su dati, quelli ricavabili dal c.d. “spesometro”, che: a) sono definiti «verisimili», sebbene connessi a rapporti con clienti ì quali non hanno fornito risposte ai questionari della Guardia di Finanza; b) sono stati utilizzati anche per contestare un’evasione dell’IVA, la cui sussistenza è stata esclusa già dal Giudice di primo grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.
Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, o comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nei due motivi di ricorso, tra loro strettamente connesse, e perciò da esaminare congiuntamente, le quali contestano l’affermazione di responsabilità per i reati ascritti, deducendo che gli stessi sono stati ritenuti provati sulla base di mere presunzioni, fondate essenzialmente su dati, quelli desunti dal c.d. “spesometro”, non riscontrati in concreto ed utilizzati anche per contestare l’evasione dell’IVA, invece esclusa già dalla sentenza di primo grado.
2.1, Ai fini dell’esame delle censure indicate, un chiarimento preliminare, da un punto di vista metodologico, appare utile.
Il Collegio condivide il principio, oggetto di costante affermazione in giurisprudenza, secondo cui, in tema di reati tributari, per il principio di atipic dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (così, per tutte, Sez. 3,
36207 del 17/04/2019, COGNOME, Rv. 277581 – 01, e Sez. 3, n. 28710 del 19/04/207 COGNOME, Rv, 270476 – 01).
Si può aggiungere, che, in coerenza con questo principio, e ad ulteriore precisazione dello stesso, si è anche precisato che, nel caso in cui i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie siano individuati sulla base non presunzioni, ma di precisi elementi documentali, quali le entrate registrate nella contabilità o nei conti correnti bancari, i correlativi costi possono esser riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 3, n. 17214 del 14/03/2023, Gallo, Rv. 284554 – 01).
2.2. La sentenza impugnata offre delle precise indicazioni a fondamento dell’affermazione della responsabilità dell’attuale ricorrente per i reati di omessa dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi conseguiti negli anni 2012, 2013, 2014 e 2015.
La Corte d’appello rappresenta, innanzitutto, che l’imputato non ha esibito alcuna documentazione contabile per gli anni dal 2012 al 2015 in sede di verifica fiscale, e, poi, però, successivamente, ha prodotto 200 fatture emesse dalla sua ditta negli anni in questione.
Il Giudice di secondo grado, quindi, evidenzia che: a) l’individuazione dei clienti e dei fornitori della ditta dell’attuale ricorrente è avvenuta acquisendo i da desumibili dal c.d. “spesometro integrato”; b) i controlli effettuati presso clienti fornitori ha consentito di reperire numerose fatture attive emesse dalla ditta dell’attuale ricorrente; c) i ricavi della ditta dell’attuale ricorrente sono ricostruiti anno per anno sulla base delle fatture attive acquisite presso i clienti solo in minima parte anche sulla base degli ulteriori importi ricavati dal c.d. “spesometro integrato”, con riferimento ai clienti che non hanno risposto ai questionari; d) i dati desunti dal c.d. “spesometro integrato” sono da reputare attendibili perché gli stessi sono risultati corrispondenti, e in alcuni casi addiritt inferiori, rispetto agli importi delle operazioni commerciali indicate dai clienti ch hanno risposto ai questionari; e) i costi della ditta dell’attuale ricorrente, assenza di altre indicazioni, sono stati anch’essi calcolati sulla base dei dati desumibili dal c.d. “spesometro integrato”; f) le dichiarazioni dei redditi relativ agli anni precedenti non hanno alcun rilievo sia perché l’andamento degli affari può variare, sia perché la dichiarazione relativa all’anno 2011 è stata presentata avvalendosi di fatture false per l’importo di 198.800,00 euro, ed in relazione ad essa l’attuale ricorrente ha chiesto ed ottenuto l’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen.
Sulla base degli elementi e delle considerazioni di cui si è appena detto, la Corte distrettuale ha concluso che l’attuale ricorrente ha omesso di presentare le
dichiarazioni annuali relative ai periodi di imposta: 1) 2012, pur avendo realizzato ricavi pari a 743.760,50 euro, e sopportato costi pari a 5.398,76 euro, con evasione di IRPEF per 310.665,66 euro; 2) 2013, pur avendo realizzato ricavi pari a 572.173,08 euro, e sopportato costi pari a 8.590,96 euro, con evasione di IRPEF per 235.510,26 euro; 3) 2014, pur avendo realizzato ricavi pari a 533.600,00 euro, e sopportato costi pari a 10.067,63 euro, con evasione di IRPEF per 218.288,76 euro; 4) 2015, pur avendo realizzato redditi pari a 343.357,00 euro, e sopportato costi pari a 1.967,76 euro, con evasione di IRPEF per 139.967,27 euro.
Per completezza, sì può aggiungere che la sentenza di primo grado ha spiegato l’assoluzione dalle accuse per l’evasione dell’IVA in termini perfettamente compatibili con l’accertamento dell’evasione dell’IRPEF. Ha infatti osservato che le fatture emesse dall’attuale ricorrente contenevano tutte la dicitura «manodopera esente da IVA ai sensi dell’art. 17 comma 6 DPR 633/1972», e, quindi implicavano l’operatività del meccanismo della c.d. inversione contabile, comportante lo spostamento dell’imposta sul valore aggiunto direttamente sul destinatario della fattura.
2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
La Corte d’appello, infatti, ha posto a base della decisione una motivazione fondata su puntuali e plurimi elementi di fatto apprezzati sulla base di accettabili massime di esperienza, ed ha risposto a tutte le principali obiezioni della difesa. In particolare, la difesa non ha nemmeno allegato il travisamento della prova con riferimento agli elementi fattuali posti a base della sentenza, e, a fronte della puntuale ricostruzione delle operazioni commerciali effettuate dalla ditta dell’attuale ricorrente, le deduzioni sull’assenza di prova in ordine all’occultamento delle somme evase non sono certo decisive, non essendo necessario compiere accertamenti in ordine a tale aspetto ai fini della prova del reato di omessa dichiarazione.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 20/11/2024.