Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 7381 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 7381 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a Napoli il 11/10/1965
COGNOME NOME nato a Napoli il 17/05/1963
inoltre:
COGNOME NOME nata a Napoli il 29/01/1930
avverso l’ordinanza del 19/09/2024 della Corte d’appello di Napoli
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto dei ricorsi;
lette le note di replica alla requisitoria scritta del Procuratore Generale, depositate dal difensore, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto a questa Corte di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, insistendo in subordine per l’annullam ento dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 19 settembre 2024, la Corte d’appello di Napoli rigettava la richiesta proposta da NOME COGNOME e NOME COGNOME con cui i predetti chiedevano la sospensione del procedimento e del l’ordine di demolizione conseguente alla sentenza
della Corte d’appello di Napoli del 16 settembre 1997, irr. 15 novembre 1997, fino alla pronuncia della CGUE sulla richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE con riferimento alla questione del legittimo affidamento del terzo derivante dal rilascio del permesso di costruire relativo all’immobile abusivamente realizzato.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia degli istanti, deducendo tre distinti motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173, disp. Att., cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con un primo motivo, il vizio di motivazione in relazione all’omesso esame di un motivo di ricorso.
In sintesi, premette la difesa dei ricorrenti che con l’incidente di esecuzione erano stati posti due motivi; il secondo di essi, con cui era stata sollevata l’istanza di sospensione per accertato pericolo concreto ed immediato di pregiudizio strutturale ad un immobile storico, legittimo in aderenza all’immobile oggetto dell’esecuzione, come conseguenza della demolizione, supportata da c.t. di parte, non sarebbe stato oggetto di esame da parte del giudice di esecuzione, con conseguente nullità del provvedimento impugnato.
2.2. Deduce, con un secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’obbligo di trasmissione degli atti alla CGUE di cui all’art. 267 TFUE.
In sintesi, premesso che il legittimo affidamento del terzo costituirebbe ormai un principio fondamentale della Comunità europea, tanto da essere equiparato per efficacia vincolante, diretta ed immediata negli ordinamenti nazionali degli Stati membri alle disposizioni dei Trattati, sostiene la difesa dei ricorrenti che il rilascio dei titoli abilitativi edilizi da parte delle amministrazioni locali in base alla legge n. 724 del 1994, si fondava sul dato testuale della norma che in astratto consentiva l’ins istenza su un unico corpo di fabbrica di più domande di condono, purché ciascuna di esse nei limiti di 750 mc. L’interpretazione, diversamente, seguitane da parte della giurisprudenza di legittimità che avrebbe avuto effetto abrogativo della normativa, avrebbe per la difesa determinato un conflitto istituzionale relativamente alle concessioni edilizie in sanatoria già rilasciate fino alla esplicazione di tale indirizzo giurisprudenziale, che non avrebbe potuto prescindere dal principio del legittimo affidamento del terzo, da indentificarsi nel cittadino che ha proceduto alla legittimazione dell’abuso edilizio con la valutazione di procedibilità ed ammissibilità dell’autorità amministrativa e con il pagamento di ingenti costi n termini di oblazione e oneri concessori. Censurabile sarebbe, sul punto, la motivazione del giudice dell’esecuzione che ha escluso la violazione del legittimo affidamento del terzo per quattro ordini di ragioni: 1) non può parlarsi di terzietà degli attuali istanti; 2) nessun valore possono avere per concretizzare tale legittimo affidamento i permessi di costruire rilasciati del 2017; 3) il principio del legittimo affidamento presuppone il non aver il terzo provocato la determinazione del provvedimento amministrativo con indicazioni false ed
incomplete; 4) esistenza di un inderogabile interesse pubblico. Quanto al punto sub 1) sarebbe evidente che gli istanti assumono la posizione di terzo nei confronti degli atti illegittimi della pubblica amministrazione, in quanto destinatari delle conseguenze ablatorie della madre, imputata e condannata per l’abuso edilizio e successivamente deceduta, così come era terza anche quest’ultima rispetto agli atti della pubblica amministrazione, in quanto destinataria di un ordine demolitorio incompatibile con l’affidamento derivato dal permesso di costruire. Quanto al punto sub 2), perché l’inidoneità dei permessi di costruire viene relazionata alla sentenza irrevocabile di condanna (15/11/1997) ed all’ingiunzione a demolire emessa dalla Procura Generale in data 8/05/2013, ma si tratterebbe di motivazione censurabile anzitutto perché la sentenza di condanna era intervenuta mentre era in corso l’istruttoria amministrativa finalizzata al rilascio dei permessi di costruire in sanatoria e non vi era alcun obbligo per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento in attesa della emanazione del titolo legittimante; dall’altro, perché la comunicazione dell’ingiunzione a demolire reca sempre una riserva che non vi siano atti amministrativi incompatibili con l ‘ingiunzione a demolire, sicché gli incidenti di esecuzione successivamente promossi erano finalizzati alla dimostrazione che sussistevano atti amministrativi incompatibili con la demolizione. Quanto, ancora, al punto sub 3), si osserva come la circostanza che attraverso l’istruttoria svolta in sede di esecuzione fosse emerso che le misure dei manufatti richiesti per il condono differivano dalle misure riportate nelle istanze di condono fossero diverse non può considerarsi ostativa, atteso che le misure riportate nelle istanze di condono erano coincidenti con quelle riportate nei verbali di sequestro dei manufatti e nella stessa imputazione oggetto della sentenza di condanna; dunque, se errore di misurazione vi è stato, lo stesso è incolpevole e non ascrivibile ad una condotta dolosa del terzo. Quanto, infine, al punto sub 4), si osserva come l’interesse pubblico aveva già costituito oggetto di una valutazione da parte dell’autorità amministrativa (la Commissione edilizia integrata BB.A.) che, nel rilasciare parere favorevole al rilascio del permesso di costruire, aveva evidenziato come l’immobile in questione non avrebbe alterato il contesto paesaggistico esistente, così escludendo con tale ‘nulla osta’ l’esistenza di un inderogabile interesse pubblico.
2.3. Deduce, con il terzo ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 3, Cost.
In sintesi, si censura l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato che, richiamando tale disposizione, afferma che la stessa è funzionale ad evitare che astuzie procedimentali consentano la sostanziale disapplicazione della normativa, osservandosi però che tale interpretazione finirebbe per creare una disparità di trattamento tra soggetti che restano coinvolti in una vicenda giudiziaria e soggetti che, presentando sanatorie edilizie che sfuggono ad ogni controllo, sono sottratte a quel controllo ‘giurisprudenziale’
e restano nell’alveo di quello amministrativo, dove l’interpretazione della norma è stata più ampia.
In data 18 dicembre 2024, il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso.
In particolare, ha osservato il Procuratore generale come il ricorso è infondato. Con motivazione ampia ed articolata, la Corte di appello ha spiegato che l’obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all’interpretazione delle norme comunitarie alla Corte di giustizia dell’Unione europea non sussiste allorché il giudice nazionale abbia constatato che la questione non sia pertinente né rilevante, che la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e che la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Sez. 3, n. 33101 del 07/06/2022, Rv. 283519 – 02) e che, nel caso di specie, non sussiste alcun legittimo affidamento in permessi in sanatoria annullati dal Comune di autotutela, con un provvedimento, a sua volta, annullato dal TAR per vizi procedurali, né una lesione del principio di legalità. Il ricorrente, inoltre, ha lamentato la mancanza della motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla questione che sarebbe stata posta concernente il pericolo di immediato pregiudizio strutturale ad un immobile storico posto in aderenza all’immobile oggetto dell’esecuzione. Il tema, peraltro, sembra sia stato considerato dal collegio, laddove è stato rilevato che ‘i precedenti incidenti di esecuzione aventi ad oggetto il medesimo ordine di demolizione (RESA n. 122 del 2012) risultano definitivi da ultimo con ordinanza della Corte d’appello di Napoli del 31/03/2023, divenuta irrevocabile anche a seguito di pronuncia della Corte di Cassazione dell’11/10/2023, provvedimenti ben noti alle parti e da intendersi qui riportati per costituire parti integrante del presente provvedi mento’.
In data 6 febbraio 2025 sono pervenute note di replica alla requisitoria scritta del Procuratore generale a firma del difensore dei ricorrenti, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto a questa Corte di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, insistendo in subordine per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, trattati cartolarmente in assenza di richiesta di discussione orale, sono inammissibili.
Il primo motivo, su cui ha insistito la difesa dei ricorrenti anche nella memoria depositata in limine litis , è inammissibile.
Ed infatti, al fine di impedire l’esecuzione dell’ordine demolitorio è comunque necessaria l’istanza ex art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 d el 2001, solo all’esito della cui presentazione il giudice dell’esecuzione, investito dall’istanza di sospensione e/o di revoca dell’ordine di demolizione impartito con la sentenza irrevocabile di condanna, è tenuto a verificare i presupposti contemplati dalla norma in esame, a tenore dalla quale, “qualora, sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile” prevede l’irrogazione di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere.
È stato inoltre affermato che l’impossibilità della demolizione, che autorizza la disciplina di cui all’art. 33, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere oggettiva e assoluta; a tal proposito, laddove le opere abusive siano strutturalmente connesse con quelle abusive, occorre valutare se il ripristino comprometta la stabilità dell’intero edificio: evenienza, quest’ultima, che si rappresenta l’unico limite a detto ripristino (Sez. 3, n. 43250 del 02/11/2022, Rv. 283736 -01).
Nel caso di specie, non solo non risulta che alcuna istanza ex art. 33, comma 2, TU edilizia sia stata mai presentata, ma soprattutto risulta chiaramente che non ricorrevano nemmeno i presupposti per la sua presentazione, che, come è reso palese dal disposto dell’art. 33 citato, è consentita solo per gli interventi e le opere di ‘ristrutturazione edilizia’ di cui all’articolo 10, comma 1, TU edilizia eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, non invece, come nel caso di specie, di interventi di ‘nuova costruzione’ come quello in esame, che venne realizzato ex novo tra il gennaio 1991 e l’ottobre 1993 dalla de cuius COGNOME NOME
Ne discende, pertanto, che, difettando già all’epoca di presentazione dell’istanza di sospensione davanti al giudice dell’esecuzione le condizioni di legge, il motivo avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile da quest’ultimo giudice. Trova pertanto applicazione il consolidato principio, applicabile anche alla materia degli incidenti di esecuzione, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (tra le tante: Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, dep. 2013, Rv. 256314 -01).
3. Anche il secondo motivo è inammissibile perché manifestamente infondato.
Ed infatti -in disparte il rilievo per il quale non è possibile individuare il momento di insorgenza del l’invocato legittimo affidamento nel momento successivo in cui il Legislatore ebbe a consentire la condonabilità dell’opera , in quanto postumo rispetto alla condotta posta in essere tra il gennaio 1991 e l’ottobre 1993 dalla de cuius COGNOME NOMECOGNOME condotta senz’altro contraria alla normativa all’epoca vigente, essendo stata infatti prevista la condonabilità nel limite di 750 mc. dopo la consumazione del reato, ossia dalla successiva l. n. 724 del 1994 l’operatività del principio dell’affidamento del te rzo rispetto
agli atti della Pubblica Amministrazione impone, da un lato, che le norme di diritto siano chiare e precise e, dall’altro, che la loro applicazione sia prevedibile per i soggetti dell’ordinamento, in particolare quando possono avere conseguenze sfavorevoli sugli individui e sulle imprese. In particolare, detto principio impone che una normativa consenta agli interessati di conoscere con esattezza la portata degli obblighi che essa impone loro e che questi ultimi possano conoscere senza ambiguità i loro diritti e i loro obblighi e regolarsi di conseguenza (CGUE, sentenza del 3 giugno 2021, causa C-39/20).
3.1. Nel caso di specie, è evidente che ai sensi dell’art. 39, comma 1, della legge n. 724/1994 (c.d. “Secondo Condono Edilizio”), richiamato dall’art. 32, comma 25, del D.L. n. 269/2003, come convertito dalla legge n. 326/2003 (c.d. Terzo Condono Edilizio), il condono può essere richiesto per: a) le costruzioni che, indipendentemente dalla volumetria iniziale o assentita hanno avuto un ampliamento non superiore a 750 mc; b) le nuove costruzioni con cubatura non superiore ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3000 metri cubi.
La disposizione normativa, dunque, a dispetto di quanto sostenuto dalla difesa dei ricorrenti non era chiara al punto da legittimare, come affermato, che la l. 724 del 1994 in astratto consentisse l’insistenza su un unico corpo di fabbrica di più domande di condono, purché ciascuna di esse nei limiti di 750 mc. Che così non fosse, del resto, lo conferma proprio l’interpretazione seguitane da parte sia d ella giurisprudenza amministrativa che di quella penale, che hanno, in maniera assolutamente sintonica, affermato che l’opera edilizia abusiva deve essere identificata con riferimento all’unitarietà dell’immobile o del complesso immobiliare, qualora sia realizzato in esecuzione di un disegno unitario, essendo irrilevante la suddivisione in più unità abitative e la presentazione di istanze separate, tutte imputabili ad un unico centro sostanziale di interesse. È stato infatti più volte affermato che, ai fini della valutazione dell’eventuale superamento del limite massimo di cubatura condonabile, qualora l’abuso edilizio sia stato realizzato in esecuzione di un disegno unitario, deve essere fatto riferimento alla unitarietà dell’immobile o del complesso immobiliare, non avendo alcuna rilevanza la suddivisione dell’opera in più unità abitative (tra le tante, da ultimo: Cons. st., 20 gennaio 2025, n. 396; Sez. 3, n. 2840 del 18/11/2021, dep. 2022, Vicale, Rv. 282887 -01).
3.2. La lesione del principio del legittimo affidamento è dunque invocabile solo ove l’operatore economico prudente e accorto non sia in grado di prevedere il mutamento della situazione giuridica da cui origina l’affidamento (CGUE, sentenza del 16 ottobre 2019, causa C-490/18: «La possibilità di avvalersi del principio della tutela del legittimo affidamento, è concessa a ogni operatore economico in capo al quale un’autorità nazionale ha fatto sorgere aspettative fondate. Tuttavia, qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento atto a ledere
i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio di tale principio nel caso in cui tale provvedimento sia adottato».
3.3. Nel caso di specie, dunque, proprio la necessità di interpretazione del testo normativo, esclude(va) in radice la possibilità per la de cuius di formarsi delle aspettative fondate, tenuto conto che già la giurisprudenza antecedente alla decisione di condanna (intervenuta in primo grado nel 1996), divenuta poi irrevocabile nel 1997, escludeva qualsiasi dubbio circa la possibilità di poter sanare l’abuso presentando più istanze di condanna, essendo stato infatti affermato già in tale periodo come il cosiddetto condono edilizio è richiedibile anche nell’ipotesi di edificazione di un fabbricato superiore a 750 mc, ma i cui singoli appartamenti sono ricompresi entro detta cubatura, giacché l’art. 39 primo comma legge n. 724 del 1994 si riferisce a “nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per singola concessione edilizia in sanatoria”, il comma quinto della stessa disposizione prevede “il versamento dell’intera somma dovuta a titolo di oblazione per ciascuna unità immobiliare, sicché viene esplicitato un concetto già contenuto nella circolare n. 3357/85 applicativa della legge n. 47 del 1985 e ribadito in quella del 17 giugno 1985 n. 2241/UL, onde occorre aver riguardo alle unità catastali cioè a quelle opere aventi specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabili e costituenti di regola unità immobiliare, mentre, a rendere ancor più evidente detta distinzione per quanto concerne le agevolazioni per la cosiddetta prima casa, il quattordicesimo comma della norma in esame le esclude “nel caso di presentazione di più di una richiesta di sanatoria da parte dello stesso soggetto” (Sez. 3, n. 3585 del 13/03/1996, Rv. 205851 -01).
Ne discende, pertanto, la manifesta infondatezza della censura dedotta.
4. Anche il terzo ed ultimo motivo è inammissibile.
È ben vero che la questione di costituzionalità di una norma, in quanto questione di diritto, è rilevabile d’ufficio ed è proponibile in ogni stato e grado di qualsiasi procedimento giurisdizionale, sicché la stessa può essere prospettata per la prima volta anche nel giudizio di legittimità (Sez. 3, n. 7528 del 09/11/2023, dep. 2024, Rv. 285954 -02), ma è pur sempre necessario un giudizio di non manifesta infondatezza e di rilevanza della questione.
4.1. Orbene, se, in astratto, la questione può essere considerata rilevante nel presente giudizio, ciò che difetta, nel caso di specie, è proprio la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità. Ed infatti, va preliminarmente rilevato che la Corte costituzionale ritiene configurarsi un’ipotesi di inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa, limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione ( ex plurimis , ordinanza n. 36 del 2015).
4.2. È questo ciò che si verifica nel caso in esame. L’assenza dell’indicazione della norma sospetta di incostituzionalità (essendosi limitato il ricorrente solo ad evocare il parametro costituzionale di riferimento che si assumerebbe violato, ossia l’art. 3 Cost.), non consente a questa Corte di valutare le ragioni difensive di censura. In tale ipotesi, infatti, il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata (non indicata) e il parametro costituzionale evocato inibisce lo scrutinio nel merito della questione (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità della stessa.
4.3. Nel caso di specie, la difesa del ricorrente si limita a richiamare l’art. 3, Cost., senza addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito vulnus (che non può certo ravvisarsi nel ‘criterio di casualità’ evocato dalla difesa, essendo ovviamente, quella richiamata, non una questione che incide su una presunta disparità di trattamento nell’applicazione della norma, applicabile nei confronti di tutti c oloro che si trovano nella medesima situazione, essendo infatti la circostanza di ‘incappare’ in un procedimento giudiziario un fatto esterno ed estraneo all’applicazione, uniforme, della normativa dettata dalla l. n. 724 del 1994, sempre che il ricorrente intendesse riferirsi a quest’ultima).
4.4. Quanto sopra, dunque, quand’anche non si volesse seguire l’orientamento più volte affermato da questa Corte secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduce la violazione di disposizioni costituzionali, poiché l’inosservanza delle stesse non è prevista, dall’art. 606 cod. proc. pen., tra i casi di ricorso e può solo costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale (Sez. 5, n. 4944 del 03/12/2021, dep. 2022, Rv. 282778 -01), rende comunque inammissibile il relativo motivo, per le ragioni dianzi evidenziate.
Il ricorrente, infatti, non fornisce sufficienti elementi che consentano di individuare con precisione la norma censurata assumendo il parametro costituzionale per come invocato, ed omette di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale incidenza, richiamando erroneamente un effetto, in concreto, sul piano applicativo, costituito dal ‘criterio di casualità’, costituente, come detto, ef fetto esterno alla normativa interna (che non è chiaro sia o meno l. 724 del 1994), che non incide certo sull’applicazione in astratto, quella sì uniforme, della normativa interna in relazione a tutte le identiche situazioni in cui versano i soggetti che si trovano nella stessa posizione degli attuali ricorrenti.
Per completezza, infine, in risposta alla memoria difensiva depositata in data 6 febbraio 2025, deve essere evidenziato come non ricorrano le condizioni per investire la Corte di Giustizia del l’Unione Europea della richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
Pacifico, infatti, è il principio, più volte affermato da questa Corte secondo cui la declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione osta, per difetto di rilevanza, al rinvio pregiudiziale di questione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, potendo il giudice unionale rifiutarsi di statuire su domande in via pregiudiziale qualora sia manifesto che l’interpretazione richiesta non si trova in rapporto con l’effettività o con l’oggetto del giudizio principale (Sez. 3, n. 42156 del 15/09/2021, Rv. 282461 -01).
I ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella loro proposizione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso, il 13/02/2025