Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 18587 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 18587 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME, nato a Canicattì il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 24/4/2023 emessa dalla Corte di appello di Caltanissetta visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione del consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni formulate dal Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria dell’AVV_NOTAIO, il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza di assoluzione emessa in primo grado, condannava l’imputato per il reato di abuso d’ufficio. La sentenza impugnata riteneva che NOME COGNOME, in qualità di appartenente alla
Polizia penitenziaria, avesse abusato della sua qualità, violando uno specifico divieto di legge, acquistando 36 scatole di capsule di caffè da un detenuto, omettendo di corrispondere il prezzo pattuito.
Avverso tale sentenza, il ricorrente ha formulato tre motivi di impugnazione.
2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione, rappresentando, in primo luogo, che la Corte di appello era incorsa nel travisamento della prova, omettendo di considerare la quietanza di pagamento del 4 giugno 2020, depositata all’udienza preliminare del 27 ottobre 2020, attestante l’avvenuto pagamento in favore di NOME e, cioè, del soggetto detenuto, successivamente rimesso in libertà, con il quale aveva convenuto l’acquisto del caffè. Il pagamento differito, peraltro, era del tutto in linea con gli accordi intercorsi tra l’imputato e NOME, avendo quest’ultimo chiarito che, avendo avuto “compassione” per le difficoltà in cui versava NOME COGNOME, aveva acconsentito a fornirgli le capsule a credito, differendo il pagamento delle stesse.
La quietanza di pagamento dimostrerebbe come non vi sia stato alcun ingiusto vantaggio per l’imputato, il che fa venir meno uno degli elementi costitutivi del reato, notoriamente caratterizzato dalla cosiddetta “doppia ingiustizia”.
2.2. Con il secondo motivo, deduce violazione di legge e vizio della motivazione, in ordine al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
2.3. Con il terzo motivo, si contestano violazione di legge e vizi di motivazione in relazione a plurimi aspetti del trattamento sanzionatorio.
In primo luogo, si deduce che la Corte di appello, nel riformare la sentenza di assoluzione emessa all’esito del giudizio abbreviato, aveva omesso di apportare la riduzione della pena pari a un terzo.
Il ricorrente contesta il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, nonostante l’ammissione dei fatti da parte dell’imputato, l’incensuratezza e la prognosi negativa circa la commissione di ulteriori fatti di reato.
Si assume, inoltre, che stante la modestia degli importi oggetto del presunto vantaggio indebito conseguito dall’imputato, la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere le attenuanti di cui agli artt. 323-bis e 62, comma primo, n. 4), cod. pen., nonché quella derivante dall’avvenuto risarcimento del danno.
Il ricorso è stato trattato con rito cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.
Il primo motivo, afferente al riconoscimento della sussistenza del reato, è manifestamente infondato.
Sostiene il ricorrente che la sentenza di appello sarebbe incorsa nel vizio di travisamento della prova, non dando neppure atto dell’avvenuto pagamento della merce acquistata dall’imputato, in tal modo non avvedendosi che l’ingiusto vantaggio conseguente al reato di abuso d’ufficio non si era realizzato, come desumibile dalla quietanza di pagamento.
La Corte di appello, dopo aver richiamato le norme di legge che vietano agli appartenenti alla Polizia penitenziaria di “comprare o vendere, il dare o ricevere in prestito dai detenuti” e, più in AVV_NOTAIO, di “entrare in rapporti di interessi con essi”, ha precisato che l’ingiusto profitto è stato conseguito dall’imputato per il fatto stesso di aver ottenuto la fornitura di caffè a credito, dilazionando il pagamento del corrispettivo.
L’ingiusto vantaggio, pertanto, si è compiutamente realizzato nel momento stesso del raggiungimento dell’accordo e all’atto della consegna della merce, il fatto che il pagamento sia stato successivamente omesso rappresenta un post factum di per sé inidoneo ad incidere sulla sussistenza del reato.
Del resto, la Corte ha opportunamente segnalato come la condotta dell’imputato volta a differire nel tempo il pagamento, nonostante le richieste rivoltegli da NOME anche dopo la sua scarcerazione, dimostrano esclusivamente come la promessa del pagamento differito fosse un mero espediente per convincere il detenuto a consegnarli la merce, senza che a ciò corrispondesse una reale volontà di pagamento.
In definitiva, quindi, il fatto che la Corte di appello non abbia tenuto conto del pagamento, sia pur tardivo, della merce, non integra un travisamento della prova rilevante ai fini della decisione, essendo stato correttamente ritenuto che il reato di abuso d’ufficio e, in particolare, l’ingiusto vantaggio, si era già manifestato al momento della cessione delle capsule di caffè senza pagamento del corrispettivo.
Il secondo motivo di ricorso, concernente l’omesso riconoscimento della particolare tenuità del fatto, deve ritenersi manifestamente infondato, dovendosi rilevare che l’imputato non aveva chiesto l’applicazione di tale istituto, sia pur in via subordinata rispetto alla conferma della sentenza di primo grado e, quindi, la Corte di appello non era tenuta ad uno specifico obbligo di motivazione sul punto.
Peraltro, la motivazione contiene implicitamente plurimi elementi che denotano l’incompatibilità del fatto con la causa di non punibilità, essendosi sottolineata l’intrinseca gravità della condotta, peraltro nemmeno dotata dei caratteri dell’occasionalità, essendosi dato atto della pendenza di un procedimento disciplinare per “fatti analoghi”.
Il terzo motivo è fondato limitatamente al mancato riconoscimento della riduzione della pena per il rito prescelto, posto che la Corte di appello ha espressamente applicato il minimo della pena, individuato in un anno di reclusione, senza ridurla ulteriormente di un terzo, nonostante l’imputato avesse ottenuto l’ammissione al giudizio abbreviato.
A tale errore può rimediarsi direttamente in questa sede, rideterminando la pena di mesi 8 di reclusione.
L’ulteriore doglianza relativa al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche è inammissibile, avendo la Corte di appello fornito una motivazione che, per quanto sintetica, dà atto dei motivi che non consentono di ritenere la minore offensività del fatto, anche in relazione alla accertata propensione dell’imputato a chiedere prestiti in denaro dai detenuti.
Per quanto attiene, infine, alle ulteriori attenuanti invocate dall’imputato, deve darsi atto che la loro valutazione non è stata sollecitata, neppure in via subordinata, nel corso del giudizio di secondo grado e, quindi, la Corte non era tenuta a fornire specifica motivazione al fine del loro mancato riconoscimento.
Deve darsi continuità, infatti, al principio giurisprudenziale secondo il quale il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare d’ufficio una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso in cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, qualora l’imputato, nell’atto di appello o almeno in sede di conclusioni del giudizio di appello, non abbia formulato una richiesta specifica, con preciso riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della stessa, rispetto alla quale il giudice debba confrontarsi con la redazione di una puntuale motivazione (Sez.3, n. 10085 del 21/11/2019, dep. 2020, Rv. 27906302).
Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente all’omesso riconoscimento della riduzione della pena conseguente all’ammissione al rito abbreviato, con conseguente rideterminazione della pena in mesi 8 di reclusione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’omessa applicazione della diminuente del rito abbreviato, che dispone, e, per l’effetto, determina la pena inflitta in mesi otto di reclusione.
Rigetta il ricorso nel resto.
Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 154-ter disp.att. cod.proc.pen.
Così deciso il 26 marzo 2024 Il Consigliere estensore
La Presidente