Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 5027 Anno 2025
RITENUTO IN FATTO Penale Sent. Sez. 6 Num. 5027 Anno 2025
1. La Corte di appello di Lecce, per quel che qui rileva in ragione dei proposti ricorsi, ha assolto NOME COGNOME dal reato di concussione (art. 317 cod. pen.) perchè il fatto non sussiste ed ha revocato le statuzioni civili a favore di NOME COGNOME Presidente: COGNOME Relatore: NOME COGNOME NOME Data Udienza: 17/01/2025
NOME COGNOME.
A NOME COGNOME si addebitava che, in qualità di Presidente del Consiglio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Lecce, abusando dei suoi poteri e della sua autorità, aveva costretto il dottor NOME COGNOME NOME COGNOME a dimettersi da Responsabile del Centro Sanitario IMID istituito in Campi Salentina dalla Regione Puglia, al fine di realizzare la chiusura della struttura osteggiata, fin dal suo sorgere, dal dottor COGNOME perché confliggente con i suoi interessi al mantenimento di reparti ospedalieri e attività sanitaria privata per cui l’Istituto IMID rappresentava una concreta e pericolosa concorrenza. Per conseguire tale obiettivo il COGNOME aveva utilizzato lo strumento di minacce sia esplicite sia in forma di avvertimento dirette al COGNOME e ai suoi collaboratori dell’IMID; aveva esercitato illegittimamente e strumentalmente il potere disciplinare dell’Ordine che presiedeva avviando a carico del dottor COGNOME cinque procedimenti disciplinari e, reiteratamente, aveva denigrato e diffamato il predetto attraverso missive, conferenze stampa e telefonate a rappresentati della comunità scientifica e altre istituzioni, fino al 19 luglio 2013, data in cui il do COGNOME aveva presentato le sue dimissioni.
Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce e il difensore della parte civile chiedono l’annullamento della sentenza impugnata di cui denunciano cumulativi vizi di motivazione, anche per travisamento delle prove dichiarative, nonché erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli elementi costitutivi del reato di concussione in relazione all’abuso della qualità o dei poteri, alla condotta costrittiva e alla indebita utilità perseguita, nella specie dimissioni del dottor COGNOME direttore sanitario del Centro IMID, funzionali all chiusura del Centro..
2.1. Il Procuratore generale denuncia erronea applicazione della legge penale (art. 317 cod. pen.) nella individuazione degli elementi strutturali del reato d concussione con riferimento:
2.1.1. alla illegittima strumentalizzazione delle posizioni e parte del dottor COGNOME, trascurando le dichiarazioni rese in dibattimento dal dottor NOME COGNOME secondo le quali il dottor COGNOME, nella qualità, non aveva alcun potere per sindacare l’adeguatezza e sicurezza del Centro IMID, e dalla dottoressa NOME COGNOME che, con la lettera del 27 febbraio 2013, aveva stigmatizzato le iniziative del dottor COGNOME perché interferivano pesantemente con il prosieguo
dell’attività di chiara e documentata pubblica utilità del Centro attraverso accuse violente e gratuite di incompetenza, falsità e autoreferenzialità indirizzate al dottor COGNOME. La sentenza impugnata non si confronta, incorrendo in vizio di motivazione anche per travisamento della prova, con tale compendio dichiarativo che ha pretermesso ai fini della ricostruzione dell’elemento materiale del reato di concussione;
2.1.2 al requisito della costrizione, omettendo la valutazione sia delle dichiarazioni rese dall’avvocato NOME COGNOME dell’11 marzo 2016, che riferiva delle violente rimostranze del dottor COGNOME contro il dottor COGNOME esprimendo un accanimento di cui il COGNOME non sapeva darsi spiegazione sia del contenuto del colloquio COGNOME–COGNOME del 15 dicembre 2012, caratterizzato da un crescendo di umiliazioni e accuse, rivolte al dottor COGNOME con invito a prendere le distanze dal COGNOME. La Corte di appello, obliterando la premessa ricostruttiva secondo cui il colloquio sarebbe stato esaminato ai fini della individuazione della condotta costrittiva, era pervenuta alla conclusione che non vi sarebbe stata la prospettazione di un danno ingiusto in caso di inadempimento delle direttive impartite dal COGNOME,ma incorrendo in un travisamento, perché non ha esaminato il tenore del colloquio (“io adesso ti parlo in codice perché tu capisca quello che ti può accadere dopo”), nel quale il dottor COGNOME ventilava minacciosamente l’insorgere di conseguenze sanzionatorie negative a carico del dottor COGNOME ove non si fosse adeguato ai suoi dicta, minaccia arricchita dal riferimento alla possibilità di procurarsi ulteriori prove, in un contesto relazionale caratterizzato da colloqui dai toni accesi. La Corte aveva trascurato la minaccia di radiazione del dottor COGNOME apertamente ventilata dal dottor COGNOME nel colloquio con la COGNOME e da questa riferita al dottor COGNOME e le condizioni sanitarie del dottor COGNOME rilevanti per valutare la condizione di assoggettamento che le minacce del dottor COGNOME avevano indotto nella persona offesa. La Corte di appello aveva, infine, pretermesso la chiara valenza minacciosa dell’incontro del 25 maggio 2013 tra il dottor COGNOME e il ragioniere COGNOME che aveva suggerito alla parte civile di fare acquiescenza al provvedimento disciplinare ammonendolo “sui muri di gomma” con i quali si sarebbe scontrato ove avesse opposto resistenza, consiglio che denota la caratura intimidatoria del comportamento del dottor COGNOMEe trascurato, infine, il contenuto del colloquio fra il dottor COGNOME e il dottor COGNOME del 5 mag 2013; Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.1.3. contraddittorietà della motivazione rispetto ai canoni di valutazione della prova di cui all’art. 192 cod. proc. pen. nella valutazione delle dichiarazioni del dottor COGNOME poiché le argomentazioni della Corte di appello avevano tradito le premesse metodologiche sulla valutazione del contributo dichiarativo della persona offesa dal reato, si erano tradotte in valutazioni congetturali trascurando
i riscontri che la sentenza di primo grado aveva, invece, individuato con precisione, emergenti anche dai colloqui diretti che la parte civile aveva avuto con il dottor COGNOME /
2.2. Con il proposto ricorso la parte civile assume che la sentenza impugnata ha omesso ovvero erroneamente valutato prove dichiarative e prove documentali al fine della ricostruzione del danno aquiliano che, anche senza sovrapposizione rispetto al delitto di concussione, è comunque idoneo a cagionare un danno ingiusto e, dunque, a fondare la condanna per responsabilità civile.
Denuncia, in particolare:
2.2.1. il mancato esame di elementi di prova decisivi ai fini della sussistenza dell’abuso, della costrizione e dell’indebito conseguimento di utilità avendo la Corte di appello omesso di valutare il compendio probatorio acquisito e operato una valutazione frammentaria e atomistica delle prove dichiarative e di quelle documentali nella parte in cui, in particolare le dichiarazioni della dottoressa NOME COGNOME e dell’avvocato NOME COGNOME direttore dell’ASL, consentivano di ricostruire un atteggiamento di violenza inaudita e gratuita e di una vera e propria forma di accanimento del dottor COGNOME nei confronti del dottor COGNOME che investivano e coinvolgevano, in maniera strumentale, la legittimità delle autorizzazioni del Centro IMID e la professionalità del dottor COGNOME;
Le condotte del dottor COGNOME travalicavano in una vera e propria forma di costrizione in danno del dottor COGNOME riconducibile ad una forma di rivalità politica. La sentenza impugnata, trascurando tale contesto, aveva compiuto una lettura riduttiva delle dichiarazioni rese dalla parte civile all’udienza del 15 settembre 2017, violando i criteri di cui all’art. 192 cod. proc. pen. muovendo da erronee premesse ricostruttive nella individuazione della condotta minacciosa, che può prescindere dalla forma espressa ; potendo anche essere implicita ovvero esprimersi in forma di consiglio, esortazione o metafora e che, nel caso in esame, si manifestava attraverso la minaccia del danno ingiusto, rivolto al dottor COGNOME, di radiazione dall’Ordine;
b. la Corte di appello aveva erroneamente valutato la produzione documentale costituita dalla trascrizione del colloquio tra il dottor COGNOME e il dottor COGNOME del dicembre 2012 trascurando le caratteristiche del linguaggio del dottor COGNOME (“ti parlo in codice …”) e il contesto relazionale poiché il colloquio faceva seguito ad altro di pochi giorni precedenti, in cui il dottor COGNOME aveva ribadito che avrebbe proseguito nella sua attività ostruzionistica del Centro;
le dichiarazioni della teste NOME COGNOME all’udienza del 6 aprile 2018 nel corso delle quali la dottoressa COGNOME aveva confermato il contenuto dell’incontro con il dottor COGNOME e la minaccia di proseguire con la radiazione del dottor COGNOME;
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la documentazione sanitaria prodotta dal dottor COGNOME all’udienza del 17 settembre 2017 che ne documentava, nel periodo da aprile 2013 a luglio 2014, condizioni di salute legate a patologie ansiogene e depressive che smentivano la tesi della sentenza impugnata secondo la quale il dottor COGNOME non aveva versato in condizioni di metus e di timore verso il dottor COGNOME tanto da determinarsi a sporgere denuncia-querela;
la trascrizione del colloquio del 25 maggio 2013 tra la parte civile NOME COGNOME e NOME COGNOME che documentava la pressione costrittiva esercitata dal dottor COGNOME sulla persona offesa che, in stato di coartazione psicologica, si vedeva indotta a rassegnare le proprie dimissioni dal Centro;
la trascrizione del colloquio del 5 maggio 2013 tra il dottor COGNOME e il dottor COGNOME in cui, ribadendo un errore metodologico, la Corte di appello ha rilevato l’assenza di una costrizione stante il tenore bonario del colloquio;
2.2.2. sulla indebita utilità perseguita, che è configurabile in qualsiasi vantaggio personale che incrementi la sfera personale dell’agente, compreso l’accrescimento del proprio prestigio professionale o la propria considerazione nell’ambiente professionale di riferimento e che, nel caso in esame, era connessa al rilievo che il dottor COGNOME “l’avesse spuntata” sul dottor COGNOME per distruggerlo e pervenire alla chiusura del Centro IMID;
2.2.3 GLYPH violazione dei criteri di valutazione della prova di cui all’art. 192 cod. proc. pen. La sentenza impugnata ha escluso che fossero proferite minacce di radiazione del dottor COGNOME, viceversa comprovate dalle dichiarazioni della dottoressa NOME COGNOME e da NOME COGNOME e che costituivano riscontri precisi alle ricostruzioni offerte dal COGNOME sulla valenza delle minacce costrittive subite e che si accompagnavano all’atteggiamento persecutorio e intimidatorio del dottor COGNOME verso il dottor COGNOME
3.11 Procuratore generale, in vista dell’odierna udienza, ha depositato requisitoria alla quale si è riportato.
4.La parte civile in data 16 gennaio 2025 ha depositato memoria alla quale si è riportata con le conclusioni all’odierna udienza.
5.Nell’interesse di NOME COGNOME i difensori hanno prodotto, in data 30 dicembre 2024, memoria difensiva alla quale si sono riportati nel corso dell’odierna discussione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi del Procuratore generale e della parte civile devono essere rigettati perché proposti per motivi infondati.
Deve essere esaminata, in primo luogo, la richiesta del difensore di NOME COGNOME svolta nella memoria e richiamata nelle conclusioni all’odierna udienza di discussione, di dichiarare inammissibili i ricorsi perché generici, in particolare il ricorso del Procuratore generale nella parte in cui denuncia il vizio di travisamento della prova.
Il rilievo è manifestamente infondato tenuto conto che, invece, il Procuratore generale ricorrente e, così, la parte civile, hanno diffusamente indicato le risultanze di prova di cui si sarebbe omessa la valutazione richiamando, espressamente le dichiaranoni del dottor NOME COGNOME e della dottoressa NOME COGNOME e illustrandone la rilevanza ai fini della descrizione della condotta costrittiva ascritta al dottor COGNOME
3.1 ricorsi propongono motivi comuni che possono essere esaminati congiuntamente posta la premessa che, in presenza di una sentenza che, come quella impugnata, sia incentrata, sul contenuto della documentazione acquisita e sul giudizio di inattendibilità soggettiva del dichiarante, attraverso il ricorso pe cassazione non può essere proposta la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata.
La Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, deve, pertanto, limitare la propria valutazione al tenore argomentativo della decisione impugnata e la conformità del risultato di prova ai principi di diritto che descrivono la struttura de reato di concussione.
Né l’analisi sulla motivazione, per rilevarne la manifesta illogicità o contraddittorietà, può fondarsi sull’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, F, Rv. 280601).
In relazione alla denuncia del vizio di motivazione acquista particolare rilievo la valutazione del denunciato vizio di travisamento della prova desumibile da altri atti specificamente indicati dai ricorrenti, vizio che è ravvisabile ed efficace quando l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso, ricostruito erroneamente, o ignorato.
La giurisprudenza di questa Corte ha precisato che il vizio di travisamento della prova costituisce, pertanto, un ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della motivazione in cui l’esame riguarda non il fatto nella sua interezza ma la comparazione della valutazione delle prove con uno o più specifici atti del giudizio (Sez. 1, n. 39846 del 23/05/2023, Salerno, Rv. 285368).
4.AI fine di precisare il perimetro del giudizio di legittimità, il Procurator generale ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte sulla necessità o meno di motivazione rafforzata nel caso in cui il giudice di appello pervenga alla riforma della sentenza di condanna assolvendo l’imputato. Il Procuratore generale è pervenuto alla conclusione che tale necessità, alla luce del principio di presunzione di innocenza e del ragionevole dubbio, non sussista essendo sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella di primo grado (Sez, 4, n. 14194 del 18/03/29021, COGNOME, Rv. 281016; S.U., 21/12/2017, Troise, Rv. 14800).
Sostiene, per contro, la parte civile che anche in caso di riforma della sentenza di condanna, la giurisprudenza di legittimità segue una linea di maggiore severità richiedendo una motivazione rafforzata, in cui il giudice di appello spieghi dettagliatamente le differenze riscontrate confrontandosi con le motivazioni della sentenza impugnata, alla luce di una rielaborazione esaustiva del materiale probatorio e fornendo una nuova e completa giustificazione per la riforma della decisione, senza limitarsi a critiche generiche di dissenso (Sez. 3, n. 13833 del 5 aprile 2024, n. mass.).
Rileva il Collegio che la sentenza delle Sezioni Unite Troise, richiamata dal Procuratore generale e dalla parte civile ricorrente, al di là della forza evocativa della definizione di “motivazione rafforzata”, indica con chiarezza la cornice di valutazione di questa Corte nella materia in esame.
Le Sezioni Unite, infatti, enunciano il principio della necessità di motivazione rafforzata connesso al tema della specificità e puntualità della motivazione poiché, in presenza di sentenza di condanna di primo grado, il giudice di appello ha l’obbligo di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni poste a fondamento del giudizio di colpevolezza, essendo necessario scardinare l’impianto argomentativo-dimostrativo di una decisione assunta da chi ha avuto contatto diretto con le fonti di prova, un obbligo che si struttura diversamente in presenza di sentenza di condanna di primo grado assertiva e sommaria. Così strutturato,. l’obbligo di motivazione rafforzata acquista una precisa connotazione anche metodologica che non si risolve in quello della maggiore e minore plausibilità della decisione.
5.AI dottor NOME era contestato, nella qualità, il delitto di concussione di cui è opportuno indicare gli elementi strutturali individuati nella giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla condotta costrittiva, al male minacciato e alla utilità perseguita dal pubblico ufficiale.
5.1.Come noto, il delitto di concussione (art. 317 cod. pen.) si incentra sulla condotta di costrizione che, secondo la giurisprudenza di legittimità, consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato, sicché non è sufficiente ad integrare il delitto un condizionamento che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Sez. 6, n. 15641 del 19/10/2023, dep. 2024, Saguto, Rv. 286376). Non va trascurato che la costrizione, che integra l’elemento oggettivo del reato, può consistere anche in una minaccia implicita, purché idonea a coartare la volontà del privato, da valutare caso per caso in relazione alle modalità ampiamente discrezionali di esercizio del potere da parte del pubblico ufficiale (Sez. F, n. 47602 del 08/08/2017, COGNOME, Rv. 270817).
La sentenza COGNOME (S.U. n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258470) si esprime con icastica chiarezza definendo la condotta concussiva di cui all’art. 317 cod. pen. come caratterizzata più che dalla costrizione in quanto tale dall’abuso costrittivo, quale tipico mezzo di coazione particolarmente insidioso e perciò carico di disvalore, che, più frequentemente della violenza, ricorre nelle fattispecie concrete di concussione quale modalità realmente idonea ad ”obbligare” il soggetto passivo a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto.
Così delineata la condotta costrittiva, l’abuso non è un presupposto del reato ma integra un elemento essenziale e qualificante della condotta nel senso che costituisce il mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la promessa dell’indebito.
L’abuso, in altri termini, è legato da un nesso di causalità con lo stato psichico determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la dazione o la promessa dell’indebito.
A proposito dell’abuso della qualità o dei poteri le Sezioni Unite hanno chiarito che esso consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dall’agente pubblico e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui o della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio ovvero dalla strumentalizzazione delle attribuzioni ad essa inerenti (abuso dei suoi
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poteri) così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive di prestazioni non dovute o per il perseguimento di un fine immediatamente illecito.
In sostanza, nella fattispecie di cui all’art. 317 cod. pen., l’abuso è indicativo dell’esistenza, in capo all’agente pubblico, di un diritto all’uso della qualità o dei poteri, che viene però deviato dalla sua funzione tipica e si atteggia come contrapposto logico dell’uso, così come positivamente delineato, e, in quanto tale, inclusivo di imprescindibili limiti.
Ovviamente l’abuso della qualità o dei poteri, per assumere rilievo come condotta costrittiva, deve sempre concretizzarsi in un facere (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato: costui, cioè, deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli e, proprio per scongiurarle, decide di aderire all’indebita richiesta.
La modalità costrittiva rilevante nel delitto di concussione va enucleata quindi dalla combinazione dei comportamenti tenuti dall’agente pubblico con il risultato che i medesimi producono, e trova la sua genesi nell’abuso della qualità o dei poteri.
E’ il contenuto di tale abuso, che si concretizza, al di là del dato formale, nel prospettare alla vittima un danno ingiusto (contra ius), a integrare la costrizione ed a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sa non essere dovuta.
5.2.Nel delitto di concussione il male ingiusto assume una connotazione in chiave oggettiva, ricostruzione che implica l’abbandono di quegli orientamenti (che pure riaffiorano nella giurisprudenza) che affidano la distinzione a indici di quantificazione di tipo psicologico, in una misurazione che non solo di fatto è impossibile ma anche arbitraria i perché la misura superata la quale si sfocerebbe nella previsione tipica della costrizione / non sarebbe normativamente prestabilita in base a indici di tig(qualitativo: anche il male ingiusto che connota la minaccia giuridicamente rilevante deve essere ricostruito sulla scorta del carattere legittimo o meno della condotta.
5.3. Quanto all’utilità perseguita dall’agente pubblico si è affermato che in tema di concussione, il termine “utilità” indica tutto ciò che rappresenta un vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in un dare quanto in un “facere” e ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal convincimento comune, conseguentemente rientrandovi anche il vantaggio di natura politica (Sez. 6, n. 33843 del 19/06/2008, COGNOME, Rv. 240796 ).
Da tale struttura del delitto in esame emerge come, ai fini della prova del reato, vengano in rilievo non solo dati documentali – l’analisi dei provvedimenti di volta in vola adottati; la corrispondenza ufficiale e formale intercorsa – ma, altresì, dati esterni al provvedimento costituiti dal contenuto di incontri o conversazioni telefoniche, anche intervenute con persone terze, e che possono essere oggetto di ricostruzione, prevalentemente, attraverso le dichiarazioni della persona offesa dal reato in quanto diretto interlocutore del pubblico ufficiale, e, quindi, destinatario di condotte costrittive, o comunque destinatario di minacce che da terzi gli siano stati riferiti.
Le risultanze di prova dichiarativa vengono in rilievo con riferimento alla denuncia del vizio di violazione di legge (in relazione all’art. 192 cod.proc. pen.) che i ricorsi sviluppano (ai punti 2.1.3 e 2.2.3 del Ritenuto in fatto).
Rispetto ai rilievi dei ricorrenti va ricordata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nella motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214).
Si tratta di un indirizzo convalidato dalla giurisprudenza successiva che ha sempre ribadito come le dichiarazioni del soggetto danneggiato dal reato che si sia costituito parte civile possono essere legittimamente poste da sole a fondamento della responsabilità dell’imputato, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 commi 3 e 4, cod. proc. pen., purché il narrato sia soggetto ad un più rigoroso controllo di attendibilità, opportunamente corroborato dall’indicazione di altri elementi di riscontro (Sez. 4 n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558).
7.Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata ha fatto coerente e logica applicazione delle descritte coordinate in materia di valutazione della prova dichiarativa costituita dalle dichiarazioni rese dal dottor COGNOME con riferimento al contenuto dei colloqui da questi direttamente intrattenuti con il dottor COGNOME in data 15 e 28 dicembre 2012 (il secondo oggetto anche di una registrazione effettuata
dalla persona offesa); alle dichiarazioni rese da soggetti terzi presenti al colloquio del 15 dicembre 2012, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché dal dottor COGNOME, dal ragioniere COGNOME e dalla dottoressa NOME COGNOME dichiarazioni riferibili al tema dell’abuso costrittivo e inerenti alle iniziative discipli riconducibili, nella qualità, al dottor COGNOME
In particolare sono state oggetto di valutazione le dichiarazioni del dottor NOME COGNOME (pag. 39 della sentenza impugnata) e dalla dottoressa NOME COGNOME (ivi) nella ricostruzione del “contesto” in cui erano da iscriversi le iniziati del dottor COGNOME cioè l’obiettivo della chiusura del Centro IMID, rispetto al quale si ponevano, secondo i ricorrenti, in chiave strumentale l’avvio del procedimento disciplinare, la minaccia di radiazione del dottor COGNOME, le condotte diffamatorie in danno di questi, le missive inoltrate al predetto o ad altre autorità, le conferenze stampa e telefonate a rappresentati della comunità scientifica e altre istituzioni, iniziative tutte volte, in una parola, a “fare terra bruciata” intorno alla parte civil
Rispetto alla ricostruzione di tale contesto non è sussistente il denunciato vizio di travisamento della prova per mancato esame delle dichiarazioni rese dal dottor NOME COGNOME ancorché tali dichiarazioni non abbiano costituito oggetto di specifico esame, trattandosi di una omissione che non presenta valenza decisiva e rilevante al fine di “scardinare” la motivazione della sentenza di assoluzione che ha ritenuto insussistente l’abuso costrittivo.
La sentenza impugnata, pur avendo premesso che in sede di valutazione della prova avrebbe riconosciuto valore prevalente ai documenti di natura pubblicistica acquisiti, piuttosto che alle prove dichiarative, attesa la componente soggettiva di queste ultime e, rispetto ai colloqui intercettati, al contenuto del colloquio e non singole frasi, dagli stessi estrapolati, si è attenuta ai criteri general di valutazione delle dichiarazioni della parte civile e degli altri testi alla l “dell’interesse” nella ricostruzione dei fatti ed ha compiuto una rigorosa e puntuale analisi di tutte le risultanze di prova dopo aver proceduto al corretto inquadramento dei poteri dei Presidente del Consiglio dell’Ordine rispetto agli iscritti.
Né è ravvisabile nella sentenza impugnata il vizio di una lettura “atomistica e frazionata” degli elementi di prova poiché, invece, le risultanze di prova sono state sottoposte ad una lettura complessiva ( nella quale le une sono state esaminate anche alla luce delle risultanze conseguite dalla valutazione della singola fonte di prova.
8.E’ indiscutibile che, ai fini della configurabilità del reato di concussione ascritto al dottor COGNOME, acquista rilievo la sussistenza o meno dei poteri del Presidente del Consiglio dell’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri in materia
disciplinare, poteri che la Corte di merito (pag. 17 della sentenza impugnata) ha puntualmente ricostruito precisando che questi ha il potere di svolgere accertamenti, acquisire informazioni e, in generale, compiere accertamenti volti a verificare le segnalazioni o notizie di fatti che possano integrare illeciti disciplinar costituiti non solo da abusi o mancanze nell’esercizio della professione medica ma anche da fatti disdicevoli al decoro professionale, comportamenti che non sono tipizzati a norma dell’art. 38 del d.P.R. n. 221/1950.
In tali poteri rientrano, inoltre, quelli di impulso della procedura e quello di presiedere l’organo disciplinare.
La perimetrazione dei poteri del Presidente del Consiglio dell’Ordine rileva non solo con riferimento all’ abuso della qualità e dei poteri connessi alla qualifica ma incide sulla sussistenza della denunciata “strumentalizzazione” delle attribuzioni del dottor COGNOME in chiave costrittiva in un contesto in cui, secondo i ricorrenti, le iniziative del dottor COGNOME puntavano, colpendo il dottor COGNOME, alla chiusura del Centro in contrasto con il direttore dell’ASL COGNOME, che sarebbe stato l’unico competente ad assumere decisioni in materia, e per il quale, invece, la struttura avrebbe dovuto continuare ad operare.
Non sfugge al Collegio che, come evidenziato nella sentenza di primo grado (pag. 21), la possibilità di mantenere aperta la struttura era direttamente collegata al dottor COGNOME che era in possesso dei titoli e della qualifica rilevanti: tanto ciò vero che a seguito delle dimissioni della parte civile il Centro IMID venne chiuso.
La sentenza impugnata ha diffusamente esaminato il tema della competenza o meno del dottor COGNOME nella qualità, a svolgere accertamenti relativi all’operatività del Centro IMID, di cui il dottor COGNOME era direttore sanitario e h ritenuto che il Presidente del Consiglio dell’Ordine potesse esercitare i poteri disciplinari sul dottor COGNOME anche per comportamenti riconducibili alle attività svolte come direttore sanitario del Centro IMID.
La Corte di appello, premesso di avere esaminato solo il primo procedimento disciplinare, poiché gli altri erano successivi alla presentazione delle dimissioni del dottor COGNOME, sopraggiunte il 19 luglio 2013, ha ricostruito in dettaglio da un lato le competenze del Centro IMID e, dall’altro, le contestazioni elevate al dottor COGNOME con il procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 137 del 2012, riportate nella relazione del 6 maggio 2013 (vedi pagg. 24 e 25 della sentenza impugnata) e quali fossero le sanzioni irrogabili (avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione non anche la radiazione, che potrebbe essere comminata in base al codice deontologico solo in presenza di reati previsti dal codice penale).
Le conclusioni raggiunte dalla Corte di merito (pag. pag.18 e ss. della sentenza impugnata), secondo cui il Presidente del Consiglio dell’Ordine era
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competente a verificare la posizione disciplinare del dottor COGNOME anche con riferimento ai suoi comportamenti quale direttore sanitario del Centro IMID, non sono illogiche e si fondano sull’assunto che tali comportamenti riguardavano, in senso lato, anche la salute dei cittadini. Ha concluso, pertanto, che il dottor COGNOME aveva esercitato legittimamente i suoi poteri di presidente del Consiglio dell’Ordine, sia in senso formale che in senso sostanziale nel sottoporre a procedimento disciplinare il dottor COGNOME per cui non vi era stato alcun esercizio abusivo dei suoi poteri.
9.La Corte di merito, pur aderendo a tale esaustiva tesi che escludeva in radice l’illegittimità dell’esercizio dei poteri disciplinari, ha anche esaminato i profilo che tali poteri potessero essere stati esercitati in modo strumentale, per costringere, minacciandolo anche della radiazione, il dottor COGNOME a presentare le dimissioni da direttore del Centro.
Il profilo della natura strumentale delle attività del dottor COGNOME emerge secondo la prospettazione svolta con i motivi di ricorso, dal contenuto degli incontri che il dottor COGNOME aveva avuto con il dottor COGNOME, il 15 e 28 di dicembre 2012, incontri nel corso dei quali il dottor COGNOME aveva esternato al dottor COGNOME i suoi propositi, anche con toni violenti, minacciando di ampliare il tema del procedimento disciplinare e attraverso altri comportamenti quali conferenze stampa, telefonate a rappresentati della comunità scientifica e altre istituzioni, condotte denigratorie e diffamatorie, fino al 19 luglio 2013, data in cui il dottor COGNOME aveva presentato le sue dimissioni.
La parte civile, a rafforzamento della condizione di metus in cui versava per effetto ditali condotte, aveva prodotto documentazione sanitaria che ne attestava lo stato di ansia e depressione nel periodo da aprile 2013 a luglio 2014, anche a confutazione della sentenza impugnata che, invece, aveva evidenziato la presentazione di denuncia-querela da parte del dottor COGNOME nel mese di aprile 2013. La parte civile ha valorizzato come sullo sfondo di tali incontri “aleggiasse” anche la minaccia di radiazione (questa riferita dalla dottoressa NOME COGNOME).
La sentenza impugnata ha condotto un’analisi puntuale del contenuto dei colloqui del 15 e 28 dicembre 2012, intervenuti direttamente tra il dottor COGNOME e il dottor COGNOME il secondo anche registrato; delle condotte immediatamente precedenti il deferimento del dottor COGNOME a procedimento disciplinare (intervenuto il 4 marzo 2013), quali l’incontro con il dottor COGNOME presso il Centro IMID dell’8 gennaio 2013; la conferenza stampa presso il medesimo centro alla presenza del personale o concomitanti con l’istruttoria del procedimento disciplinare (fra questi l’incontro del 5 maggio 2013, anche in questo caso registrato) con il dottor COGNOME componente del Consiglio che aveva illustrato al
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dottor COGNOME le risultanze dell’istruttoria invitandolo a non inasprire i rapporti con il dottor COGNOME e con l’Ordine che gli era solidale ie il colloquio con il ragioniere COGNOME.
E’ con riferimento al contenuto di tali colloqui, in cui assumono particolare rilievo le dichiaraizoni rese dalla parte civile e il contenuto della trascrizione relativa alla conversazione del 28 dicembre 2012, che la Corte di merito ha escluso la sussistenza dell’abuso costrittivo evidenziando che la illustrazione delle problematiche relative al Centro connesse ai profili di deontologia del dottor COGNOME, anche se espresse in termini perentori e con toni accesi, non denotava modalità o l’esercizio di forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del dottor COGNOME.
In tale prospettiva non risultava rilevante il contenuto del colloquio del 15 dicembre 2012 – questo non registrato e riferito solo dalla parte civile – nel corso del quale il dottor COGNOME come era nei suoi poteri, aveva informato il dottor COGNOME dei rilievi riscontrati sulle competenze del Centro IMID e sulle conseguenze alle quali andava incontro in relazione alle attività di direttore, pur invitandolo a prendere le distanze dal dottor COGNOME e a convincere questi e la Regione che la struttura andava chiusa.
La sentenza impugnata, ha ritenuto, con argomentazioni non inficiate da evidente illogicità, che non vi era stato abuso della funzione o dei poteri, viceversa legittimamente (e non strumentalmente) esercitati sottolineando che nel corso di tale incontro non vi era stata la prospettazione di alcun danno contra ius e, anzi, che il dottor COGNOME era stato destinatario di una proposta a disimpegnarsi dal Centro dando segnali precisi in tal senso entro il 28 dicembre.
La Corte di appello ha escluso che nel corso dell’incontro fossero state esercitate pressioni sul dottor COGNOME di cui, piuttosto, veniva sollecitato il consenso per intraprendere un percorso che avrebbe potuto portare alla chiusura del Centro.
Né le persone presenti all’incontro, il teste NOME COGNOME al quale il dottor COGNOME si era rivolto per chiedergli di procurargli un incontro con il dottor COGNOME e il teste NOME COGNOME (cfr. pagg. 30 e 31 della sentenza impugnata), al di là dei toni accesi del colloquio, avevano riferito di indebite pressioni o minacce essendo stati, peraltro, messi a conoscenza delle problematiche del Centro o attraverso la sintesi fatta dal dottor COGNOME (il COGNOME) o attraverso quanto riferito dallo stes dottor COGNOME secondo cui il comportamento del dottor COGNOME era in contrasto con la deontologia professionale tanto che pensava di elevare al predetto una contestazione formale. Nessuno dei testi è stato in grado di confermare che fosse stata proferita la minaccia di “radiazione” del dottor COGNOME.
La Corte di merito (pag. 31 e ss.) ha esaminato anche il contenuto del colloquio del 28 dicembre 2012, questo ricostruito sulla scorta del contenuto dell(
trascrizione evidenziando che dalla trascrizione stessa non emerge né la richiesta di dimissioni dal Centro né minacce, neppure implicite, dirette al COGNOME ma contestazioni, sia pure nette, sull’inesperienza del dottor COGNOME nel settore della malattie rare e sulle informazioni “non veritiere” riportate sulla carta intestata del Centro nonché sul pericolo di poter avviare nuove indagini essendo pervenute segnalazioni sullo svolgimento di “attività commerciali” riconducibili al Centro, contestazioni queste tutte e ciascuna comunque riconducibili al profilo deontologico delle attività professionali del dottor COGNOME
La Corte di merito ha spiegato che, ai fini della insussistenza dell’abuso costrittivo, rileva che il dottor COGNOME avesse esplicitato, come era nei suoi poteri, le censure che riguardavano sia la carenza delle competenze professionali del dottor COGNOME che l’adeguatezza del Centro IMID, di cui il dottor COGNOME era responsabile, a occuparsi di malattie rare, censure che il dottor COGNOME aveva poi espresso pubblicamente in missive dirette al dottor COGNOME, nel corso di conferenze stampa e incontri anche istituzionali il successivo mese di gennaio 2013 e nelle segnalazioni inviate alle autorità competenti ai controlli in materia sanitaria.
Infatti, la Corte di merito ha esaminato, per inferirne la irrilevanza, anche le condotte immediatamente precedenti al deferimento del dottor COGNOME a procedimento disciplinare (intervenuto il 4 marzo 2013), quali l’incontro con il dottor COGNOME presso il Centro RAGIONE_SOCIALE dell’8 gennaio 2013; la conferenza stampa presso il medesimo centro alla presenza del personale e concomitanti con l’istruttoria del procedimento disciplinare (fra questi l’incontro del 5 maggio 2013, anche in questo caso registrato) con il dottor COGNOME componente del Consiglio che aveva illustrato al dottor COGNOME le risultanze dell’istruttoria invitandolo a non inasprire i rapporti con il dottor COGNOME e con l’Ordine che gli era solidale.
Anche le dichiarazioni della dottoressa COGNOME in relazione al contenuto della lettera che la stessa aveva sottoscritto a favore delle attività del Centro e del suo colloquio con il dottor COGNOME sono state esaminate evidenziando la equivocità delle dichiarazioni sulla minaccia di “radiazione” del dottor COGNOME (v. pag. 39 della sentenza impugnata) che il dottor COGNOME avrebbe proferito nel corso del colloquio piuttosto che quella del concreto pericolo di sottoposizione ad un procedimento di valutazione del dottor COGNOME – effettivamente intrapreso.
In tale contesto sono state esaminate, infine, anche le dichiarazioni del ragioniere COGNOME che lo aveva invitato ad “accondiscendere” al procedimento disciplinare.
A ulteriore smentita della valenza costrittiva delle iniziative del dottor COGNOME, la Corte di appello ha rilevato che il dottor COGNOME il 17 marzo 2013 aveva presentato una denuncia-querela contro il dottor COGNOME allegando documentazione e il contenuto del colloquio del 15 dicembre 2012, denuncia nella quale il
comportamento del dottor COGNOME veniva ritenuto “gravemente ingiurioso, diffamatario, calunniatorio e minaccioso” ma senza ulteriori precisazioni.
Sulla scorta di tale ricostruzione non presta il fianco a censure la conclusione della Corte di appello secondo cui la prospettazione di avvio del procedimento disciplinare (poi conclusa in senso sfavorevole al dottor COGNOME) non integra un abuso costrittivo per la prospettazione di un danno contra ius tenuto conto che ai fini della configurabilità del delitto di concussione non rileva, a differenza di quanto prospettato dai ricorrenti, la portata più o meno coartante della minaccia, ma l’ingiustizia del male minacciato poiché non era ingiusta la minaccia di avvio del procedimento disciplinare poiché, come si è detto in premessa, questa deve essere ricostruita sulla scorta del carattere legittimo o meno della condotta e individuata nella prospettazione di un male futuro e ingiusto che sia in dominio dell’agente realizzare.
La parte civile ha insistito sulla sua posizione di subordinazione al presidente COGNOME nell’ambito del procedimento disciplinare anche perché i componenti del Consiglio sarebbero stati solidali con le decisioni del presidente dell’organo (come riferitogli in particolare dal collega COGNOME e dal ragioniere COGNOME): la posizione di sovraordinazione dell’agente pubblico è tipica del reato in esame e si riflette nella asimmetria tra l’agente pubblico agente e del privato. Tuttavia il parametro sul quale valutare la ingiustizia del danno non può risolversi nella generica evocazione della posizione di sovraordinazione del presidente dell’organo disciplinare in relazione ad un procedimento in cui l’interessato ha la possibilità di difesa sia attraverso il contraddittorio che attraverso l’impugnazione del provvedimento emesso.
L’avvio del procedimento disciplinare e il suo esito, non integrano ex se un sopruso o una condotta costrittiva tale da “mettere spalle al muro” la persona che vi è sottoposta tanto più che, nel caso in esame, le dimissioni del dottor COGNOME da direttore del Centro IMID – che costituivano secondo la prospettazione dei ricorrenti, il contraltare delle condotte minatorie – sono intervenute, per volontà del dottor COGNOME, ma in un momento successivo all’adozione del provvedimento di sospensione, che era già stato oggetto di impugnazione attraverso la quale il dottor COGNOME aveva potuto esercitare il diritto di difesa presso un organo terzo, rispetto al Consiglio dell’Ordine.
La concreta sequenza dei fatti esclude che, al di là della percezione soggettiva che ne abbia avuto il dottor COGNOME, la presentazione delle dimissioni sia da porre sul piano causale come conseguenza delle condotte agite dal dottor COGNOME provocando una condizione di soggezione psicologica tale da sospingerlo alle dimissioni che, secondo le conclusioni della Corte di merito, neppure hanno costituito un vantaggio ingiusto per il dottor COGNOME che non era determinato alla
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chiusura del Centro da una spinta di carattere personale e diretto ma, al più, secondo quanto riferito dalla parte civile, dalle spinte dei medici nutrizionisti che vedevano nel Centro RAGIONE_SOCIALE un concorrente nella gestione del lucroso settore e dal fine di assecondarle per ragioni di carattere politico. Una spinta nella quale, tuttavia, non è neppure ravvisabile un concetto di utilità apprezzabile sul piano processuale trattandosi di una prospettazione del tutto apodittica e correlata alla mera posizione di vertice del Consiglio e del consenso elettorale che l’elezione da parte dei rappresenti presuppone.
10. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte civile al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna la parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17 gennaio 2025
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La Consigliera relatrice
Il President e