Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23654 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23654 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a VENEZIA il 02/09/1967
avverso la sentenza del 15/07/2024 della CORTE D’APPELLO DI VENEZIA Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni depositate dall’avvocato NOME COGNOME nell’interesse delle parti civili NOME COGNOME e NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, in subordine rigettarlo, con condanna dell’imputato all a refusione delle spese di parte civile, come da nota spese allegata;
lette le conclusioni depositate dall’avvocato NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente NOME COGNOME con le quali ha chiesto annullarsi la sentenza impugnata e, in subordine, dichiararsi la prescrizione per il reato contestato al capo 1) del l’imputazione.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Venezia, con la sentenza emessa il 15 luglio 2024, riformava parzialmente quella del Tribunale di Venezia, dichiarando l’estinzione reato di truffa contestato al capo 2) dell’imputazione, rideterminando la pena e confermando nel resto la sentenza di primo grado, anche quanto alle statuizioni civili.
La sentenza di appello confermava quindi la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto previsto dal capo 1), relativo alla violazione dell’art. 166 d.lgs. n. 58 del 1998, per aver svolto, COGNOME, attività di investimento, utilizzando un blog e stipulando contratti con i clienti, ricevendo denaro dagli stessi, solo in alcuni casi remunerati con periodici versamenti di denaro. Tale condotta risultava contestata dal gennaio 2006 al giugno 2017.
La Corte territoriale confermava anche la responsabilità penale di COGNOME quanto al capo 3), relativo alla contestazione di truffa aggravata dall’aver cagionato un danno di particolare gravità in danno di NOME COGNOME e COGNOME NOME, avendo ricevuto dagli stessi una somma di 70mila euro, restituendone solo 600,00 euro, reato commesso tra il 21 gennaio 2018 e il 2 marzo 2018.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di due motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo deduce vizio di motivazione, sotto forma di travisamento della prova, avendo la Corte di appello erroneamente tratto dal compendio probatorio che l’imputato si fosse appropriato di 713.500,00 euro, in luogo di 255.289,05, con riferimento al capo 1).
In particolare, la Corte di appello avrebbe reiterato l’erronea ricostruzione già operata dal G.u.p. del Tribunale di Venezia, in sede di giudizio abbreviato, travisando il contenuto del processo verbale di constatazione della Guardia di finanza di Venezia, del 17 gennaio 2023, dal quale emerge che i ricavi illeciti di COGNOME risultavano essere di oltre 255mila euro e non i 713mila euro che invece sono somme perse a causa degli investimenti effettivi, non per appropriazione da parte di COGNOME. Tale travisamento doveva determinare la Corte di appello a una rivalutazione della pena, correlata all’importo dei 713mila euro e non a quello inferiore di 255mila euro, oltre che a concedere le circostanze attenuanti generiche.
Il secondo motivo lamenta violazione di legge in relazione agli art. 133, 164 e 175 cod. proc. pen., quanto alla non menzione e alla sospensione condizionale della pena.
Quanto a tale ultimo beneficio la motivazione che lo nega risulterebbe parziale, non valutando l’incensuratezza dell’imputato, il contributo che COGNOME ha fornito in sede di indagine ammettendo di non essere iscritto nell’albo dei promotori finanziari, l’ assenza di un tenore di vita dispendioso , l’intensità del dolo, il carattere e la personalità del reo nel suo complesso.
Il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi del rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e successive integrazioni.
6. Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe, eccependo il ricorrente, con le conclusioni, l’intervenuta estinzione del reato sub capo 1) per prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
Quanto al primo motivo, lo stesso non è consentito così come formulato.
2.1 A ben vedere va premesso che nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, che ricorre nella relazione fra le due attuali sentenze di merito, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti – con specifica deduzione – che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 -01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 26921701).
La documentazione che si indica travisata era già contenuta nel materiale probatorio utilizzato per la decisione di primo grado, e per altro, dalla stessa prospettazione del ricorrente, come anche dalla sentenza di secondo grado, emerge che la doppia valutazione del medesimo risultato di prova sia avvenuta in entrambe i gradi di giudizio in modo sostanzialmente omogeneo.
L ‘assenza della novità del materiale probatorio travisato determina la natura non consentita della doglianza.
Per altro, da quanto emerge dalla sentenza impugnata e dallo stesso atto di appello (fol. 2), è stato proprio con quest’ultimo che l’attuale ricorrente ha indicato in 700mila euro le somme lasciate in disponibilità dell’imputato, in luogo dell’importo di un oltre miliardo e cinquecentomila euro. In tal senso il motivo ha natura inedita, nel senso che non è mai stato dedotto con l’appello che l’appropriazione avvenne solo per circa 270mila euro, come ora evidenziato, bensì lo stesso appellante prospettava un importo di circa 400mila euro. In sostanza è mutata la doglianza dell’attuale ricorrente.
Per altro, la doglianza di travisamento deve indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato. (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085 -01; Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep.
17/01/2019, COGNOME, Rv. 274816 -07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010 – dep. 22/12/2010, COGNOME, Rv. 249035).
A tal riguardo, la deduzione connette l’erronea valutazione alla diversa dosimetria della pena e all’omesso riconoscimento delle circosta nze attenuanti generiche, collegate entrambe al quantum dell’appropriazione , ritenuto travisato dal ricorrente. Ma, per quanto si leggerà a seguire, le motivazioni contestate si fondano su plurimi profili, solo in parte ‘attaccati’ dalla doglianza relativa al danno prodotto.
2.2 D’altro canto, deva anche osservarsi come siano manifestamente infondate le ragioni proposte con il motivo di ricorso in ordine alla misura del danno e sostanzialmente alla diligenza dell’imputato nell’investimento concreto delle risorse e nella restituzione delle stesse, come anche nella valutazione del rischio dell’investimento stesso che, nella prospettiva difensiva, non dovrebbe essere attribuito all’imputato, in quanto oggetto di una consapevole scelta dell’investitore.
A riguardo va chiarito che quello di abusivismo finanziario è un reato di pericolo presunto a tutela del corretto funzionamento del mercato, avente ad oggetto lo svolgimento di servizi o attività di investimento o di gestione di risparmi altrui (da ultimo Sez. 5, n. 37528 del 22/10/2020, Kluzer, Rv. 280109 -01), da parte di operatore non abilitato ai sensi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.
La natura di reato di pericolo esclude la rilevanza del danno, ai fini della integrazione del reato, nel senso che il danno è in sé connesso all’aver svolto attività di investimento, gestione collettiva del risparmio, offerta di prodotti finanziari, in assenza delle competenze tecniche assicurate dall’abilitazione richiesta. Infatti, l’effettivo impiego di quanto versato dal cliente nello strumento finanziario prospettato dal promotore abusivo costituisce un post factum estraneo alla struttura del reato in questione (Sez. 5, n. 28157 del 03/02/2015, Lande, Rv. 264916 -01).
In tal senso deve confermarsi che vertendosi in tema di reato di pericolo, allorché i risparmi del contraente siano immessi nel mercato mobiliare da promotore abusivo, non ha rilevanza in quale modo – fedele o infedele – sia avvenuta la gestione dei risparmi degli investitori (Sez. 5, n. 22597 del 24/02/2012, COGNOME, Rv. 252958 -01; conf.: N. 22419 del 2003 Rv. 224951 – 01, N. 31893 del 2007 Rv. 237569 -01).
Come si osserva in dottrina, il legislatore ha inteso salvaguardare le fondamenta e l’affidabilità del mercato finanziario, anticipando la soglia della tutela, richiedendo che gli operatori siano forniti di requisiti organizzativi, tecnici e di onorabilità che solo l’abilitazione assicura.
E’ in questa prospettiva che il reato di abusivismo finanziario, previsto dall’art. 166, comma 1, del d.lgs 24 febbraio 1998, n. 58, può concorrere con quello di
truffa, stante la sostanziale differenza esistente tra le due fattispecie, in quanto l’abusivismo è reato di pericolo, inteso a tutelare l’interesse degli investitori a trattare soltanto con soggetti affidabili nonché l’interesse del mercato mobiliare, nel suo complesso e nei suoi singoli operatori, ad escludere la concorrenza di intermediari non abilitati, mentre la truffa è reato istantaneo di danno, che, per la sua esistenza, richiede l’effettiva lesione del patrimonio del cliente, per effetto di una condotta consistente nell’uso di artifizi o raggiri e di una preordinata volontà di gestire il risparmio altrui in modo infedele, e si consuma al momento della produzione dell’effettivo pregiudizio del raggirato e del conseguimento dell’ingiusto profitto dell’agente (Sez. 5, n. 32514 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 279873 -01; conf.: N. 43026 del 2009 Rv. 245433 – 01, N. 42085 del 2010 Rv. 248510 -01).
2.3 Deve pertanto affermarsi che il reato di abusivismo finanziario è un reato di pericolo presunto a tutela del corretto funzionamento del mercato, avente ad oggetto lo svolgimento di servizi o attività di investimento o di gestione di risparmi altrui cosicché, in assenza di abilitazione dell’operatore , non ha rilevanza in quale modo – fedele o infedele – sia avvenuta la gestione dei risparmi degli investitori, in quanto le modalità di impiego di quanto versato dal cliente costituiscono un post factum estraneo alla struttura del reato in questione.
2.4 Quanto alla determinazione della pena l’argomento di censura, comunque, non è decisivo, in quanto la motivazione della sentenza di primo grado, confermata dalla Corte di appello, in ordine alla misura della pena si fondava non solo sul ‘grave danno’, ma anche sulla durata e le modalità della condotta, nonché sull’intensità del dolo, profili non ‘attaccati’ dal ricorrente. Il che rende la censura aspecifica.
Analogamente, l’incidenza della doglianza in ordine alle circostanze attenuanti generiche non è disarticolante.
Quanto alle circostanze attenuanti generiche la Corte di appello offre una motivazione oltremodo adeguata tenuto in conto che individua molteplici ragioni ostative, fra le quali anche quella dell’importo non restituito di 700mila euro , che certamente riguarda anche il delitto di truffa: ma, come noto, basta la sussistenza di un unico motivo ostativo, quindi anche di quelli ulteriori valutati – quali la protrazione della condotta illecita per oltre dieci anni, l’abuso della fiducia dei clienti, le modalità sistematiche e professionali poste in essere – per escludere l’attenuazione della pena.
Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in considerazione di altrimenti non codificabili situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del suo autore. In tal senso la necessità di
tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, avendo il giudice l’obbligo, quando ne affermi la sussistenza, di fornire apposita e specifica motivazione idonea a fare emergere gli elementi atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio ( ex multis e da ultimo Sez. 3, n. 19639 del 27 gennaio 2012, Gallo e altri, Rv. 252900; Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013 – dep. 15/02/2013, P.G. in proc. La Selva, Rv. 254716). Ed è in questa cornice che devono essere inseriti gli ulteriori principi per cui la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, anche quindi limitandosi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio (Sez. 6 n. 41365 del 28 ottobre 2010, Straface, rv 248737; Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011, COGNOME e altri, Rv. 249163). Si è dato atto della pluralità di elementi ostativi, richiamati dalla sentenza impugnata, dei quali è sufficiente indicarne anche uno solo, cosicché il venir meno della quantificazione dell’importo oggetto di appropriazione comunque non risulta adeguato a disarticolare gli argomenti spesi da parte dell’accesso.
Quanto al secondo motivo, quello relativo alla non menzione ex art. 175 cod. pen. è del tutto generico in quanto a fronte della motivazione offerta dalla Corte di merito nessuna specifica doglianza viene proposta, essendo il motivo teso solo a contestare in modo puntuale la motivazione per la denegata sospensione condizionale della pena.
Quanto a quest’ultimo beneficio, la valutazione operata dalla Corte territoriale al fol. 5 della sentenza fonda la prognosi negativa sulla serialità e sistematicità delle condotte, sulle modalità professionali, sull’ampio arco temporale interessato di oltre un decennio, sulla circostanza della appropriazione di un importo di oltre 700mila euro non restituito, nonostante le azioni giudiziarie poste in essere dalle persone offese.
Si tratta di motivazione congrua e non manifestamente illogica, in quanto in tema di sospensione condizionale della pena il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti giudiziari (Sez. 5, n. 17953 del 07/02/2020, Filipache, Rv. 279206 -02; conf.: N. 30562 del 2014 Rv. 260136 – 01, N. 48013 del 2018 Rv. 273995 – 01, N. 57704 del 2017
Rv. 272087 – 01, N. 19298 del 2015 Rv. 263534 – 01, N. 35852 del 2016 Rv. 267639 -01).
Pertanto, anche rispetto al tema della incensuratezza, evocato dalla difesa, questa Corte ha affermato che per escludere la motivazione apparente occorre che il giudice, per giustificare il diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena – nonostante l’incensuratezza dell’imputato, costituente un elemento di indubbia valenza positiva – individui uno o più elementi di segno contrario idonei a neutralizzarla (Sez. 4, n. 33746 del 26/04/2017, COGNOME, Rv. 270609 -01; conf. N. 10494 del 1997 Rv. 209024 – 01, N. 2773 del 2012 Rv. 254969 -01). Il che nel caso in esame è avvenuto, cosicché il motivo è pertanto infondato.
4. Il ricorso è dunque complessivamente infondato.
Quanto alla eccezione di intervenuta prescrizione, prospettata con le conclusioni, la natura di reato eventualmente abituale del delitto di esercizio abusivo di intermediazione finanziaria esclude che la prescrizione possa essersi verificata prima della sentenza di appello del 15 luglio 2024, come invece deduce la difesa.
L ‘ultima condotta del delitto ex art. 166 d.lgs. cit. è del giugno 2017 cosicché l’estinzione maturerà solo al decorso di otto anni, aumentata di due anni per interruzione ex art. 161 cod. proc. pen., quindi alla data del 1 giugno 2027.
Sulla natura eventualmente abituale e in merito alla individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, si richiama Sez. 5, n. 8026 del 14/12/2016, dep. 20/02/2017, COGNOME, Rv. 269451 -01, per la quale il reato di esercizio abusivo di intermediazione finanziaria ha natura eventualmente abituale, potendosi risolvere tanto in un’unica condotta idonea a configurarlo quanto nella reiterazione di più condotte omogenee che danno vita ad uno stesso reato, sicchè, in quest’ultimo caso, coincidendo il momento della consumazione delittuosa con la cessazione dell’abitualità, ai fini della prescrizione, il termine decorre dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico, mentre, nell’ipotesi di condotta protrattasi sotto la vigenza di due differenti regimi normativi, la disposizione applicabile è solo quella vigente alla data della consumazione (nello stesso senso, seppur con riferimento al precedente al delitto di abusivo esercizio della professione, Sez. 3, n. 435 del 14/03/1968, Rv. 107836; così anche Sez. 5, n. 16118 del 14/12/2015, dep. 19/04/2016, COGNOME, Rv. 267142 -01).
Pertanto, essendo stata introdotta dall’art. 16 d.lgs. del 17 settembre 2007 n. 164 la pena edittale massima su indicata, con vigenza dal 1 novembre 2007, il termine di prescrizione va determinato come in precedenza evidenziato, trattandosi di reato eventualmente abituale.
Quanto al delitto di truffa sub capo 3), la condotta più risalente risulta consumata il 21 febbraio 2018 e, dunque, non è estinta per prescrizione se non alla data del 21 agosto 2025, dovendo per altro computarsi in aggiunta le sospensioni per la cd. legge Orlando, in quanto per i reati commessi dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019 si applica la disciplina di cui alla legge n. 103 del 2017, indicati dall’art. 159 cod. pen. vigente ratione temporis , tanto emergendo dalla informazione provvisoria n. 19/2024, in assenza della motivazione alla data della odierna udienza, relativa alla decisione delle Sez. U, ud. 12 dicembre 2024.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
Dal rigetto del ricorso discende anche la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, come indicate in dispositivo, che si liquidano in complessivi euro 6000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili NOME COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME che liquida in complessivi euro 6.000, oltre accessori di legge.
Così deciso il 23/05/2025