Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 18658 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 18658 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MONZA il 31/12/1961
avverso la sentenza del 18/09/2024 della CORTE di APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME.
Il procedimento si celebra con contraddittorio scritto, senza la presenza delle parti in mancanza di richiesta di trattazione orale pervenuta nei termini secondo quanto disposto dagli artt. 610, comma 5 e 611, comma 1bis e ss. cod. proc. pen.
Il Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME con requisitoria scritta, concludeva chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla statuizione concernente il capo di imputazione F), con rinvio alla Corte di appello di Milano perché accerti l ‘ eventuale sussistenza del delitto di cui all’art. 346 -bis cod. pen. come modificato dalla legge n. 114 del 9 agosto 2024, anche verificando se le condotte tenute dai pubblici funzionari integrino autonome condotte di reato, ivi compresa quella prevista dalla nuova fattispecie di cui all’art. 314 -bis cod. pen., e, quanto alle condotte di corruzione propria contestate ai capi ‘E’, ‘I’ (indicato nel decreto di giudizio immediato come capo ‘J’), ‘K’ (indicato nel decreto di giudizio immediato come capo ‘L’) ed ‘M’ (indicato nel decreto di giudizio immediato come capo ‘N’), limitatamente all’ind ividuazione della fattispecie di reato più grave e al calcolo degli aumenti della pena per la continuazione con i reati ‘satellite’, tenuto conto dell’applicazione, alle fattispecie contestate ai capi ‘E’ ed ‘M’, (indicato nel decreto di giudizio immediato come capo ‘N’), della disciplina sanzionatoria
previgente all’entrata in vigore della legge n. 69/2015; per il resto, chiedeva il rigetto del ricorso, con le conseguenti statuizioni.
L’Avv. NOME COGNOME per Finlombarda e l’Avv. NOME COGNOME per OMC e OMI concludevano depositando conclusioni e nota spese.
RITENUTO IN FATTO
La C orte di appello di Milano, decidendo in seguito all’annullamento con rinv io disposto dalla Cassazione, confermava la responsabilità di NOME COGNOME per i seguenti reati:
corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, descritta al capo e);
traffico di influenze, così riqualificata la condotta dalla Corte di cassazione, descritta al capo f);
corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, descritta al capo i) (così rubricato in sentenza, ma indicato come capo j) nel decreto di giudizio immediato);
corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, descritto nel capo k) (così rubricato in sentenza, ma indicato come capo l) nel decreto di giudizio immediato);
corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, descritto al capo m) (così rubricato in sentenza, ma indicato come capo n) nel decreto di giudizio immediato);
corruzione impropria o corruzione per l’esercizio della funzione e sensi dell’art. 318 cod. pen. descritta al capo q);
corruzione impropria o per l’esercizio della funzione ai sensi dell’art. 318 cod. pen. descritta al capo r).
La Canegrati veniva invece:
assolta dall ‘imputazion e di partecipazione alla associazione a delinquere descritta al capo a) della rubrica accusatoria,
prosciolta dalla condotta descritta al capo p), per decorso del termine di prescrizione.
La Corte di appello rideterminava la pena in anni sei di reclusione così determinata: ritenuto più grave il capo E), pena base, anni sei di reclusione, ridotta ex art. 62bis cod. pen., ad anni quattro di reclusione, aumentata ex art. 81 cod. pen. di mesi cinque di reclusione per le tre condotte di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (capi I, K, M), ulteriormente aumentata di mesi tre e giorni quindici di reclusione per le due condotte di corruzione impropria (capi Q, R); infine, ulteriormente aumentata la pena di mesi due di reclusione per il traffico di influenze di cui al capo F).
Contro tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME che deduceva:
2.1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla conferma della responsabilità per la condotta descritta al capo f) riqualificata come traffico di influenze illecite ai sensi dell’art. 346 -bis cod. pen.: si deduceva che la modifica dell’art. 346bis cod. pen. avvenuta con l. n. 114 del 2014 avrebbe depenalizzato la condotta del mediatore che induce i pubblici ufficiali a compiere atti contrari ai doveri del proprio ufficio, quando tali atti ‘non’ costituiscano reato; pertanto, le condotte descritte nel capo f) non sarebbero più perseguibili perché non sarebbe stato dimostrato tale elemento costitutivo, anche tenuto del l’abo lizione del reato di abuso di ufficio.
Nel dettaglio, si evidenziava: (a) che la pressione esercitate nell’interesse della ricorrente affinché si aprisse il servizio di Bollate sarebbe stata già valutata come condotta inidonea ad integrare un atto contrario ai doveri d’ufficio (pag. 28 della sentenza impugnata); (b) che la vicenda relativa al gruppo San Donato non integrerebbe né una turbativa d’ asta, né un abuso d’ufficio, reato che, peraltro, dopo l’abolizione , non poteva più concorrere ad integrare il traffico di influenze illecite; (c) che anche la turbativa d’asta descritta al capo d), non avrebbe potuto integrare un elemento costitutivo del reato in questione, mancando ogni prova della contrarietà della condotta descritta ai doveri di ufficio (peraltro, in relazione a tale reato, dichiarato prescritto, era stato disposto l’annullamento della prima sentenza di appello con rinvio al Giudice civile per l’accertamento dell’ an e del quantum della responsabilità);
2.2. violazione di legge (artt. 81, 133 cod. pen.) e vizio di motivazione: (a) il reato più grave sarebbe stato identificato in quello descritto al capo e) del decreto di giudizio immediato con motivazione insufficiente e senza alcuna comparazione con il reato descritto al capo j); si allegava che secondo la prima sentenza di appello – che aveva effettuato sul punto un accertamento definitivo – i reati descritti al capo e), al capo l), ed al capo n) (così rubricati nel decreto di giudizio immediato), sarebbero stati consumati prima della entrata in vigore della l. n. 69 del 2016 che aveva aggravato la forbice edittale dei reati contestati; (b) non sarebbe stata fornita nessuna motivazione in ordine alla definizione degli aumenti per la continuazione; (c) si deduceva, infine, che la rideterminazione della struttura del reato continuato conseguente alla identificazione di un diverso reato cui commisurare la pena-base avrebbe imposto la ridefinizione degli aumenti per la continuazione per i reati-satellite, diversamente da quanto effettuato dalla Corte di appello che, per i fatti descritti ai capi e), j), l), m), n) del decreto di giudizio immediato, aveva inflitto un aumento ‘ identico ‘ a quello stabilito dalla prima sentenza di appello, ritenendo illegittimamente di non disporre di alcuna discrezionalità;
2.3. violazione di legge (art. 627 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione in relazione alla parte della motivazione della sentenza impugnata che aveva confermato le statuizioni civili in relazione al capo d), nonostante su tale punto la Cassazione avesse già disposto
l’annullamento con rinvio per la valutazione sia dell’ an, che del quantum della responsabilità civile.
Infine, si deduceva che, per quanto tale parte della motivazione non fosse coerente con il dispositivo, che correttamente aveva escluso la conferma delle statuizioni civili per il capo d), il linguaggio utilizzato nella motivazione, che esprimeva la sostanziale conferma di responsabilità penale per la condotta descritta al capo d) avrebbe violato il diritto alla presunzione di innocenza tutelato sia dalla Costituzione che dagli ordinamenti sovranazionali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è fondato.
1.1. Il reato di traffico di influenze illecite come novellato dalla l. 9 agosto 2024, n. 114 sanziona la condotta del mediatore che, attraverso la promessa o la dazione di denaro o di altra utilità ‘economica’, ed utilizzando ‘ intenzionalmente ‘ relazioni ‘esistenti’ (e non vantate) con i pubblici funzionari, (a) remunera un pubblico ufficiale per l’esercizio delle sue funzioni, (b) induce lo stesso a compiere «un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito».
L’intervento ha una chiara natura abolitiva essendo non più penalmente rilevanti le condotte di mediazione (a) basate su relazioni millantate, (b) non supportate dal dolo intenzionale, (c) caratterizzate dalla promessa o dazione di una utilità di natura ‘non’ economica, (d) dirette ad indurre il funzionare a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio che ‘non’ integri anche un reato idoneo a generare un vantaggio indebito.
1.2. Tale intervento abolitivo ha generato sia in capo al Giudice del rinvio che alla Cassazione l’onere di valutare la (persistente) illiceità della condotta contestata.
Si riafferma, infatti, che nel giudizio di rinvio ed – eventualmente – in quello successivo di legittimità, qualora non si sia provveduto, deve essere riconosciuta l’ abolitio criminis (conseguente ad un sopravvenuto parziale restringimento dell’area della condotta penalmente rilevante) anche quando l’annullamento non ha attinto i punti della decisione riguardanti i presupposti della condanna (Sez. 4, n. 51958 del 24/11/2016, COGNOME, Rv. 268348 -01; Sez. 6, n. 41683 del 19/10/2010, Ndaw, Rv. 248720 -01).
Il giudicato interno formatosi a seguito dell’annullamento parziale della Corte di cassazione non prevale, infatti, sull’ abolitio criminis , la quale fa venir meno, prima ancora che la validità e l’efficacia della norma penale incriminatrice, la sua stessa esistenza nell’ordinamento giuridico, sicché il giudice, formalmente investito della cognizione della fattispecie, oggetto di abrogazione, deve preliminarmente dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, in ossequio al precetto di cui all’art. 2 cod. pen. (Sez. 6, n. 26112 del 16/04/2003, Costa, Rv. 226010 -01).
1.3. Stabilito che sussiste un onere di valutazione della persistente illiceità delle condotte, occorre individuare quale sia l’area di discrezionalità riservata al Giudice del rinvio ed alla Cassazione per effettuare tale scrutinio quando sul l’accertamento del reato abolito si sia formato -come nel caso di specie -il giudicato.
Il Collegio ritiene infatti che, in tal caso, sia la Cassazione che il Giudice del rinvio, dispongano di poteri di accertamento limitati, essendo esclusa la possibilità di ‘ riattivare ‘ il giudizio di cognizione, che è definitivamente concluso, sicché le valutazioni in ordine alla persistente illiceità della condotta potranno essere compiute solo sulla base della ricostruzione della condotta ‘già’ effettuata nel corso del giudizio di cognizione concluso.
Sul punto, con riguardo al giudizio di esecuzione, la Cassazione ha costantemente affermato che in caso di abolitio criminis il giudice dell’esecuzione non può modificare l’originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, né sussumere la condotta del condannato sotto una diversa fattispecie, se la riconducibilità della condotta a detta fattispecie non ha mai formato oggetto di accertamento e di formale contestazione nel giudizio di cognizione (Sez. 1, n. 4461 del 19/01/2015, COGNOME, Rv. 262535 -01; Sez. U, n. 29023 del 27/06/2001, COGNOME, Rv. 219223 -01). Si tratta di una interpretazione, rispettosa della formazione del giudicato e della perenzione dei poteri di accertamento relativi alla ricostruzione della condotta, la cui ratio può essere estesa anche nel caso che ci occupa caratterizzato dalla formazione del c.d. ‘ giudicato progressivo ‘ , atteso che il giudizio non risulta concluso solo con riguardo alla determinazione della sanzione, ma è definitivamente concluso con riguardo all’accertamento di responsabilità.
Si ritiene, cioè, che nei casi in cui si sia formato il giudicato in ordine alla responsabilità su un reato oggetto di un parziale intervento abolitivo ed il giudizio penda solo per la definizione del trattamento sanzionatorio, la valutazione della persistente illiceità della condotta debba essere effettuata sulla base della ricostruzione effettuata nel giudizio concluso, senza la possibilità di effettuare ulteriori accertamenti di merito post iudicatum .
1.4. Esclusa la possibilità di riattivare il giudizio di cognizione su un reato coperto dal giudicato il Collegio osserva che, nel caso in esame, la Corte di appello si è limitata a rilevare che la Cassazione nella sentenza rescindente aveva ritenuto che il COGNOME ed il COGNOME avessero ‘ favorito ‘ la COGNOME dietro compenso. E, nell’esaminare le condotte contestate, ha individuato tra gli atti ‘ contrari ai doveri di ufficio ‘ , compiuti dal COGNOME e dal COGNOME, le seguenti condotte: aver favorito gli interessi della COGNOME nei suoi rapporti con il RAGIONE_SOCIALE; aver favorito Servicedent in ordine alla gara indetta dall’Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano relativa al servizio di odontoiatria, inducendo i funzionari responsabili a inserire in un unico bando tutti i servizi ambulatoriali del territorio di competenza, comprendendovi anche quello, di nuova istituzione, sito in INDIRIZZO a Milano; aver favorito l’avvio del service di Garbagnate, con indebite pressioni
su NOME COGNOME infine, essere stati nella sistematica disponibilità della RAGIONE_SOCIALE‘.
Non sono stati perciò identificati gli elementi costitutivi della condotta illecita descritta nel novellato art. 346bis cod. pen., ovvero la sussistenza di una mediazione diretta ad indurre il funzionario pubblico a consumare ‘ un reato che generi un vantaggio indebito ‘; la Corte territoriale, infatti, non ha individuato i reati oggetto dell’induzione conseguente alla mediazione illecita, né ha valutato l’effetto indirettamente abrogativo correlato alla eliminazione del reato di abuso di ufficio.
La carenza motivazionale rilevata si associa al fatto che anche la struttura del capo di imputazione non consente di individuare gli elementi indicativi della persistente illiceità della condotta contestata, atteso che si descrive l’ azione di mediazione del COGNOME e del COGNOME su mandato della COGNOME volta a ‘ favorire ‘ gli interessi della ricorrente con azioni che, al più, possono essere ricondotte alla fattispecie dell’abuso di ufficio, ora abolita.
1.5. Si rileva, da ultimo, che il Collegio è consapevole del fatto che la Cassazione ha affermato che a seguito dell’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio, non è suscettibile di revoca, ex art. 673 cod. proc. pen., la sentenza di condanna per il delitto di traffico di influenze illecite, quando il giudice della cognizione abbia ritenuto che l’illiceità dell’interferenza derivasse dalla sua finalizzazione alla realizzazione del l’ abrogato delitto di abuso di ufficio, nel caso in cui la condotta conservi disvalore penale a norma dell’art. 314bis cod. pen., introdotto dall’art. 9 d.l. 4 luglio 2024, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2024, n. 112 (Sez. 1, n. 5041 del 10/01/2025, NOME, Rv. 287431 – 01). L’interpretazione in questione si fonda sulla valorizzazione della clausola di salvaguardia contenuta nell’ incipit del nuovo art. 314bis cod. pen. (“fuori dei casi previsti dall’art. 314”), la quale rivela che il delitto di peculato mantiene i suoi contenuti e che l’art. 314bis cod. pen. sanziona, invece, le condotte finora sussunte all’interno dell’abrogato art. 323 cod. pen., ossia le distrazioni compatibili con i fini istituzionali dell’ente.
Tuttavia, nel caso in esame, la limitatezza dei poteri di accertamento del fatto post iudicatum e l’assenza di elementi già accertati che consentano di inquadrare le condotte descritte nel capo f) nella nuova fattispecie prevista dall’art. 314 -bis cod. pen. non consente di utilizzare tale ‘ apertura ‘ giurisprudenziale per valutare la persistente illiceità della condotta contestata al capo f).
1.6. In conclusione , rilevata l’impossibilità di ricavare dalla analisi della condotta descritta al capo f), oggetto di un giudizio concluso, gli elementi per ricondurre la stessa alla nuova fattispecie del traffico di influenze illecite, il Collegio non può che disporre l’annullamento s enza rinvio della sentenza impugnata in relazione al reato di cui all’art. 346bis cod. pen. (capo f) perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato e, conseguentemente, deve eliminare la relativa pena infilitta, pari a mesi due di reclusione.
Il secondo motivo di ricorso, che contesta il difetto di motivazione in ordine alla definizione del trattamento sanzionatorio, sia con riguardo alla identificazione del reato più grave che in ordine alla definizione degli aumenti per la continuazione, è fondato, nei termini di seguito indicati.
2.1. Con riguardo alla identificazione del reato più grave la Corte di appello ha offerto una motivazione carente in quanto, pur ritenendo correttamente che la violazione più grave dovesse essere individuata nelle condotte agite dopo l’entrata in vigore della l. n. 69 del 2015, ha identificato il reato più grave in quello descritto al capo e) (motivazione a pag. 31 della sentenza impugnata che richiama le note a pagg. 31 e 32 della sentenza impugnata), senza effettuare alcuna comparazione con il capo j) e senza prendere in esame le valutazioni in ordine all ‘ identificazione del tempus commissi delicti compiute dalla prima sentenza di appello, che non sono state annullate, sicché sul punto sono passate in giudicato.
2.2. Con riguardo agli oneri motivazionali che incombono sul Giudice della cognizione quando determina il trattamento sanzionatorio e, segnatamente, quando definisce gli aumenti per la continuazione il Collegio riafferma che il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite. Corre l’obbligo di rilevare che il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene (Conf., Sez. U, n. 7930/95, Rv. 201549 -01) (v., Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 -01).
Va detto che nella giurisprudenza di legittimità si è registrata una chiara tendenza verso l’ attenuazione del rigore con cui si interpreta tale onere motivazionale essendo stato affermato che, il giudice, nel calcolare l’incremento sanzionatorio per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall’art. 132 cod. pen. (Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, COGNOME, Rv. 284005 -01).
Nel caso in esame il Collegio rileva che gli aumenti non si configurano esigui e, ciononostante, sono stati quantificati in modo conforme a quanto stabilito dalla prima sentenza di appello sulla base di una illegittima valutazione sull’ assenza di discrezionalità circa la possibilità di ridefinire gli aumenti di pena per reati ‘ giudicat i’ e non oggetto di riqualificazione (pag. 32 della sentenza impugnata).
Tale affermazione non tiene conto del consolidato principio di diritto secondo cui non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice
dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653 -01).
2.3. In conclusione, rilevata la carenza di motivazione sia in ordine alla identificazione del reato più grave che in ordine alla quantificazione degli aumenti per la continuazione irrogati in relazione ai reati satellite dopo la modifica della struttura del reato continuato, va disposto l’annullamento della sentenza impugnata , con rinvio di altra sezione della Corte di appello di Milano che, su tali punti, procederà a nuovo giudizio.
Il terzo motivo di ricorso, che denuncia la violazione del mandato rescindente e la violazione del diritto alla presunzione di innocenza non supera la soglia di ammissibilità in quanto manifestamente infondato.
3.1. La necessità di tutelare il diritto alla presunzione di innocenza è stata riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale che da quella convenzionale.
Decisive sul punto appaiono le affermazioni della Corte costituzionale contenute nella sentenza n. 182 del 2021. I giudici di Palazzo della Consulta hanno stabilito che il giudice dell’impugnazione penale spogliatosi della cognizione sulla responsabilità in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, deve provvedere -in applicazione dell ‘art. 578 cod. proc. pen. -‘ai soli effetti civili’, confermando, riformando o annullando la condanna sulla base di un accertamento che impinge ‘ unicamente ‘ sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum , la ‘ responsabilità ‘ dell’imputato per il reato estinto.
3.2. Si tratta di una decisione coerente con le indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo che hanno affermato la necessità di bilanciare il diritto alla presunzione di innocenza con diritto della vittima al risarcimento del danno (sul punto, Corte Edu, terza sezione, 11 febbraio 2023, Ringvold v. Norvegia).
La Convenzione Edu stabilisce espressamente che ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata (art. 6, § 2, CEDU).
Analogo riconoscimento di questa garanzia fondamentale è, peraltro, presente nel nostro ordinamento costituzionale come presunzione di non colpevolezza, che viene meno solo con la condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.).
Nell’interpretazione e applicazione datane dalla Corte Edu ( ex plurimis , Corte EDU, Grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito), la norma convenzionale assume tuttavia un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente ‘ endoprocessuale ‘ .
E’ stato ribadito, infatti, che la presunzione di innocenza costituisce sicuramente una «garanzia procedurale» destinata ad operare «nel contesto di un processo penale», producendo effetti sul piano dell’«onere della prova», sulla operatività delle «presunzioni legali di fatto e di diritto», sull’applicabilità del «privilegio contro l’autoincriminazione», nonché in ordine «pubblicità preprocessuale» e sulle «espressioni premature», dei giudici e funzionari in ordine alla colpevolezza. Ma è stato anche affermato – ed è quello che rileva nel caso in esame – che la presunzione di innocenza estende i suoi effetti anche al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di «proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato» (Corte cost. n. 182 del 2021).
Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, COGNOME contro Repubblica di San Marino, «senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’art. 6 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie», sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con un proscioglimento, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione.
La Corte di Strasburgo ha anche precisato che l’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nella sua portata ultraprocessuale, tutela la reputazione della persona, sovrapponendosi, per questo profilo, alla protezione offerta dall’art. 8 (Corte EDU, sentenza COGNOME contro Repubblica di San Marino).
Tale tutela ultraprocessuale è stata estesa dalla Corte europea dei diritti umani anche agli accertamenti relativi alla confisca che siano effettuati dopo l’estinzione del reato per prescrizione ai sensi dell’art. 578 -bis cod. proc. pen. Infatti, nella pronuncia Episcopo e Bassani v. Italia (I sezione, 19 dicembre 2024) la Corte Edu ha affermato che la tutela prevista dall’art. 6, § 2, non deve essere interpretata in modo da impedire all’autorità giudiziaria di esaminare gli ‘stessi fatti’ per i quali l’imputato è stato prosciolto al diverso fine di disporre la confisca (che, si ribadisce, non è una sanzione, ma una misura ripristinatoria): l’importante è che la confisca non sia correlata ad un cripto-accertamento di responsabilità penale, ma solo alla dimostrazione della ‘provenienza illecita’ dei beni. Sicché, per rispettare le garanzie convenzionali, la decisione inerente alla confisca non deve risolversi in una sostanziale affermazione di responsabilità penale successiva al
proscioglimento, dato che un tale epilogo sarebbe in contrasto con il diritto alla presunzione di innocenza.
3.3. I l diritto alla presunzione di innocenza trova tutela anche nell’ordinamento dell’Unione europea. Lo stesso è protetto , infatti, dall’art. 48, comma 1, CDFUE, che, con norma corrispondente all’art. 6, § 2, CEDU, stabilisce che ogni imputato «è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata».
Tale tutela è riconosciuta specificamente dalla direttiva 2016/343/UE il cui art. 3 prevede che gli Stati membri assicurino «che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza». Il successivo art. 4, paragrafo 1, primo periodo, stabilisce che gli Stati membri «adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». Quanto al significato e alla portata che ha il principio in esame nell’ordinamento europeo, va detto come gli stessi siano sostanzialmente sovrapponibili a quelli che il medesimo principio assume nell’ordinamento convenzionale, non potendo l’ordinamento dell’Unione riconoscere una protezione che sia meno estesa (art. 52, comma 3, CDFUE).
Tale direttiva è stata attuata nel nostro ordinamento nazionale dal d.lgs. n. 188 del 2021 che all’art. 2 ha stabilito il ‘ divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili ‘. In caso di violazione di tale divieto, la norma prevede il diritto di rettifica in capo all’interessato, ferme restando le eventuali sanzioni penali e disciplinari e il risarcimento del danno.
Dal quadro come sinteticamente riscostruito, emerge una univoca tensione delle Carte che tutelano i diritti fondamentali verso la difesa del diritto alla presunzione di innocenza. Tale diritto risulta declinato come diritto dell’assolto e del prosciolto a non essere indicato come colpevole nelle decisioni delle autorità giudiziarie successive al proscioglimento.
Segnatamente, la violazione del diritto alla presunzione di innocenza può essere integrata anche dall’utilizzo di un linguaggio giudiziario che esprima valutazioni di ‘sostanziale’ colpevolezza, nonostante il ‘formale’ proscioglimento.
Con specifico riguardo alla identificazione degli strumenti di salvaguardia di tale diritto, il Collegio ritiene che la sua tutela – concreta ed effettiva – possa essere garantita anche dall’esercizio degli ordinari poteri di impugnazione che consentano, ove ne ricorrano gli estremi, una sostanziale rettifica della motivazione lesiva.
3.4. Ebbene: nel caso in esame, il reato descritto al capo d), è stato dischiarato estinto per decorso del termine massimo di prescrizione dalla Corte di cassazione che ha rimesso
gli atti al giudice civile per la valutazione sia dell’ an che del quantum della responsabilità derivante dalla condotta contestata.
Ciononostante, la Corte di appello, nella motivazione della sentenza impugnata, ha affermato, proprio con riguardo al reato dichiarato estinto, per il quale la COGNOME era stata prosciolta che l ‘insufficienza probatoria riguarda sse solo la posizione di Ortaglio e doveva intendersi circoscritta all’effettività del turbamento della gara quale evento naturalistico del reato di cui all’art. 353 cod. pen., ma non alle condotte perturbatrici poste in essere dal COGNOME e dal COGNOME, il che ostava alla pronuncia di una formula liberatoria in relazione a tale capo (pag. 34 della sentenza impugnata).
Tale passo della motivazione descrive la responsabilità della ricorrente per la condotta contestata al capo d), nonostante tale reato fosse stato dichiarato estinto per prescrizione.
3.5. Tale anomalia motivazionale è stata segnalata dalla difesa della ricorrente che ha dedotto sia la violazione dell’art. 627 cod. proc. pen. nella misura in cui la motivazione travalicherebbe il mandato rescindente, sia la violazione del diritto costituzionale al rispetto della presunzione di innocenza.
3.5.1. Il Collegio ritiene che, contrariamente a quanto dedotto, tale passaggio motivazionale non integra una violazione dell’art. 627 cod. proc. pen.
Invero, la digressione sulla responsabilità penale in relazione alla condotta descritta al capo d), non trova un correlato nell’epilogo decisorio, cristallizzato nel dispositivo che non conferma, neanche nell’ an la sussistenza della responsabilità civile, dato che ribadisce che la valutazione della responsabilità civile correlata alla condotta descritta al capo d) è stata integralmente devoluta dalla Corte di cassazione alla Corte di appello civile competente per valore.
Si ritiene, pertanto, che la violazione del mandato rescindente non sussista in quanto il passaggio anomalo della motivazione, resti superato ed assorbito dal chiaro epilogo decisorio, cristallizzato nel dispositivo, che risulta del tutto coerente con la sentenza rescindente.
3.5.2. Il passaggio motivazionale censurato non viola neanche il diritto alla presunzione di innocenza in quanto la ricorrente ha avuto la concreta ed effettiva possibilità di tutelare il suo diritto attraverso il ricorso per cassazione, rappresentando che il suo proscioglimento per prescrizione era incompatibile con la parte della motivazione, non confermata dal dispositivo che affermava la sussistenza della responsabilità per la condotta dichiarata prescritta.
La Corte di cassazione, riconoscendo la contraddittorietà della parte della motivazione censurata con l’epilogo decisorio (cfr. § 3.4.), ha escluso che sulla condotta descritta al capo d) fosse accertata la responsabilità della ricorrente, in tal modo tutelando in concreto il suo diritto alla presunzione di innocenza.
Da ultimo, va detto che la richiesta di liquidazione delle spese proposta da Finlombarda non può essere accolta in quanto la stessa non risulta essere parte processuale.
Non può essere accolta neanche la richiesta di liquidazione proposta dalle parti civili OMC ed OMI in quanto il ricorso della COGNOME riguardava, oltre che la sussistenza della responsabilità per il capo f), questione in relazione alla quale la ricorrente è risultata vittoriosa, profili inerenti alla pena e ai diritti personalissimi della COGNOME (il diritto alla presunzione di innocenza) , estranei all’ area di interesse della parte civile.
Si riafferma al riguardo che, in tema di impugnazioni, qualora dall’eventuale accoglimento del ricorso proposto dall’imputato non possa derivare alcun pregiudizio alla parte civile, quest’ultima, non avendo interesse a formulare proprie conclusioni nel giudizio, non ha titolo alla rifusione delle spese processuali in caso di rigetto o declaratoria di inammissibilità del gravame (tra le altre: Sez. 2, n. 18265 del 16/01/2015, COGNOME, Rv. 263791 -01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al reato di cui all’art. 346bis cod. pen. perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione. Annulla la sentenza impugnata in relazione al trattamento sanzionatorio in relazione ai residui capi, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Rigetta la richiesta di liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili.
Così deciso in Roma il 25 marzo 2025.