Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 11544 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 11544 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a MAGLIE il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 17/03/2023 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con l’adozione di tutte le statuizioni consequenziali;
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe, emessa il 17 marzo 2023, la Corte di appello di Bari, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha accolto parzialmente la domanda proposta nell’interesse di NOME COGNOME il 30 aprile 2021 e, per l’effetto, ha disposto la revoca per aboliti° criminis della sentenza della Corte di appello di Bari n. 1375/18, come resa irrevocabile, quanto alle statuizioni di natura penale, dalla sentenza della Corte di cassazione n. 27843 del 17/06/2019, con cui era stato dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME in ordine al reato di cui all’art. 323 cod. pen., così qualificato il fatto rubricato al capo 88E), perché estinto per intervenuta prescrizione, e ha assolto NOME dal medesimo reato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, mentre ha rigettato l’istanza di revoca delle statuizioni civili corrispondentemente emesse con la stessa sentenza, nonché ha rigettato l’ulteriore domanda proposta nell’interesse di COGNOME, avente ad oggetto la revoca per aboliti° criminis, con le susseguenti statuizioni di assoluzione nel merito ed eliminazione delle statuizioni civili, della sentenza n. 2620/15 della Corte di appello di Bari, come resa irrevocabile dalla sentenza della Corte di cassazione n. 41768 del 22/06/2017, con cui era stato dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME in ordine al reato di cui agli artt. 56-323 cod. pen., così qualificato il fatto rubricato al capo 89E), perché estinto per intervenuta prescrizione.
Il giudice dell’esecuzione ha ritenuto che, in ordine alla prima istanza, effettivamente il novum normativo che aveva riplasmato l’art. 323 cod. pen. aveva eliso l’antigiuridicità penale della condotta integrata da COGNOME, per cui era da emettersi la revoca della statuizione penale, laddove la statuizione civile, condannatoria dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della Regione Puglia, non era suscettibile di essere rimossa. In merito alla seconda istanza, invece, la nuova configurazione della norma incriminatrice è stata ritenuta ancora tale da sanzionare la violazione di legge ascritta a COGNOME dal giudice della cognizione, in ordine all’accertato reato di tentativo di abuso di ufficio.
Avverso la decisione ha proposto ricorso il difensore di COGNOME chiedendone l’annullamento, anche con rinvio, e affidando l’impugnazione a due motivi.
2.1. Con il primo motivo si prospetta la violazione di legge determinata dalla mancata revoca delle statuizioni civili correlate all’imputazione di cui al capo 88E).
Ad avviso della difesa, il richiamo compiuto dal giudice dell’esecuzione alla precedente elaborazione di legittimità onde pervenire alla conclusione della non revocabilità delle statuizioni civili pronunciate con la prima delle due sentenze
prese in considerazione non si attaglia al caso in esame: il principio evocato riguarda l’ipotesi di sentenza di condanna relativa al reato successivamente abrogato, ma qualificato come illecito civile e, come tale, sottoposto a sanzione civilistica; nel caso in esame, invece, alla sopravvenuta eliminazione dell’illiceità penale non ha corrisposto l’individuazione di un residuo fatto ingiusto qualificabile come illecito civile, per gli effetti di cui all’art. 2043 cod. civ., potendo ritenersi che l’indebita realizzazione degli interessi privati unitamente a quelli pubblici possa costituire di per sé sola un illecito civile.
Anche l’aver conferito rilievo all’ammissione, in questo procedimento esecutivo, della Regione Puglia quale parte civile non ha considerato che la stessa parte, in sede di riassunzione ex art. 622 cod. proc. pen., aveva prospettato l’esistenza della responsabilità del ricorrente ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., ma la sentenza della Corte di appello civile in sede rescissoria ha poi escluso il riconoscimento di tale diritto, con sentenza impugnata a sua volta con ricorso per cassazione, in procedimento che è perciò ancora pendente.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 673 cod. proc. pen. in relazione al rigetto dell’ulteriore domanda, finalizzata alla revoca della corrispondente sentenza, comprensiva delle statuizioni civili, in forza della quale era stato dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al reato, diversamente qualificato ai sensi degli artt. 56-323 cod. pen., rubricato al capo 89E), per intervenuta prescrizione.
Premesso che l’accusa aveva fatto carico a COGNOME di aver disposto – in qualità di Presidente uscente della Regione Puglia e in violazione di norme di legge e di regolamento – l’ammissione a contribuzioni da erogarsi dai fondi per il finanziamento dei programmi di settore e intersettoriali di rilevanza regionale, e che il giudice dell’esecuzione ha ritenuto persistente il rilievo dell’accertamento della violazione della legge regionale n. 28 del 2001 avvenuta con l’adozione della delibera n. 577 del 2005 anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 323, come modificata nel 2020, la difesa rileva che tale valutazione non ha tenuto conto del materiale documentale prodotto nel corso del giudizio pregresso e, in particolare, nell’allegato n. 5, sottoposto all’attenzione del giudice dell’esecuzione costituito dal parere pro-ventate reso dai Proff. COGNOME e COGNOME, chiesto a COGNOME dalla Giunta regionale insediatasi successivamente, proprio in relazione alle delibere e alle determine citate nella contestazione di cui al suddetto capo 89E): ebbene, nel suddetto parere, la delibera n. 577 del 2005 è stata qualificata come atto di mero indirizzo, privo di effetti amministrativi concreti e, del resto, il fatto contestato era stato qualificato nella forma del tentativo, dal momento che era stata poi la Giunta successiva a procedere all’adozione dei provvedimenti di liquidazione ed erogazione dei contributi.
Alla stregua di queste puntualizzazioni, la difesa non condivide l’affermazione dell’avvenuta violazione dell’art. 54 della suddetta legge regionale, in riferimento all’obbligo di comunicare al Consiglio regionale la delibera di prelievo dei fondi entro dieci giorni, anche perché COGNOME non era l’unico componente della Giunta e del Consiglio regionale.
D’altro canto, i funzionari regionali avevano ritenuto ordinatorio il termine rinviando la trasmissione della variante interna di bilancio al momento dell’insediamento del nuovo Consiglio, con scelta di natura discrezionale, come tale non censurabile alla stregua della nuova formulazione dell’art. 323 cod. pen.
Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso osservando che, quanto al primo motivo, l’impugnazione collide con l’interpretazione già data all’istituto della revoca per abolitio criminis, nel senso che essa riguarda, in casi come quelli in esame, le sole statuizioni di natura penale, e, quanto al secondo motivo, il giudice dell’esecuzione ha correttamente evitato di rivisitare l’accertamento compiuto dal giudice della cognizione dei fatti costitutivi della responsabilità penale dell’imputato.
La difesa della Regione Puglia, parte civile nel processo di cognizione e parte del procedimento esecutivo svoltosi innanzi alla Corte di appello di Bari, ha rassegnato memoria in forza della quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o, comunque, il rigetto del ricorso.
A sostegno di tale conclusione è stato dedotto che: in ordine alla revoca delle sole statuizioni penali della prima sentenza, il ricorso non ha indicato nemmeno la norma violata e, in ogni caso, non si confronta con le argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato; la revoca parziale è da ritenersi, d’altronde, conforme all’interpretazione consolidata secondo cui l’aboliti° criminis non mette in questione le statuizioni civili; circa il rigetto dell’istanza di revoca della seconda sentenza, le argomentazioni sviluppate dal ricorrente attengono a tema trattato direttamente e disatteso nella sentenza di legittimità (n. 41765 del 2017) in virtù della quale si era cristallizzata la declaratoria di non doversi procedere per essersi il reato prescritto, reato ritenuto però integrato per la violazione dell’art. 54 della legge regionale n. 28 del 2001, sicché gli argomenti sviluppati dal ricorrente non possono superare l’accertamento della violazione di quella norma primaria alla base del reato.
La difesa di COGNOME ha, a sua volta, depositato memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale e alle deduzioni della Regione Puglia ribadendo la sopravvenuta aboliti° inerente alla seconda delle fattispecie
esaminate, nonché sottolineando il prosieguo processuale registratosi con riferimento alla prima in senso favorevole al ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, in parte, infondato e, in parte, inammissibile, per le ragioni che seguono, in esse incluse le specificazioni da svolgersi in relazione al tema trattato con il primo motivo di impugnazione.
Per quanto concerne la prima vicenda processuale – quella definita dalla sentenza della Corte di appello di Bari n. 1375/18, resa irrevocabile, quanto alle statuizioni di natura penale, dalla sentenza della Corte di cassazione n. 27843 del 17/06/2019, con cui era stato dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME in ordine al reato di cui all’art. 323 cod. pen., così qualificato il fa rubricato al capo 88E), perché estinto per intervenuta prescrizione – il giudice dell’esecuzione ha osservato che la sopravvenienza del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ha inciso sulla fattispecie riducendo l’area in relazione alla quale può considerarsi persistente l’incriminazione prevista dall’art. 323 cod. pen.: in particolare, la riforma ha espunto l’ipotesi dello sviamento di potere, ossia quella su cui era imperniata l’accusa configurata a carico di NOME nel reato contestato al capo 88E).
È stata, quindi, ritenuta conseguente la revoca della statuizione di non doversi procedere per essersi il reato estinto per prescrizione, con la contestuale pronuncia di assoluzione di NOME COGNOME da quel delitto per non essere il reato stesso più previsto dalla legge penale.
Tuttavia, la revoca non è stata estesa alle statuizioni civili, dal momento che il giudicato relativo all’azione civile inserita nel processo penale si era consolidato prima dell’introduzione del novum normativo: e nel rapporto di natura civilistica intercorso tra il danneggiato e il danneggiante non si applica il principio desumibile dall’art. 2 cod. pen., ma il criterio di cui all’art. 11 disp. prel. cod. ci
2.1. Posto ciò, anche ove la premessa su cui ha ragionato il giudice dell’esecuzione fosse stata del tutto rispondente alla situazione processuale regolata, il ricorrente non avrebbe avuto ragione di dolersi.
In tale direzione va richiamato e riaffermato il principio di diritto secondo cui, in ipotesi di condanna o decreto irrevocabili, relativi a un reato successivamente abrogato, con la conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto, non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con l’effetto che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a
costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata.
Tale principio, da tempo enunciato in linea generale (Sez. 5, n. 4266 del 20/12/2005, dep. 2006, Colacito, Rv. 233598 – 01), è stato autorevolmente affermato con riguardo al caso di condanna o decreto irrevocabili, relativi a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, posto che, per tale ambito, il giudice dell’esecuzione revoca il provvedimento perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili, sempre perché il venir meno della condanna non può incidere sulla cristallizzazione del giudicato riguardo ai capi civili della sentenza (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, Rv. 267885 – 01): anche in relazione a questo ambito normativo, si è ribadita la peculiarità del caso della sopravvenienza dell’abrogazione alla sentenza di condanna irrevocabile, come intesa dall’art. 2 cod. pen., lì dove si sancisce, per tale sola ipotesi, il dovere del giudice dell’esecuzione di disporre la cessazione della esecuzione della condanna stessa e dei suoi effetti penali, fatte salve dunque le statuizioni civili; ciò, in quanto, nella situazione descritta, la condanna al risarcimento del danno o alla riparazione si fonda su un accertamento avvenuto con riferimento a un fattoreato che, al momento della pronuncia, era stato accertato come tale, con relativa condanna penale, per cui il successivo venir meno di questa in virtù dell’abrogazione non può incidere sulla cristallizzazione del giudicato riguardo ai capi civili della sentenza.
2.2. Tuttavia, il presupposto su cui il giudice dell’esecuzione si è basato per spiegare le ragioni del mancato accoglimento della revoca della sentenza suindicata quanto alle statuizioni civili non si è rivelato del tutto esatto, nel senso che – come ha segnalato il ricorrente in corso di procedimento – la controversia generata dall’esperimento dell’azione civile in sede penale è ancora pendente.
Va rilevato, infatti, che, quanto alle statuizioni civili, in realtà la sentenza della Corte di appello di Bari n. 1375/2018 del 30/04/2018, a sua volta già emessa in sede di rinvio, dichiarando prescritto il reato di abuso di ufficio, aveva dichiarato inammissibile la domanda della parte civile Regione Puglia. Però la sentenza della Corte di cassazione n. 27843 del 2019, che aveva rigettato il ricorso di COGNOME rendendo irrevocabile la statuizione penale di non doversi procedere per prescrizione, aveva annullato la sentenza della Corte di appello quanto alle statuizioni civili, rinviando per nuovo giudizio sul corrispondente capo alla competente Corte di appello civile.
Conferma tale rilievo la produzione acclusa, per l’osservanza del principio di autosufficienza, al ricorso dalla difesa di COGNOME: da essa si evince che il processo in questione è proseguito in sede di rinvio innanzi alla Corte di appello civile di
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Lecce che, con sentenza deliberata in data 11.05.2022 e depositata il 16.06.2022, ha rigettato la domanda risarcitoria della Regione Puglia, sentenza a sua volta impugnata con ricorso per cassazione dalla Regione Puglia notificato il 16.01.2023; e il processo, per quanto è stato allegato e documentato, ancora pende nella corrispondente fase.
Considerato tutto ciò, si trae in modo chiaro che, con riferimento agli effetti civili, nel processo in questione, al momento della presentazione dell’istanza, il giudicato non si era formato; né, per quanto consta, esso risulta essersi formato nelle more della determinazione assunta dal giudice dell’esecuzione.
Se così è, certo la base argomentativa adottata dal giudice dell’esecuzione non si rivela congruente, ma resta fermo comunque l’esito: invero, il giudice dell’esecuzione, contrariamente a quanto ha opinato il ricorrente, non avrebbe potuto, in ogni caso, emettere in questo procedimento il chiesto provvedimento di revoca della sentenza della Corte di appello di Bari n. 1375/2018 del 30/04/2018, quanto agli effetti civili, pur non essendosi cristallizzato – anzi, a maggior ragione perché non si era cristallizzato- il giudicato con specifico riferimento a tali effetti civili, per la persistente pendenza del processo nei gradi ulteriori, come ora richiamati.
In altri termini, la rilevata pendenza del processo inerente all’azione civile conferma e rende vieppiù estraneo il corrispondente oggetto all’area dell’esecuzione penale e, specificamente, dall’alveo del procedimento di revoca per aboliti° criminis disciplinato dall’art. 673 cod. proc. pen.
In tal senso, previa rettifica della motivazione del provvedimento impugnato, va tenuto fermo l’esito reiettivo: sarà, infatti, la conclusione del processo civile pendente in sede di rinvio a stabilire in qual modo sarà definita l’azione civile a suo tempo proposta dalla Regione Puglia nei confronti di COGNOME nel processo penale suindicato.
La prima doglianza, pertanto, con le puntualizzazioni svolte, va rigettata.
Per quanto concerne la seconda vicenda processuale, deve muoversi dalla constatazione che, in ordine alla stessa, il giudice dell’esecuzione ha considerato che la nuova versione dell’art. 323 cod. pen., esitata dalla suindicata riforma del 2020, non ha eliso la penale configurabilità della fattispecie di abuso in atti di ufficio come contestata al capo 89E), in quanto, rispetto alla condotta ascritta a COGNOME, mentre l’avere contribuito ad assumere la delibera n. 306 del 2005 in contrasto con il regolamento regionale n. 5 del 2004 deve ritenersi ora espunto dalla sfera residua di rilevanza penale, non così può dirsi quanto alla condotta consistita nell’avere COGNOME contribuito all’adozione della delibera n. 507 del 2005, avvenuta in contrasto con l’art. 54 della legge regionale n. 28 del 2001.
In ragione di questo rilievo, il giudice dell’esecuzione ha escluso la giuridica possibilità di far luogo alla chiesta revoca integrale ex art. 673 cod. proc. pen.
3.1. Il ragionamento è – allo stato attuale della configurazione dell’art. 323 cod. proc. pen. – incensurabile.
Come si evince dalla diretta disamina del tessuto argomentativo della sentenza di legittimità n. 41768 del 2017, che, per la parte qui rilevante, aveva rigettato l’impugnazione del ricorrente COGNOME relativamente al reato di cui al capo 89E), la Corte di cassazione (alle pagg. 90 e ss. della decisione), aveva evidenziato la sussistenza e la giuridica rilevanza della violazione dell’art. 54 della legge regionale 16 novembre 2001, n. 28, come fatto costitutivo del reato di tentativo di abuso di ufficio (“Immune da vizi, innanzitutto, è la conclusione secondo cui le condotte ascritte a COGNOME furono commesse in violazione di legge. Invero, come evidenziato anche nelle note della Ragioneria della Regione Puglia, la delibera n. 306 del 2005 si pose in contrasto sia con il regolamento regionale n. 5 del 2004, laddove prevedeva che con il fondo per il finanziamento dei programmi di settore ed intersettoriali potessero essere finanziate solo pratiche istruite dal settore Lavori Pubblici, sia con l’obbligo di copertura della spesa pubblica, per essere la somma complessivamente impegnata superiore a quella disponibile sul fondo in questione. La delibera n. 577 del 2005, poi, come conferma la delibera n. 325 del 2007 – emessa proprio sulla base del parere pro ventate richiamato dal ricorrente a sostegno della legittimità del proprio operato -, fu adottata in violazione dell’art. 54 della legge regionale n. 28 del 2001, nella parte in cui questo prevedeva che il prelievo dai fondi intersettoriali per le variazioni dei capitoli di bilancio potesse avvenire solo se accompagnato da comunicazione al Consiglio Regionale nel termine di dieci giorni: invero, tale adempimento, funzionale ad assicurare un controllo del Consiglio Regionale sull’esercizio del bilancio, non era più possibile per la Giunta guidata da COGNOME, in quanto la stessa operava in regime di prorogati°, e faceva riferimento ad un’Assemblea consiliare ormai decaduta, la quale non avrebbe potuto più riunirsi”). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Questo specifico accertamento e la sua corrispondente valutazione, esitati dal giudizio di cognizione, non erano suscettibili di essere modificati o capovolti nel corso del procedimento esecutivo, come nella sostanza il ricorrente ha chiesto deducendo la necessità di porre al centro della verifica il parere proventate chiesto a COGNOME dalla Giunta regionale insediatasi successivamente, in relazione alle delibere e alle determine citate nella contestazione del reato di cui si tratta, parere che, reso dai professionisti suindicati, aveva qualificato come atto di mero indirizzo, privo di effetti amministrativi concreti anche l’atto deliberativo in relazione a cui era stato ritenuto il tentato abuso di ufficio: tale
thema era già stato compiutamente preso in esame e vagliato, sicché correttamente il giudice dell’esecuzione ha ritenuto precluso il riesame del corrispondente punto.
Per vero, competeva al giudice dell’esecuzione verificare se la condotta già posta alla base della valutazione di sussistenza del reato rientrasse o meno nell’area attinta dal novum normativo che ha determinato l’abolitio criminis parziale, ma non di sostituirsi al giudice della cognizione in ordine all’accertamento del fatto penalmente rilevante e alla valutazione delle condotte per la parte in cui il giudice della cognizione tale accertamento e tale valutazione aveva già compiuti addivenendo alla decisione di sussistenza della violazione del precetto in allora fissato dalla norma incriminatrice.
3.2. Sull’argomento, si richiama e riafferma il principio di diritto in virtù del quale il giudice dell’esecuzione, richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., non può ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, né può valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, ma deve pur sempre accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, a tal fine, può effettuare una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito nonché utilizzare elementi che – irrilevanti al momento della sentenza – siano divenuti determinanti, in virtù del diritto sopravvenuto, per la decisione sull’imputazione oggetto di contestazione (Sez. 3, n. 5248 del 25/10/2016, dep. 2017, Managò, Rv. 269011 – 01).
In questo preciso ambito, dunque, per definire la questione di revoca per aboliti° criminis, ex art. 673 cit., la delibazione del giudice dell’esecuzione deve riguardare il confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di ricercare conferme dell’eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, atteso che detto confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie (Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585 – 01; fra le successive Sez. 1, n. 3269 del 03/10/2019, dep. 2020, T., Rv. 278582 – 02).
A questi principi si è esattamente attenuto il giudice dell’esecuzione nella parte della decisione in cui non ha revocato la sentenza di cognizione accertativa del reato di tentativo di abuso di ufficio poi dichiarato prescritto per quanto la condotta di NOME era stata accertata come commessa in violazione di legge,
poiché per tale condotta non si è determinata l’aboliti° invocata dal ricorrente a seguito della modificazione dell’art. 323 cod. pen. apportata dal d.l. n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020.
Avendo il secondo motivo del ricorso posto in discussione proprio questo punto – e tale questione essendo stata l’unica devoluta all’attuale verifica – deve concludersi che la doglianza, non confrontandosi con la portata effettiva della decisione sortita dal processo di cognizione e con i corrispondenti limiti del procedimento di revoca ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., rettamente osservati dal giudice dell’esecuzione, non può superare il vaglio di ammissibilità.
Conclusivamente, la valutazione compiuta nel provvedimento impugnato si è dimostrata idonea a resistere alle censure articolate dal ricorrente, sia pure con l’integrazione della motivazione resasi necessaria quanto alla prima delle due vicende processuali esaminate: pertanto, l’impugnazione non può ricevere favorevole vaglio e deve essere, nel suo complesso, rigettata.
A tale statuizione consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 6 dicembre 2023
Il Presidente Il Consi liere estensore ,i /g