Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 31797 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 31797 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 15/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Battipaglia il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 25/09/2023 del Tribunale di Torre Annunziata visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO COGNOME, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 25 settembre 2023, il Tribunale di Torre Annunziata ha condannato COGNOME NOME, in relazione al reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 192 comma 1, 256, comma 2, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per avere, in qualità di titolare dell’impresa “RAGIONE_SOCIALE“, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, abbandonato e depositato in modo incontrollato rifiuti non pericolosi consistenti in circa 20 mc di materiale plastico.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite · il difensore, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di censura, sia lamenta l’inosservanza della disposizione incriminatrice, sotto il profilo della carenza del requisito della fattispecie, per cui le condotte di abbandono o di deposito dovrebbero avvenire in luogo pubblico o aperto al pubblico, nonché in relazione alla qualificazione come “rifiuto” dei materiali in questione. Sostiene la difesa che i materiali sono stati rinvenuti all’interno del vivaio e, dunque, all’interno di un’area privata. Quanto alla qualificazione del materiale, vasellame e buste vuote di torba, si lamenta che essa è stata attribuita erroneamente dal giudice del merito, in quanto dedotta dalle condizioni del materiale stesso, in parte logoro, e dalla collocazione all’esterno della serra, che avrebbe mostrato la volontà dell’imputato di disfarsene. Ciò contrasta, secondo la difesa, con la definizione di rifiuto fornita dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla categoria dei rifiuti c.d. generici di cui l’agente non avrebbe l’obbligo di disfarsi”, ai quali la qualifica andrebbe attribuita in base all’elemento volitivo dell’agente, il quale materialmente “si disfa o ha intenzione di disfarsi” di essi. Tale elemento andava però escluso nel caso di specie, giacché l’imputato aveva dichiarato di non volersene disfare, in quanto tali materiali costituivano una risorsa per l’impresa, potendo essere riutilizzati ai fini della vendita oppure utilizzati per la messa in coltura o comunque riparati.
2.2. Con un secondo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 456, comma 2, cod. proc. pen., quale norma processuale stabilita a pena di nullità, non essendo stato inserito nel decreto che disponeva il giudizio immediato l’avviso all’imputato relativo alla possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con ciò violando i principi stabiliti dalla Corte costituzionale (sentenza 14 febbraio 2020, n. 19), secondo cui la sospensione con messa alla prova va assimilata agli altri riti alternativi al dibattimento anche sotto il profilo de possibilità per l’imputato di avvalersene anche in fase predibattimentale; con la conseguenza che l’omissione dell’avviso di potersi avvalere di tale rito, determina una violazione del diritto di difesa. Ciò sarebbe dimostrato dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 460 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà di chiedere, mediante l’opposizione, l’applicazione della sospensione con messa alla prova. Se ne ricava – per la difesa – che, anche nel caso in cui tale avviso sia omesso nel decreto che dispone il giudizio immediato, il giudice deve rilevare una nullità a carattere generale e disporre la regressione del procedimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1.1 Il primo motivo – con cui si lamenta l’inosservanza della legge penale per errata interpretazione dei concetti di abbandono, deposito, e rifiuto – è inammissibile. L’art. 192, del d.lgs. n. 152 del 2006 indica nell’abbandono e nel deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo le condotte vietate, con ciò mostrando di voler punire i comportamenti che determinano un disordinato smaltimento di materiali di scarto; inoltre non distingue testualmente tra luoghi privati e pubblici, lasciando con ciò intendere l’irrilevanza di tale distinzione. Quanto al concetto di rifiuto, la distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi ha come conseguenza che quest’ultima categoria venga identificata, non tanto in base ad un obbligo legale di disfarsi del materiale, quanto invece alla condotta dolosa dell’agente il quale, pur non avendo tale obbligo, se ne libera senza’ seguire le procedure indicate dall’ordinamento.
1.2. Tuttavia, il ricorso non mette in discussione tale interpretazione, che, anzi viene ripresa dal difensore, limitandosi invece a prospettare genericamente una diversa versione dei fatti, meramente assertiva, secondo cui l’imputato non voleva disfarsi del materiale, destinato al reimpiego all’interno dell’attività di impresa. Inoltre, anche a prescindere da tale assorbente considerazione, va rilevato che il giudice di merito ha correttamente argomentato circa la consistenza del materiale ritrovato, sulla base delle dichiarazioni del teste COGNOME, che aveva dedotto la condotta di abbandono di rifiuti dal ritrovamento di materiali ormai coperti dalla vegetazione e deteriorati tal punto da essere inutilizzabili per il reimpiego; dichiarazioni riscontrate dal materiale fotografico in atti. Dunque, le dichiarazioni dell’imputato di non volersi disfare dei materiali sono state correttamente valutate dal giudicante come meramente ipotetiche; e lo stesso deve dirsi del possibile reimpiego di quei materiali nell’attività di impresa, non essendo stata introdotto dalla difesa alcun elemento di prova in tal senso.
Il secondo motivo – con cui si lamenta l’omessa indicazione dell’avviso della possibilità di avvalersi della sospensione del procedimento con messa alla prova nel decreto che dispone il giudizio – è inammissibile.
Va premesso che la Corte costituzionale (sentenza n. 201 del 2016) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere, mediante l’opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Secondo quanto riferito dalla difesa, il presente procedimento nasce da opposizione a decreto penale di condanna; con la conseguenza che la stessa difesa avrebbe dovuto prospettare la mancanza nel decreto penale di condanna
dell’avviso all’imputato relativo alla possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Era infatti quello, e non il successivo decreto di citazione a giudizio, l’atto del procedimento in relazione al quale si sarebbe dovuta valutare l’eventuale violazione del suo diritto di difesa. Ma una tale valutazione non è resa possibile a questa Corte, per il difetto di prospettazione della parte, la quale non si duole dell’incompletezza del decreto penale di condanna, il cui contenuto non è richiamato nel ricorso. Ciò rende irrilevante ogni considerazione circa la necessità che l’avviso in parola sia contenuto nel decreto di citazione a giudizio emesso successivamente all’opposizione a decreto penale di condanna. Ed è superfluo ricordare che, in ogni caso, la questione è stata affrontata e risolta in senso negativo da Sez. 3 sentenza n. 18374 del 12/03/2024, alla quale può farsi integrare richiamo.
Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15/05/2024.