Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 31791 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 31791 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/02/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME, nato in Romania il DATA_NASCITA; COGNOME NOME, nato in Romania il DATA_NASCITA;
avverso la sentenza n. 774/23 RSent della Corte di appello di Bologna del 3 febbraio 2023;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e i ricorsi introduttivi;
sentita la relazione fatta dal AVV_NOTAIO COGNOME;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale AVV_NOTAIO NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
In data 3 febbraio 2023, la Corte di appello di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Ravenna, datata 22 aprile 2021, con la quale NOME e NOME erano stati condannati alla pena ritenuta di giustizia per essersi resi responsabili, in concorso fra loro, dei reati di cui ag artt. 544-ter cod. pen. e 256, comma 2, del dlgs n. 152 del 2006.
La Corte territoriale ha, infatti, riqualificato il primo dei reati contestat come violazione dell’art. 727, comma 2, cod. pen. e, ritenuti i restanti 2 capi di imputazione integranti un’unica fattispecie di reato, ha rideterminato la pena, in mesi 5 di arresto per il COGNOME e mesi 4, giorni 20 di arresto per il COGNOME, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza di secondo grado hanno interposto ricorso per cassazione gli imputati, tramite il comune difensore, formulando cinque motivi di doglianza.
Il primo di questi attiene all’affermazione della responsabilità penale per la violazione dell’art. 727, comma 2, cod. pen., motivata, per la difesa, attraverso la mera riproposizione, da parte della Corte felsinea, delle valutazioni del giudice di primo grado, senza che siano stati esaminati i rilievi degli appellanti; sul punto il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 192 e 546, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen. nonché la omessa, illogica o contraddittoria motivazione rispetto agli elementi di prova a carico degli imputati presenti in atti, poiché, da un lato, nessun riscontro avrebbe sorretto le dichiarazioni accusatorie della denunciante e, dall’altro, il giudice di secondo grado non avrebbe specificato quali regole di condotta relative al buon governo degli animali domestici avrebbero costituito il parametro del giudizio sull’integrazione, nel caso di specie, della colpa, ritenuta sussistente nel comportamento dei prevenuti.
La difesa degli imputati, con il secondo motivo di ricorso, ha poi sviluppato le medesime censure con riferimento al reato di cui all’art. 256, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006; in particolare, la Corte di appello avrebbe riproposto le argomentazione del giudice di primo grado, non considerando i rilievi difensivi formulati in merito alle condizioni della maggioranza delle auto di cui alla contestazione, tali, per come emerse dal materiale probatorio raccolto, da consentirne l’utilizzo nell’ambito dell’attività imprenditoriale del COGNOME, avente ad oggetto la compravendita di autoveicoli usati.
Con il terzo motivo di censura, i ricorrenti hanno lamentato la omessa motivazione a sostegno dell’esclusione delle circostanze attenuanti generiche; mentre il successivo quarto motivo riguarda il trattamento sanzionatorio irrogato, rispetto al quale la difesa ha dedotto la violazione di legge e l mancanza della motivazione.
Infine, con l’ultimo motivo di doglianza è statà denunziata l’omissione, all’esito del giudizio di secondo grado, dell’avviso prescritto dall’art. 545-bi cod. proc. pen. in violazione della medesima disposizione (introdotta con il d.lgs. n. 150 del 2022), dalla quale sarebbe conseguita la frustrazione dell’interesse degli imputati alla sostituzione della pena ai sensi dell’art. 53, I. n. 689 del 1981.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di impugnazione sono risultati o inammissibili o manifestamente infondati o, comunque, infondati, sicché i ricorsi presentati dalla comune difesa dei due ricorrenti debbono essere rigettati.
Con il primo dei cinque motivi di impugnazione presentati, i ricorrenti si sono lamentati del fatto che, a loro avviso, i giudici del merito avrebbero fondato l’accertamento della loro responsabilità sulla base degli stessi elementi utilizzati in sede di sentenza di primo grado, senza operare alcun veglio critico degli stessi sulla base degli argomenti esposti dai ricorrenti in occasione della presentazione del loro gravame; ha aggiunto la ricorrente difesa che, pur derubricato il primo dei reati contestati ai due imputati da reato doloso in reato colposo, la Corte di Bologna aveva omesso di indicare i parametri sulla base dei quali riscontrare la esistenza di un comportamento colposo da costoro tenuto.
Si tratta di un motivo di impugnazione privo di pregio; quanto al primo profilo si osserva che, in sede di diretta verifica personale dello stato degl animali di cui al capo di imputazione, i veterinari sopraggiunti sul luogo ove questi erano custoditi hanno riscontrato che, sebbene gli stessi fossero in buono stato di salute e non presentassero lesioni, i medesimi erano tenuti in condizioni palesemente in contrasto con la loro natura e secondo modalità tali da cagionare loro sofferenze; non disponevano, infatti, neppure di uno spazio adibito a loro “cuccia”, uno essendo confinato, attraverso una catena che gli impediva di accedere al cibo, in un ambito occupato dalle sue stesse deiezioni e da altri rifiuti, l’altro avendo accanto a sé una ciotola con cibo rancido dell’acqua torbida.
Osserva il Collegio che non è dato sapere, in quanto in sede di ricorso per cassazione gli stessi non sono stati indicati, quali sarebbero stati sul punto rilievi che avverso tali elementi di fatto i due ricorrenti, secondo quanto solo genericamente riportato nel ricorso ora presentato, avrebbero elevato e dei quali la Corte non avrebbe tenuto conto.
Quanto, poi, alla circostanza che – derubricato il reato in contestazione da violazione dell’art. 544-ter cod. pen. a violazione dell’art. 727 cod. pen., sull base della, generosa, esclusione dell’elemento soggettivo del dolo nella condotta dei due prevenuti, essendo stata riscontrata la solo negligenza da parte dei medesimi nella conduzione delle due bestie – la Corte di merito non avrebbe specificato “i criteri di valutazione della colpa”, appare evidente che l’atteggiamento colposo tenuto dai ricorrenti è da ravvisare già nella mera violazione, non giustificata da fattori esulanti rispetto alla sfera di intervento coloro i quali hanno determinato l’evento, delle regole di comportamento sanzionate dalla norma incriminatrice (cioè, quanto al caso ora in esame, la condotta colposa è ravvisabile già nell’aver detenuto, in assenza di fattori giustificativi, animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive per questi di gravi sofferenze).
Quanto al successivo motivo di impugnazione, afferente all’avvenuta qualificazione – riferita alle imputazioni originariamente contestate sub b) e c) della rubrica elevata ai loro danni (successivamente unificate in una sola contestazione) – in termine di “rifiuto” del materiale rinvenuto nella disponibilità dei due prevenuti all’interno del terreno meglio specificato nella imputazione loro contestata, si osserva, premessa la nozione normativa che l’espressione “rifiuto” ha in relazione all’applicazione del dlgs n. 152 del 2006 (cfr., infatt l’art. 183, comma primo, lett. a), del dlgs. n. 152 del 2006, secondo il quale “costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi”: fra le tante, Corte di cassazione Sezione III penale, 21 aprile 2017, n. 19206, rv 269912), che nell’occasione, con valutazione di merito che questa Corte ha la possibilità di sindacare solo laddove la stessa si fondi su dati di fatto o in materiale ed obbiettivo contrasto con gli elementi acquisiti in sede istruttoria (cioè laddove vi sia un travisamento della prova) ovvero su dati di fatto considerati in maniera manifestamente illogica dai giudici del merito, la attribuzione della qualifica di rifiuto ai be rinvenuti nella disponibilità degli imputati è stata desunta, in puntuale risposta di uno specifico motivo di gravame, dalla Corte felsinea dalla circostanza che i veicoli in questione, nessuno dei quali era stato dal NOME inserito nel catalogo di quelli che lo stesso, in qualità di venditore di auto usate, offriva in vendit
“risultavano lasciati all’aperto ad arrugginire (…), ammassati unitamente ad infissi, batterie e sanitari; alcuni erano utilizzati come deposito, altri apparivan fuori uso, mentre altri ancora si trovavano in pessimo stato di conservazione, con nidi di vespe ai finestrini”; l’affermazione temerariamente riportata nel ricorso introduttivo del presente giudizio, secondo la quale si trattava di autoveicoli “in condizioni di mero parcheggio”, appare, alla luce dei dati sopra riferiti, puntualmente smentita dalla sentenza impugnata e, pertanto, costituente la, inammissibile in sede di legittimità, confutazione di un dato di fatto oggetto di un incontrovertibile accertamento eseguito in sede di merito.
Né, si accenna per completezza, ha una qualche sostanziale incidenza sulla attribuzione della predetta qualificazione ai materiali di cui sopra il fat che gli stessi, ove inseriti nell’attività commerciale del NOME, potessero avere ancora una qualche rilevanza economica, posto che la possibilità di riconoscere a determinati oggetti un valore economico non costituisce elemento tale da escludere che i medesimi, ove ricorrano i ricordati elementi di carattere normativo necessari per siffatta qualificazione, siano egualmente considerati come rifiuti (si veda, infatti: Corte di cassazione, sezione III penale, 1 novembre 2019, n. 46586, rv NUMERO_DOCUMENTO; Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 febbraio 2017, n. 5442, rv 269249).
Passando al successivo motivo di doglianza, riferito al vizio di motivazione sul rigetto del motivo di impugnazione riferito al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in favore dei due ricorrenti, è sufficiente osservare che, avendo la Corte di merito escluso che i ricorrenti potessero godere del beneficio in questione non essendo stato da costoro allegato alcun dato che lo avrebbe potuto giustificare, sarebbe stato onere della impugnante difesa quanto meno allegare l’esistenza di argomenti che la stessa aveva sottoposto all’esame dei giudici del merito al fine di indurre costoro a riconoscere le attenuanti in questione la cui valutazione era stata, invece, trascurata da tali giudici; cosa che non è assolutamente avvenuta avendo la detta difesa solamente osservato che la Corte di merito non aveva segnalato quale fra gli elementi indicati all’art. 133 cod. pen. aveva avuto una funzione ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche.
Osserva al riguardo il Collegio che, così ragionando, però, la difesa in esame ha totalmente trascurato di considerare che, in verità – non essendo il riconoscimento delle generiche una sorta di diritto cui l’imputato il quale sia stato condannato debba accedere in assenza di fattori ad esso ostativi – l’obbligo di motivare le ragioni della scelta operata dal giudice, in assenza della
indicazione da parte dell’interessato di fattori che potrebbero, in ipotesi giustificare il beneficio in questione, scatta non nel caso in cui le attenuant generiche siano state negate ma nel caso opposto, cioè ove le stesse siano state riconosciute (cfr.: Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 giugno 2019, n. 26272, rv 276044; Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 luglio 2017, n. 35570, rv 270694).
Il successivo motivo di impugnazione riguardante il complessivo trattamento sanzionatorio cui è stato sottoposto il ricorrente, non è fondato atteso che – nell’ambito del potere discrezionale che compete al giudice del merito, laddove per i reati in ordine ai quali deve essere inflitta la pena legislatore abbia previsto alternativamente la comminatoria della pena detentiva o di quella pecuniaria, nella scelta della tipologia di pena da irrogare in concreto – legittimamente la Corte di appello ha ritenuto, data la storia criminale dei prevenuti, gravati già da taluni precedenti, di irrogare la pena detentiva, considerata la apparente scarsa permeabilità dei medesimi alla funzione dissuasiva della pena, fattore questo idoneo a giustificare una maggiore afflittività della pena onde favorirne la effettiva finalità sanzionatoria e rieducativa.
Anche l’ultimo motivo di impugnazione è privo di pregio, ove si rifletta sulla circostanza che, essendo esso articolato in relazione al mancato avviso ex art. 545-bis cod. proc. pen. rivolto dalla Corte di merito agli imputati della possibilità di richiedere la conversione della sanzione detentiva con altra sanzione ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981, l’obbligo di formulare siffatto avviso (che, giova precisare quanto al caso di specie, in via meramente astratta gravava anche sulla Corte di appello, essendo stata pronunziata la sentenza del giudice di primo grado, organo sul quale, in linea di principio, grava l’obbligo in questione, in data 22 aprile 2021 e quindi anteriormente alla entrata in vigore del dlgs n. 150 del 2022 che ha ampiamente riformato il tema delle pene sostitutive, inserendo, fra l’altro, nel tessuto codicistico il nominato art. 545-bis cod. proc. pen.) non deve intendersi incondizionato, essendo esso subordinato, come in altra occasione recentissima questa Corte ha avuto modo di precisare, ad una preventiva valutazione, ancorché di carattere ancora non definitivo, finalizzata alla verifica delle condizioni, formali e sostanziali, che potrebbero giustificare l’ammissione del condannato alla sanzione sostitutiva.
Deve, infatti, ribadirsi come non debba ritenersi esistere un’assoluta obbligatorietà per il giudice di formulare l’avviso ex art. 545-bis cod. proc. pen.
laddove ricorrano le condizioni formali per la sostituzione della sanzione detentiva (sua durata non superiore a 4 anni e non sottoposizione della esecuzione della stessa alla sospensione condizionale); dovendosi, infatti, convenire sul fatto che la scelta in ordine all’applicazione della sanzione sostitutiva è una scelta discrezionale del giudice procedente, il quale, per come prevede la norma, “se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva (…) ne dà avviso” al condannato, se ne ricava che siffatta proposizione normativa presuppone che, prima di decidere se debba o meno dare l’avviso di cui si parla il giudice debba valutare se ricorrono o meno le condizioni per la sostituzione e, solo ove ritenga che esse, appunto, ricorrano, dovrà risolversi nel senso di formulare l’avviso.
Ciò non toglie che, laddove, invece, egli opti per la seconda ipotesi, e quindi ritenga non ricorrenti le condizioni “sostanziali”, questi dovrà, affinché la sua potestà discrezionale non trasmodi nel mero arbitrio, esporre in sentenza, sia pur breviter, le ragioni che lo hanno indotto ad una tale scelta di rigore.
Ragioni che, peraltro, potranno essere sindacate di fronte a questo giudice della legittimità, stante la ricordata valenza discrezionale del giudizio ad esse sottostante, solo in quanto espressione di un’opinione manifestamente illogica (nel senso dianzi riportato, di recente: Corte di cassazione, Sezione III penale, 28 marzo 2024, n. 12760, non massimata sul punto).
Nel caso ora in esame la Corte di Bologna ha chiaramente rilevato che, stante il corredo penale che i prevenuti vantavano non poteva che formularsi una prognosi sfavorevole in ordine alla valenza rieducativa e sanzionatoria di una pena diversa da quella detentiva, di tal che, deve implicitamente, ritenersi esclusa la possibilità per costoro di accedere ad una pena sostitutiva, risultando quindi legittimamente non formulato l’avviso ex art. 545-bis cod. proc. pen.
I ricorsi presentati dagli imputati debbono essere dichiarati infondati e, pertanto, rigettati, con la conseguente condanna degli stessi, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2024
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